Nel decrepito Annam

HUE’, 10 agosto.

Appena usciti fuori dalle foreste e dalle petraie del Tahoi, il paesaggio riprende di colpo l’aspetto lindo e ridente che aveva nel Camboge, come se il deserto bianco, i Kas, la foresta paurosa, fossero solo una breve parentesi selvaggia. Ricompaiono le scacchiere colorate dei campi coltivati a cereali e lo scintillìo infinito delle risaie. Si rivedono i villaggetti civettuoli dell’Indocina con la pagoda sbilenca dal tetto di porcellana rossa e gli archi di legno, gialli o violetti. La razza umana si rimpicciolisce e si ingiallisce, ha l’aria d’accartocciarsi improvvisamente e d’invecchiare, in poche ore, di molti secoli. Nelle nicchie di maiolica ricominciano a sorridere i Buddha placidi della Cina.

Le strade, bordate di canali, s’allargano. Le nostre automobili, ridotte male in arnese dalle boscaglie e dagli sterpeti del Tahoi, riprendono lena sui tappeti di polvere dello «stradone mandarino» che dalle frontiere del Laos conduce alla capitale dell’Annam.

Quando dall’altipiano laoziano, vergine e selvaggio, abitato dagli uomini nudi che adorano la tigre e cacciano l’elefante, s’arriva in due ore in vista dei merli centenarii di Hué e si passa sotto la porta imperiale del Wragone, dinanzi alla quale un graduato francese chiede ai viaggiatori se hanno dazio da dichiarare, si ha l’impressione di fare un salto di almeno trenta secoli, di balzare fantasticamente dal centro del Congo alle porte d’una metropoli moderna! Solamente cento chilometri separano la capitale spirituale e raffinata dell’Annam dal bastione selvaggio del Tahoi, cento chilometri che le macchine divorano in un baleno, per cui dall’ultimo uomo nudo che abita la capanna di bambù si passa senza intermezzi al letterato-mandarino vestito di seta che medita sulla filosofia di Lao-Tzé; dall’umanità ancora infantile a quella decrepita, dai ragazzoni selvaggi che giuocano a palla coi frutti della foresta vergine, ai vecchi infrolliti dall’oppio che si dilettano di avorii cesellati e di meditazioni ancestrali: un abisso sul quale le automobili gettano strombettando la loro velocità.

E si rimane male! Quando dai villaggi cafri si arriva per esempio ai primi avamposti della colonizzazione boera, gli uomini bianchi coi quali ci si imbatte hanno un non so che di selvatico nella loro maschia esuberanza: cafri e coloni sono sempre gli uomini della foresta vergine, i soldati della grande battaglia contro la Natura primitiva. Se i primi sono infallibili nello scoccare la freccia, i secondi sono maestri nel colpire un bersaglio con la carabina: gli uni e gli altri sanno dormire sulla terra nuda ed affrontare le fiere, abbattono gli alberi, sfidano col petto forte, cotto dal sole, i venti e le pioggie, spaccano coi muscoli potenti l’ebano e la roccia, dominano su un fragile schifo di betulla le correnti gorgoglianti del grande fiume popolato di coccodrilli.

Fra i Kas del Laos e le marionette sorridenti dell’Annam non v’è nulla invece che rappresenti un tratto qualsiasi d’unione: gli uni sono all’antitesi degli altri, troppo giovani i primi, irrimediabilmente vecchi i secondi. Il salto è brusco, violento, paradossale. Si ha quasi l’impressione che l’orizzonte si restringa, che fantastiche quinte si precipitino a limitare le lontananze, che l’aria sia meno pura ed i polmoni meno liberi, che...

Un «sergent de ville» che ci aveva fatto segno con la mazza di diminuire la velocità fischia e rifischia furiosamente, richiamandoci al rispetto della legge. Lo spettro della multa sovrasta le torri imperiali. Dimenticavamo che l’altipiano selvaggio di Tahoi è lontano assai, che ormai siamo prigionieri della civiltà millenaria dell’Estremo Oriente, aggravata dalla civiltà poliziesca dell’Estremo Occidente...

