Le bianche steppe

PIANORO del TAHOI steppa di SARAVAN, 14 luglio.

Arrivati in scialuppa a Bassac, anzi a Ban-Muong di Bassac, località solitaria posta ai piedi di una montagna di milleduecento metri, abbiamo lasciato i canali del Mekong ed abbiamo incominciato ieri l’altro il nostro raid automobilistico Bassac-Hué.

La distanza fra la frontiera del Camboge e la capitale dell’Annam non è grande, trecentocinquanta chilometri scarsi a volo di uccello ma... senza strade! A cavallo si farebbe forse più presto che in automobile, ma bisognerebbe portarsi dietro l’acqua ed i foraggi oltre ad un certo numero di portatori. Ora gli indigeni non vogliono saperne di attraversare il paese degli uomini rossi, nè i cambogesi, nè i laoziani del fiume. Quanto agli uomini della montagna alta essi non servono mai un bianco.

Da Ban-Muong al Picco delle Tigri, v’è una straderella militare mantenuta in esercizio per i rifornimenti di certi posti di polizia del Tahoi: dal Picco delle Tigri al fiume Se-La-Huong v’è una distesa di steppe e di foreste dove, a detta dell’Amministrazione, le automobili possono passare purché sappiano imbroccare la giusta direzione: dopo il fiume incomincia la pianura di gesso del Nam-kok, per la quale la stessa Amministrazione declina ogni responsabilità. Briganti, terreni friabili, cobra, pitoni, leggende paurose e precedenti tragici costituiscono le attrattive della tappa. Una volta arrivati alle frontiere dell’Annam, l’Amministrazione imperiale riprende le automobili sotto la sua materna protezione ed offre loro per raggiungere Hué le vecchie strade «mandarine» della provincia di Thun-Then, sulle quali la trionfante civiltà occidentale ha gettato qualche lastra d’asfalto.

Aggiungo che la traversata della «pianura di gesso» non è obbligatoria, anzi i convogli l’evitano regolarmente passando più a mezzogiorno, fra il monte Saravan ed il monte Sutabali, o seguendo l’antica strada annamita che, con un lungo giro, sbocca ad Ai-Lao. Il nostro itinerario, oltre ad essere teoricamente più breve, ha il vantaggio d’attraversare una regione pochissimo conosciuta, ricca di giacimenti minerari, specialmente di stagno, oro e piombo argentifero. Si tratta di ricchezze che pel momento non sono ancora sfruttate data la mancanza di strade e la difficoltà quasi insormontabile di procurarsi la mano d’opera indigena. È inutile dire che senza la presenza di tali preziosi metalli e la diceria locale dell’esistenza di grandi miniere di zaffiri, noi non saremmo nel Tahoi. Coloro che finanziano il nostro viaggio avrebbero avuto scrupolo d’arrischiare per niente la nostra pelle e, soprattutto, le macchine, i copertoni, la benzina e la rilevante spesa di questo «raid» automobilistico di nuovo genere in un paese senza strade. L’idea degli zaffiri ha messo i banchieri in fregola di generosità. È previsto anche l’abbandono delle automobili in mezzo alla steppa qualora fosse impossibile andare avanti e tornare indietro secondo i prognostici pessimisti del capo posto di Bassac.

Definita così la natura del «raid-lumaca» da Bassac ad Hué, per coloro che amano le cose precise, dico subito agli altri che siamo... in piena foresta vergine! Ma è questa veramente una foresta?

Una stradina sgattaiola in mezzo alla vegetazione tropicale, larga giusto tanto da permettere alle automobili di passare strofinando energicamente le foglie da una parte e dall’altra e stroncando senza pietà i ramuncoli più disinvolti. Guai ad incontrare un bufalo cocciuto che si piantasse in mezzo alla strada com’è la buona abitudine dei bufali dell’Annam! Bisognerebbe aspettare che la smettesse o caricarlo a tutta velocità come una tank per rotolare insieme nella macchia.