E per un momento abbiamo la sensazione che anche la vita selvaggia degli uomini nudi ha i suoi lati simpatici!

Un ponte unisce il quartiere europeo di Hué alla città indigena, un ponte di ferro stile «Torre Eiffel», rigido, barbarico, senza neppure una coppia di dragoni o di elefanti che allaccino comunque architettonicamente i due mondi, la città imperiale delle pagode con la borgata delle Sociétés de Commerce e dei Commissariats de Polìce.

L’acqua dell’Huong-giang, nella quale i palazzi meravigliosi degli imperatori dell’Annam specchiano le loro facciate contorte e le loro cupole bizzarre, acqua regale cantata da tanti poeti, riprodotta sulle lacche e sulle giade da tanti artisti in un brivido indefinibile di trasparenze, è chiazzata d’olio, bruttata d’immondizie galleggianti, profanata dagli spurghi dei barconi e dai rifiuti dei cantieri che ergono sul «fiume filosofico» le loro attrezzature di acciaio ed i comignoli fumosi di cemento.

Sembra che i ricostruttori del quartiere europeo abbiano fatto apposta a far brutto; hanno allineato proprio in faccia al blocco degli edifizi imperiali una serie di «hangars» coi tetti di ardesia a punta gotica, sui quali s’erge trionfante la tettoia vetrata del Mercato, hanno messo bene in vista un piccolo tempietto di zinco destinato alle minute occorrenze della povera umanità di passaggio, hanno approfittato del dorso piatto d’una casaccia per tingerlo d’un terribile bleu-roi e spennellarci su in giallo-uovo la pubblicità di una fabbrica di saponi.

L’albergo del «Cavallo bianco», col candido corsiero dipinto fra le due finestre di centro, commovente omaggio d’un espatriato alle vecchie locande di Tolosa e di Carcassonne, ci accoglie sotto la pensilina provinciale di vetro smerigliato. Il padrone marsigliese, ci riceve con dignità spagnolesca ed una specie di «groom» si precipita ad aprire le nostre portiere scardinate dai viottoli rupestri del Tahoi.

Ormai siamo ritornati nel mondo civile!

Hué, la vecchia capitale del Sud-Pacifico, è rimasta sdegnosamente appartata dalla capitale moderna del Protettorato. Al di là del ponte barbarico un arco annamita di legno con le grandi corna inverosimili dipinte d’azzurro segna il limite oltre il quale è proibito costruire senza un permesso speciale dell’imperatore che non ne accorda mai nessuno.

Una chiusa filtra l’acqua dell’Huong-giang che, tornata chiara oltre il ponte, riprende l’antico nome di «Fiume dei Profumi». Appena il viaggiatore s’inoltra nelle stradine quiete e pittoresche della città, è sedotto dal fàscino sottile che si sprigiona dalle pagode, dai giardini, dalle vecchie case, dagli archi e dalle balaustre di legno dipinto, dai ballatoi di porcellana, dai gruppi colorati della gente che cammina con lentezza o si attarda a recitare un bruscolo di preghiera dinanzi alle nicchie.

Hué non fu costruita per sbalordire con templi monumentali e con palazzi chiassosi, ma per esprimere nella pietra una astrazione filosofica, per assicurare agli imperatori ed ai dirigenti un «ritiro» favorevole alle lunghe meditazioni ed alle sagge assemblee.

Lilla e girasoli orlano le sponde tranquille del fiume. L’acqua s’insinua quietamente fra i giardini, lambe le vecchie muraglie merlate di draghi e tappezzate di muschi, fruscia lungo le scalinate delle pagode sulle quali montano la guardia elefanti di granito e tigri di porfido, circonda i chioschi lillipuziani costruiti sugli scoglietti, riflette nei suoi infiniti specchi fuggenti la grazia degli archi che sembrano fragili e dei padiglioni che paiono ombrelli di carta, ma che stanno lì da parecchi secoli. Piccoli canali serpeggiano entro parchi misteriosi a bagnare tombe e mausolei od a formare microscopici laghetti vegliati da un Genio che sorride sotto un pino nano del Giappone.