Le tre automobili procedono a velocità ridottissima: primo, perchè i bisavoli laoziani si divertivano a fabbricare le loro strade come serpentine, mandandole continuamente da destra a sinistra e viceversa, senza un motivo, per semplice gusto di mattacchioni che non avevano fretta ed amavano le circomvoluzioni; secondo, perchè questa... autostrada invece che d’asfalto è tappezzata di uno strato di foglie marcie e d’un altro di foglie secche. Il tappeto marcio cede sotto le ruote dei veicoli, quello secco scricchiola e rimbalza. Si ha l’impressione simultanea di sprofondare e di saltellare. Il terreno scoppietta sotto i cerchioni come un fuoco di sarmenti. Si procede in mezzo ad un coro di starnuti e di proteste fra due pareti di foglie brontolanti. Certi proiettili vegetali, schiacciati dalle ruote anteriori trovano modo di rimbalzare contro ogni regola d’elasticità proprio sul nostro naso o si divertono a dare un energico buffetto ai lobi degli occhi. Ogni tanto una foglia più vendicativa allunga uno schiaffo che lascia il segno od uno spuntone maligno appioppa una gomitata. È divertente, ma non troppo!

Vi sono alberi biliosi tutti spine e bitorzoli che obbligano le macchine potenti a diventare tartarughe per amore dei poveri parafanghi. Una specie di cactus selvaggio, non contento di tanti riguardi, ha aspettato proprio il passaggio delle automobili per lasciar cadere diversi suoi pomodori putrefatti, carichi di giallo d’uovo e di inchiostro indelebile.

Quando le liane pretendono sbarrarci il passo coi loro nodi sapienti, i radiatori che hanno cattivo carattere si ribellano e con una strattonata distruggono in un secondo il paziente lavoro di settimane e settimane. Una grossa famiglia di funghi ci ha riservato la delizia d’uno scivolone di venti metri, terminato con un urto secco contro la costola sporgente d’una roccia a fior di terra. Gli uomini hanno detto ahi! Ed i motori hanno fatto eco.....

Mentre il Laos superiore, interamente occupato dalle ramificazioni della catena annamita, è tutto un caos di montagne e di foreste vergini, con qua e là una piramide di roccia brulla che s’erge quasi verticalmente sull’anfiteatro, il Laos meridionale che stiamo attraversando è assai meno accidentato. Fra un rilievo e l’altro vi sono grandi spazi piani coltivati a risaie da agglomerazioni di tribù o coperti di boschi selvaggi. Dove, come nel medio Tahoi, l’inclinazione del suolo è sfavorevole alla vegetazione, la foresta è continuamente interrotta da tristi steppe di rovi od addirittura da distese sassose e deserte. Fra il quattordicesimo ed il diciottesimo parallelo il Laos presenta l’aspetto caratteristico d’una scacchiera di selve e di deserti: foltissime le prime in tutta l’esuberanza della produzione tropicale, desolati i secondi come angoli del Sahara.

Durante l’intera mattinata avanziamo nella foresta in uno scenario da centro Africa: verso mezzogiorno ad un tratto la selva muore, come inaridita da un misterioso veleno del sottosuolo: gli alberi si raccorciano, i tronchi si contorcono fantasticamente in convulsioni d’agonia, le foglie s’accartocciano e ingialliscono, gli arbusti si coprono di spine e di spuntoni. Bacche lanose si sfioccano al vento in mille bruscoli pungenti. Gibbosità nude di sassi preannunziano la petraia. Grosse roccie scarne e ferrigne balzano su dal tumulto della terra a galoppare fra i rovi e gli sterpeti. Magri arbusti striminziti picchiettano l’uniformità improvvisa d’un deserto. Ogni tanto il paesaggio s’imbianca e le macchine affondano in un tappeto di gesso, mentre la terra dilaniata mostra il pallore cadaverico delle sue viscere d’argilla.

Mille metri più lontano riappare la foresta, alta, fosca, formidabile. A volte dura per un’ora, a volte invece è una semplice cortina fra due roveti. Il viaggiatore non sa spiegarsi il bosco e non sa giustificare il deserto. Mentre l’occhio ammira la selvaggia bellezza di questi luoghi primitivi che non rassomigliano a nessun altro, lo spirito subisce quel vago timore che si sprigiona da tutte le manifestazioni troppo bizzarre della Natura.

Il nostro geologo ci spiega che questa zona per la natura del suo sottosuolo, dovrebbe essere interamente deserta, ma le grandi alluvioni del Mekong e dei suoi affluenti hanno sparpagliato qua e là nel corso dei millennii i limi fecondi della zona fluviale. Dove s’è ammassata la terra fertilissima del Mekong il sole tropicale ha fatto sbocciare la foresta vergine che s’è ingigantita nella quiete indisturbata dei secoli; dove invece la roccia è rimasta nuda, i calcari mostrano le loro scorze bucherellate dalla erosione centenaria delle acque piovane.

Il suolo, sconvolto in epoche lontanissime da un cataclisma tellurico che fece affiorare alla superficie le profondità della terra, è tutto tagliuzzato da crepacci lividi, da anfratti argentati, da spacchi che lasciano trasparire lucentezze metalliche. Il gesso tritato dai venti incipria i roveti e fa incanutire gli alberi delle forre. Le argille sbavate dalle pioggie chiazzano di latte le roccie ed il terriccio. Certe rupi fiammeggiano al sole come quarzi, altre d’un rosso ardente fanno pensare ai marmi opulenti delle cattedrali.

Ogni tanto un fiore meraviglioso sfoggia tutta la magnificenza del Tropico. Pare che i suoi petali siano verniciati con l’essenza dei metalli. Su lunghi steli duri e flessibili che tintinnano al vento come verghe di acciaio, il «fiore d’oro» erge fra le spine la sua inverosimile corolla di porpora.

In questo paesaggio da tregenda v’è una strada, tracciata chissà quando e chissà da chi. Le tribù della piana che se ne servono pei loro traffici la mantengono in esercizio, ma non è certo un’arteria automobilistica, ah, no! L’ingegnere Puricelli troverebbe qui il suo da fare. Un po’ le nostre ruote slittano su velluti di foglie, un po’ salticchiano su grattugie di sassi: si passa alternativamente dalla sensazione delle montagne russe a quella degli ski, del mal di mare e della «panne» irrimediabile: certi scossoni secchi fanno l’effetto di pugni nello stomaco; spesso bisogna scendere ed aiutare i veicoli a superare i mali passi. Il nostro «raid» si riduce in pratica ad un servizio di facchinaggio, con piccoli esperimenti di massaggio interno per ippopotami.

Durante lunghi tratti il suolo è tutto vertebrato come il dorso di un asino tubercoloso; in altri, invece, grandi lastroni levigati s’alternano a spiazzi farinosi, nei quali le ruote s’affondano ed i motori si dichiarano vinti. Sovente un cespugliaccio di spine sbarra la strada e bisogna raderlo con le accette per non chiedere a Pirelli un miracolo.

Non so se le macchine giungeranno a destinazione ed in che stato! Quanto alle nostre povere ossa esse si ricorderanno per almeno quindici giorni delle strade imperiali del Tahoi.

Si passa successivamente dall’ombra umida della foresta al bruciante ardore della petraia. L’ombra è cupa, intensa, quasi fredda, come se tutt’all’intorno, per chilometri e chilometri, si stendesse l’ombrello formidabile d’un bosco selvaggio. La petraia è ardente, aspra, implacabile, come se un immenso deserto s’allargasse all’infinito.

Qua il fogliame è spezzato bruscamente da un improvviso vomito di roccie, là una galoppata satanica di macigni è troncata da un ciuffo di alberi giganti. Si ha l’impressione d’un paese sconvolto poche ore prima da una catastrofe. Sono migliaia d’anni che è così! Non un uccello nel cielo infiammato, non un animale nella macchia maledetta, ma una quantità incredibile di biscie, di ramarri, di lucertole, di enormi ragni pelosi, di rettili invisibili che fanno tremare misteriosamente gli arbusti. Fra sterpo e sterpo sono stese le tele interminabili dei ragni, alle quali la polvere di gesso dà l’aspetto di panie insidiose messe lì per invischiare i violatori del Tahoi.

Non v’è differenza di temperatura fra la notte e il giorno: trentadue gradi al tocco, trenta alle ventiquattro. E siamo in luglio, cioè in un buon mese. La stagione peggiore è da marzo a giugno, quando avere quarantacinque gradi all’ombra è la regola.

Angkor – Ruderi.
Angkor – Ruderi monumentali semi sepolti dalla foresta.

L’asprezza del suolo e la severità del clima spiegano la straordinaria rarità della popolazione del Laos: appena un milione di abitanti in trecentomila chilometri quadrati, la superficie cioè dell’Italia. Le statistiche segnalano circa trenta gruppi etnici diversi, ma in pratica possono essere riuniti in due grandi famiglie: i Thai di razza mongola ed i Kas di razza autoctona.