Ogni tanto un seggio di granito invita il passante a sedersi ed a meditare.

A differenza di tutte le altre capitali, la località fu scelta dai fondatori di Hué non per considerazioni di ordine politico, strategico od economico, ma per ragioni di carattere magico, come punto di concentramento delle influenze ancestrali dell’Annam. E quest’origine diremo così spiritica della città è impressa nella fisonomia dei suoi quartieri ombrosi e tranquilli, nel raccoglimento dei palazzi che hanno l’aria di sdegnare la strada, che si riparano dal sole con molteplici ordini di tettoie e dalla curiosità dei passanti con muretti e paraventi di legno, nella pace degli annosi giardini dai viali invisibili, nello spesseggiar dei boschetti, nell’abbondanza delle pagode, degli altari, delle statue, delle pietre votive, nell’andare placido e cogitabondo degli abitanti che paiono costantemente assorti in gravi meditazioni, nel numero incredibile di tabernacoli dinanzi ai quali i fiori sempre rinnovati dalla pietà dei fedeli non hanno il tempo d’appassire.

L’abbigliamento uniforme della gente minuta è come il saio di una regola, mentre i paludamenti sfarzosi dei mandarini, dei funzionari, dei soldati imperiali, degli scriba di Palazzo, dei mercanti facoltosi, si intonano squisitamente a questo scenario di abbazia asiatica. L’atmosfera è satura d’incenso. Il linguaggio cantato degli abitanti fa pensare ad un continuo recitar di salmi per un ufficio perenne che dura quanto l’esistenza della razza; l’inchino facile e riverente ricorda l’abitudine dei chierici a genuflettersi dinanzi a tutte le nicchie ed a tutte le immagini; l’untuosa cerimoniosità dei pubblici ufficiali e dei mercanti ha un non so che di ecclesiastico che evoca l’atmosfera degli ambienti romani di Curia. Il complimento è a fior di labbra ed uno strano sorriso stira gli angoli di tutte le bocche anche quando i volti vorrebbero essere serii.

Uomini e donne vestono quasi identicamente d’un pantalone e d’una tunica che scende fino ai ginocchi. I capelli lunghi sono rialzati a treccia sulla nuca e fermati da un pettine. Solo la forma del copricapo differenzia i due sessi, a paralume quello degli uomini, a pentola quello delle donne. Freddi, sottili, ironici, naturalmente alieni dalla violenza e dal chiasso, apparentemente docili, gli annamiti si lasciano governare senza difficoltà, ma il loro perenne sorriso è spesso un feroce sarcasmo di fronte al quale l’osservatore rimane sconcertato.

In seguito al colpo di Stato del 1916 che culminò nel burlesco tentativo pangermanico di rivolta dell’imperatore sedicenne Si-Fung, il trono dell’Annam è attualmente occupato dal principe Fung-Hoa, il quale, secondo la consuetudine annamita, ha assunto il titolo di Kai-Din che significa «Era di progresso». Ammaestrato dall’esperienza del re Sisovat del Camboge, mi sono ben guardato dal chiedere al monarca dell’Annam una di quelle insipide udienze private che questi sovrani asiatici sogliono accordare ai giornalisti di passaggio, sotto il controllo di un ufficiale superiore della Residenza, banalissimi minuti di conversazione durante i quali non si sa chi sia più imbarazzato, se il grazioso sovrano od il povero giornalista che non sanno cosa dirsi e finiscono per parlare del cattivo tempo o di un monumento qualsiasi dei dintorni. Ho invece domandato di assistere a qualche cerimonia di Palazzo e spero di essere accontentato.