Questi ultimi che offrono un interesse speciale per lo studio delle genti asiatiche, presentano misteriose affinità con gli aborigeni delle isole del Pacifico. Secondo la tradizione locale il Laos sarebbe la culla della razza autoctona del Pacifico ed il tipo vi sarebbe rimasto purissimo, esente da qualsiasi mescolanza. Ancora oggi basta una piccolissima fusione di sangue perchè una intiera famiglia sia radiata dalle tribù della montagna ed obbligata a scendere nelle valli. I Kas non hanno nè il tipo mongolo nè quello indocinese. La loro epidermide color mattone ricorda le pelli rosse del Nord America. Robusti, alti, feroci, bellicosissimi, sprovvisti di qualsiasi organizzazione amministrativa anche rudimentale, vivono patriarcalmente obbedendo al più vecchio della tribù. Le donne sterili diventano fattucchiere ed esercitano una specie di funzione direttiva sul resto degli abitanti.

La loro religione si riduce ad un vago culto dei Draghi e dei Geni, nei quali adorano rispettivamente le forze malefiche e benefiche della natura. Le loro capanne sono costruite su palafitte anche nei luoghi asciutti ed in montagna. Unico lavoro agricolo la coltivazione del riso. Certe tribù vivono però esclusivamente di caccia e di razzìe. La tribù dei Cedang, che abita l’altipiano di Sidone, non ha avuto finora nessun contatto nè con gli europei nè con i cinesi. I loro traffici sono sviluppati dai meticci di razza Kas ai quali è vietato come a qualunque altro di sorpassare certi limiti della montagna.

In questi giorni abbiamo incontrato solamente tre Kas meticci che raccoglievano in un valloncello la resina degli stik-lak selvaggi. Abbiamo offerto loro qualche dono per aggraziarceli, ma hanno rifiutato dichiarando che era proibito.

— Proibito da chi?

Hanno accennato vagamente con la mano qualcuno che abita sulle montagne.

— Perchè? Noi siamo vostri amici...

— «Non mangiamo il vostro riso» — è stata la risposta enigmatica dei Kas.

Nudi, con solo una striscia di lanetta intorno alle reni ed una pezza sudicia al collo, il volto duro, ma non sgradevole, i denti limati a fior di gengiva e laccati di nero, ci guardavano con diffidenza socchiudendo continuamente un occhio. Quando hanno sentito lo scatto dell’obbiettivo che li ha fotografati, sono scappati a gambe levate e non li abbiamo rivisti più.

Accampiamo per la notte in un pianoro di gesso. I fari delle automobili illuminano la steppa e tengono in rispetto i rettili del vicino roveto. Dopo un tramonto rapido ed incolore, seguito da un crepuscolo velocissimo, il cielo s’è ricamato d’oro per la magia della notte tropicale. Frequenti lampi squarciano le profondità cariche di ardore.

Nell’ora stanca che chiude una giornata faticosa e precede il riposo d’una notte troppo calda, il mio spirito subisce il fascino bizzarro della steppa laozina. Il chiarore fa uscire dall’ombra i Draghi ed i Geni adorati dalle tribù. Nel silenzio sovrano della notte sento il riso malvagio dei rovi che litigano con le spine. Il vento dà al brivido dei cespugli il tintinnìo macabro degli scheletri appesi nelle sale anatomiche quando sono mossi da una gomitata.

I soffi dello spazio giocano con le arene bianche della pianura, le accarezzano, le sfarinano, le lasciano un istante immobili, poi ricominciano il loro lavoro eterno.

Verrebbe voglia di pensare al Sahara, al Sahara bianco delle saline di Tuadeni, ma l’atmosfera del deserto è secca, asciutta, purissima, mentre qui la vicinanza della foresta inumidisce l’afa della notte canicolare. Il respiro della pianura di Tahoi è cattivo. La putrescenza dei boschi circostanti satura l’aria di miasmi. Intorno ai fari accesi turbinano a migliaia le zanzare e le falene microscopiche della steppa.

La luce elettrica è stranamente verde su la sabbia bianca, stranamente violetta sulle roccie lucenti.

Le tre automobili storpiate dall’inclinazione del terreno sembrano piccole e ridicole in mezzo alla grandiosità dello scenario. Una carovana mista di cammelli e d’elefanti sarebbe più intonata all’ambiente. Vi è un contrasto potente fra le torpedo che evocano i rettilinei d’un circuito di velocità e questo deserto di farina punteggiato di macchie e di macigni che fa istintivamente pensare alle epoche primitive del globo.

Le leggende dei Kas che popolano questi luoghi di Draghi e di spiriti mi sembrano meno inverosimili ora che la bianca pianura illividita dalla luna ed ingigantita dal silenzio mi si mostra in tutta la sua grandiosità.