Nonostante l’onnipotenza della nazione protettrice, la quale non mette i guanti per esercitare il potere, il monarca è idolatrato dai suoi sudditi che vedono nella persona dell’imperatore il rappresentante del vecchio Annam, il discendente dei grandi antenati che fecero prospero e glorioso l’impero. L’imperatore è il simbolo della razza. Il culto dei morti, fondamento della religione annamita, unifica il rispetto pel sovrano regnante con la venerazione dei monarchi divinizzati del passato.

L’autorità imperiale non è limitata nell’Annam da nessuna legge scritta, ma l’assolutismo dell’autocrate è temperato in pratica dai doveri della dottrina confucista. I testi sacri ed i precetti dei filosofi hanno forza di legge anche pel sovrano, anzi egli deve dare l’esempio della loro scrupolosa osservanza, altrimenti il popolo ha diritto di ribellarsi contro colui che, trasgredendo ai riti, venne meno alla missione affidatagli dagli antenati! Quattro ministri e due «letterati», che hanno il titolo di «colonne dell’impero», condividono col monarca le cure dello Stato. Nove classi di mandarini formano l’impalcatura burocratica e militare del regime. Le loro funzioni non sono ereditarie, giacché l’Annam non ha come il Giappone una aristocrazia privilegiata. I titoli nobiliari si esauriscono alla terza discendenza se le persone che ne sono insignite non eccellono per meriti politici, militari o letterari. Qualunque figlio di villaggio può aspirare alla carica di «colonna dell’impero» e raggiungerla gerarchicamente, anzi, in pratica, il successo di una persona intelligente è più facile nell’Annam che nelle società occidentali, perchè assai minore è il numero delle circostanze occasionali che influiscono sulla riuscita di un individuo.

La civiltà annamita ha raggiunto un equilibrio sociale che le comunità d’Occidente sono ben lungi dal possedere. Base di essa è che ognuno è contento della propria situazione, egli stesso ed i suoi antenati essendone i soli responsabili! La propaganda bolscevica che riesce a turbare superficialmente anche la millenaria società cinese, non ha presa sullo spirito annamita. Il rispetto della legge è profondamente radicato nella coscienza del popolo e si confonde con quello dell’autorità imperiale e della divinità. L’uomo colto – il letterato – è circondato dalla stima e dalla venerazione generale anche se povero od umile. Il padre è il capo naturale della famiglia e l’avo esercita un’autorità indiscussa sull’insiemi delle famiglie discendenti. L’imperatore essendo per diritto divino il capo di tutte le famiglie è naturalmente il capo del paese.

Le forme esteriori dell’autorità si confondono con l’autorità medesima. La presenza di un mandarino non è necessaria in una cerimonia, bastano il suo parasole ed il suo palanchino per presenziarla. L’imperatore è presente ovunque sventola il labaro col Dragone. L’amministrazione imparziale della giustizia, secondo i precetti dei saggi e gli ammaestramenti dei filosofi, è assicurata automaticamente dal controllo del pubblico. Dieci reggimenti sarebbero insufficienti a far rispettare un magistrato che avesse perso la considerazione dei suoi amministrati. Suprema ambizione del re è di essere chiamato «saggio» dai suoi sudditi. La saggezza è per gli annamiti il culmine della perfezione umana.

Si capisce quindi come i rapporti fra il Residente francese ed il Sovrano non siano così facili come nel Camboge, data la necessità di conciliare le esigenze di una amministrazione coloniale europea con l’osservanza scrupolosa dei riti e delle consuetudini secolari che fanno parte del patrimonio spirituale del popolo e costituiscono la sua Morale. Ogni qualvolta la Potenza occupante ha cercato di forzare la mano all’autorità imperiale è stata paralizzata da una tacita resistenza che si irrigidiva spontaneamente dal Trono alle più lontane risaie.

A Corte il cerimoniale è complicato e severissimo. L’entità di una scorta od il numero di parasoli che deve accompagnare un dignitario assumono l’importanza di un fatto politico, in quanto hanno agli occhi della folla un significato tradizionale che non consente novità. Quando nelle grandi ricorrenze l’imperatore del Sud-Pacifico si presenta in pubblico dinanzi ai suoi sudditi con tutti gli attributi della sovranità, la venerazione popolare assume una potenza impressionante. Il primo ministro è parificato dinanzi all’imperatore all’ultimo facchino. La personalità del monarca sparisce nello splendore del Trono. In esso il popolo non vede nè un uomo nè una dinastia, ma la Legge, cioè l’essenza dei secoli che furono e che hanno lasciato ai discendenti il retaggio della loro saggezza.

Il sole volge al tramonto quando salgo i sette piani dorati della Pagoda di Confucio, su per una scaletta che sembra un merletto di legno che scricchiola dolcemente ad ogni gradino. La balaustra è levigata dal passaggio dei secoli. Il sudore di sei generazioni ha penetrato il legname, trasformandolo in una materia indefinibile che ha il colore della tartaruga. Ogni tanto un’apertura permette di gettare uno sguardo all’interno, nella penombra mistica del grande tempio pavesato di vecchi stendardi. Una umanità piccina è accoccolata dinanzi agli altari ed agli incensi.

A mano a mano che si sale, Hué scopre le sue bellezze ingemmate dal sole morente. Vista di lontano anche la ridicola Officina delle Acque, costruita da un architetto del ventesimo secolo in stile «vecchio Annam» col comignolo mascherato in torre cinese, sembra una vera pagoda. L’occhio spazia sui giardini geometrici fioriti di frangipani, in mezzo ai quali i tetti di porcellana gialla od azzurra, disegnano macchie violenti, segue il serpeggiamento dei merli e delle torri attraverso l’ammasso del fogliame, l’intreccio dei canali, la successione dei ponti; si sofferma sulle rotonde di maiolica lucente sormontate da un parasole di seta sotto il quale un Buddha è accovacciato nella posa uniforme millenaria; viola i misteriosi cortili delle dimore principesche, gl’interni laccati delle verande mandarine, abbraccia i cento archi che spezzano con la loro tinta gialla il verde dei prati, i chioschi, i padiglioni, i laghetti, le vasche di porcellana, le fontane, le aiuole splendenti di fiori tropicali, tutto lo scenario fantastico di Hué fino alla cintura degli stagni che chiudono la città morta in una cornice di putredine.

Nascosto da una cortina di boschetti, il quartiere europeo non riesce a turbare la poesia del quadro, uno fra i più suggestivi dell’Estremo Oriente. La collina del «Vento prezioso» sfumata dall’evaporazione delle paludi, erge sulla pianura pazzamente verde del Nguèi-Biù la sua sagoma buffa a pan di zucchero, guarnita sul cocuzzolo da un ciuffo di pini. Ho dinanzi agli occhi in tutta la sua formidabile stranezza uno di quei paesaggi inverosimili che ornano i vassoi di lacca ed i paraventi di seta. L’atmosfera stessa è incerta, velata, acquosa, come negli smalti e nelle giade....

Un corteo di elefanti esce dalla porta della «Verità Splendente» e si snoda sul nastro verde del «Ponte del Cielo». L’acqua del «Fiume dei Profumi» travolge sotto gli archi del ponte la gioielleria del tramonto. Una barca risale la corrente. I «gong» delle pagode conversano nel silenzio, musica di rombi ovattati, sotterranei, lontani, dialogo ancestrale dei secoli, sempre eguale dal primo all’ultimo re della dinastia...

Il vento agita i ventagli delle palme d’acqua che listano il fiume ed i canali fino al mare. L’oceano occupa le lontananze col suo infinito smeraldo.