Laggiù, dove le montagne formano nella notte come una muraglia di pece, sono gli altipiani abitati dai Cedang, gli altipiani nei quali nessun bianco è ancora penetrato! Quelli che hanno osato sono morti! Le loro mani imbalsamate sono state misteriosamente restituite ai compagni. I comandanti dei posti militari le hanno trovate una mattina sulla loro scrivania.

Quando si nominano le Montagne Rosse dei Cedang i poveri Kas impallidiscono ed i loro occhi esprimono lo sgomento. Pare che ad ogni luna le donne sterili della tribù dei Cedang, guidate dalle fattucchiere, si dirigano verso le montagne, sole, senza nessun uomo, dirette ad un tempio favoloso che sorge nelle alte valli. E nove mesi dopo il pellegrinaggio, salvo eccezioni rarissime, la nascita d’un figlio documenta la potenza delle divinità della montagna.

Le notizie che si hanno su questo tempio miracoloso sono quanto mai inverosimili, ma concordi. Le donne sterili sono chiuse ognuna in una cella in compagnia di una statua rossa. Un beveraggio le addormenta. La statua le feconda durante il sonno. Al mattino ripartono per la sede della tribù e pian piano l’arrotondarsi del ventre attesta il miracolo.

Secondo i missionari del Laos gli Iddii Rossi del Cedang potrebbero essere una tribù di uomini primitivi, muscolosi e potenti, rimasti allo stato selvaggio negli alti valloni della montagna. Una corporazione di fattucchiere li manterrebbe segregati dal resto degli uomini come una riserva di maschi divinizzati. Il loro sangue gagliardo feconderebbe periodicamente la razza Kas perpetuando il colore mattone-cupo della loro epidermide e mantenendola robusta a differenza di tutte le altre genti della Indocina che sono infrollite dall’oppio e dal clima. I Kas sono infatti alti, vigorosi, atletici, audaci e guerrieri.

Nell’incredibile leggenda vi deve essere un fondo di verità incontrollabile, qualche cosa che sfugge al nostro raziocinio di uomini moderni, ma che corrisponde alla stranezza di questo paesaggio notturno illividito dalla luna, in mezzo al quale i baobab giganti sussurrano le canzoni della foresta vergine ed i venti scrivono sulle sabbie bianche le canzoni dei deserti!

Certi meticci guadagnati al cattolicesimo hanno dichiarato ai missionari d’aver visto gli uomini rossi del Cedang. La loro carne sarebbe «come il fegato del montone appena macellato» ed i loro occhi ardenti come le pupille della tigre. Essi avrebbero il dorso, il petto e le gambe interamente coperti d’un pelame rossiccio e s’esprimerebbero solamente con lunghi gridi gutturali. I Cedang, nati nel mistero del Tempio Rosso sarebbero, in genere, più forti degli altri uomini della tribù, più destri alla caccia e più valorosi nella guerra. Però i missionari del Kam-Keut coi quali ho parlato mi hanno detto che la testimonianza dei meticci ha poco valore in quanto facilmente suggestionabili finiscono col credere fermamente d’aver visto o fatto ciò che hanno solo sentito raccontare diverse volte nelle veglie delle capanne.

Solo la conquista completa del Laos potrà permettere alla scienza di determinare la portata di questa credenza kas. Quando a Pnom-Pen un vecchio colono m’ha raccontato per la prima volta la storia del Tempio Rosso dei Cedang, sorseggiavo un eccellente «vermouth» italiano, ben ghiacciato, profumato da una strisciolina di buccia di limone. L’orchestrina del caffè strimpellava: – Je cherche après Titine... Titine – e gli strilloni annunziavano la nomina di Caillaux a ministro delle Finanze. Io sorrisi agli effetti d’un «vermouth» ghiacciato su la feracità immaginativa d’un vecchio colono abbrutito dell’Indocina.

Più tardi anche i racconti dei missionari del Kam-Keut mi lasciarono incredulo.

Stanotte, qui, in mezzo al silenzio sovrano della steppa di Tahoi che il riflesso lunare irrora d’una fantastica luminosità color malva, dinanzi a questo paradossale scenario di boschi e di deserti, di rupi in battaglia e di bianchi tappeti, la storia o leggenda degli uomini rossi mi sembra meno imbecille.

Forse non mi meraviglierei se sulla cresta aguzza degli schisti galoppanti nel roveto apparisse improvvisamente l’alta figura d’un uomo peloso, agile e quadrato, contemporaneo di Adamo, e gettasse nel silenzio il grido selvaggio del suo desiderio infantile per i tre giuocattoli di ferro e di tela incerata che noi chiamiamo «automobili!».

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