Il nuovo Annam si sviluppa nei borghi del litorale e nei quartieri industriosi di Turana, dove pullulano i cinesi e dove gli annamiti incominciano a perdere col rispetto pel padre anche la morale profonda della razza, ma Hué conserva ancora inalterata la sua bellezza antica. Forse quando la linea ferroviaria attualmente in costruzione, avrà allacciato la capitale ad Hanoi ed a Saigon, al Tonkino progressista ed alla Cocincina industriale, forse allora anche Hué morirà! Gli «alberghi-palace» ergeranno sul «Fiume Filosofico» le loro facciate pretenziose di cemento e di stucco! Un volgare tram trascinerà il suo stridore di ferraglia in mezzo al silenzio dei giardini! Forse! Chi può assicurarlo?

Il vecchio Annam possiede una straordinaria forza di resistenza. La sua stessa gente gracile e giallognola par fatta di sopravvissuti, razza che ormai non può più morire perchè è già morta da molti secoli. La civiltà moderna scivola sullo spirito tradizionalista degli annamiti come la mano su una superficie di avorio. Dotati di meravigliose capacità imitative gli indigeni ci copiano, ma restano «vecchio Annam». Mercanti della costa che paiono arrabbiati busines-men occidentali chiudono un giorno improvvisamente bottega e si ritirano a coltivare risaie. Funzionari educati nelle scuole francesi che paiono penetrati fin nelle midolla dallo spirito d’Occidente, giunto il momento della pensione riprendono la tunica dei padri.

Il futuro imperatore dell’Annam sta compiendo la sua educazione a Parigi e la completerà a suo tempo nelle boites de Montmartre e al pesage di Deauville. Il est tout à fait parisien, assicurano i giornali di Francia. Sì, parigino, ma con gli occhi obliqui e con le guancie di porcellana. Ne ho conosciuti altri, a Biarritz, a Dinard, chez Maxim della Rue Royale, gialli europeizzati che sembravano definitivamente abituati ai costumi d’Occidente: li ho ritrovati in Cocincina, nel Camboge, nel basso Laos, in fondo ad un vecchio palazzo, vestiti di seta e calzati di raso, irriconoscibili, «gialli» più che mai, intenti a scrivere col pennello sui lenzuoli di seta i precetti di Confucio e le poesie leggendarie degli Yang! Anche al principe imperiale accadrà qualche cosa di simile quando la morte del padre lo richiamerà ad Hué per cingervi la corona del Grande Dragone dai cinque artigli.

I francesi hanno creduto di rimediare alla loro mancanza di uomini con la così detta politique coloniale de collaboration. Non so quali risultati finali darà nell’Africa settentrionale ed occidentale, ma sono assolutamente pessimista. Quanto all’Indocina, si può dire fin d’ora che la dominazione francese non lascierà nessuna orma profonda del suo passaggio. Ancora oggi la Francia non ha compreso l’Indocina. Se domandate ad un annamita la sua opinione, ad un letterato o ad un mercante di terrecotte, riceverete invariabilmente per risposta un sorriso, un terribile sorriso dell’Annam.

— Voi rappresentate un grande pensiero di attività e di creazione: noi siamo un grande pensiero di meditazione che si compiace nel raccoglimento delle cose morte. — Queste parole pronunziate dall’imperatore Kat-Din a Parigi durante un ricevimento del Presidente della Repubblica mi vengono spontanee alla mente, mentre dall’alto del settimo tetto della Pagoda di Confucio contemplo la città imperiale pavesata delle porpore del tramonto.

Le linee dei palazzi e le ombre dei giardini si stemperano nella gloria del sole. Qua e là una cupola di porcellana fiammeggia ed un arco bizzarro dipinto coi colori dell’arcobaleno incornicia lo smalto di un albero troppo verde.

La pianura dei morti domina colla moltitudine sterminata delle sue tombe anonime, il crepuscolo di Hué...

Cocincina – Sampan sul Mekong.
Delta Tonkinese – Villaggio indigeno.

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