Piccole considerazioni spiacevoli

PNOM-PEN, 1 luglio.

Il destino m’è favorevole. Del resto luglio è stato sempre per me un mese mascotte. Fino ad ieri sera pareva che da Pnom-Pen dovessimo ritornare a Saigon e lì imbarcarci su un piroscafo qualsiasi a destinazione di Haifong. Avremmo cioè seguito l’itinerario tradizionale dei sacchi di riso che dal Camboge vanno al Tonkino. Almeno i piroscafi avessero la grazia di costeggiare la costa bellissima dell’Annam! Ma che! Conosco il sistema. Appena fuori del fiume le navi presentano irriverentemente la poppa alle terre imperiali del Sole-Mattino e tagliano pel mare di Cina verso le foci del Fiume Rosso.

Ma ieri è giunta finalmente da Saigon l’autorizzazione del governo coloniale di risalire il Mekong in scialuppa a vapore fino a Bassac sulla frontiera del Laos, attraversare quindi in automobile il Tahoi semi selvaggio, raggiungere per le vecchie strade mandarine Hué capitale dell’Annam, di lì proseguire sempre in automobile per Vinh, dove un tronco ferroviario ci permetterà di raggiungere rapidamente Hanoi, capitale del Tonkino.

Il Laos è certo una delle regioni più interessanti dell’Indocina, la meno conosciuta e la più pittoresca. Benché la zona più selvaggia sia quella dell’antico regno di Luang-Prabang sui confini della Birmania, anche il Tahoi e tutta la vasta pianura dei principati laoziani offrono al viaggiatore le potenti attrattive di una terra quasi primitiva, abitata da gente fiera e selvatica che è assoggettata agli europei solo pro forma, con qua e là le vestigia paradossali di antichissime civiltà scomparse che fanno contrasto all’attuale semi barbarie.

Per la letteratura ufficiale il Laos è la regione più arretrata dell’Indocina e ci vorranno parecchi lustri prima di educare i sauvages des hauts plateaux alla famigliare convivenza coi bianchi. Per molti viaggiatori invece il Laos, con le sue tribù bellicose e robuste, è il grande serbatoio umano dell’Indocina, dal quale al momento voluto scaturiranno le forze etniche necessarie per mascolinizzare le genti frolli ed effeminate del basso Mekong.

Finora solo qualche scrittore francese ha avuto la fortuna di poter visitare minutamente le steppe del Laos e nessun giornalista italiano, che io sappia, ha messo i piedi nel famoso deserto di gesso del Se-La-Uong.

Dico «giornalista» perchè sarebbe azzardato dire altrimenti, dato il formidabile spirito avventuroso dei nostri connazionali che sovente senza pubblicità e magari senza che nessuno lo sappia, si spingono superbamente in cerca di lavoro o di fortuna dove non passa nessuno. Un dì arriva ad una vecchietta di Canicattì o di Cotrone una lettera con tanti francobolli e timbri d’oltre mare, nella quale il figlio annunzia d’aver trovato lavoro per esempio sull’altipiano di Pu-hac. Il parroco ed il segretario comunale interrogati da una comare sull’ubicazione di Pu-hac rispondono: «In Cina!».

Cina sovente è sinonimo di lontano assai.

Pel segretario comunale Pu-hac è come Scianghai: ma a Scianghai ci s’arriva in piroscafo di lusso e si scende al Palace, mentre i due italiani di cui un sottotenente francese mi segnala la presenza nel Pu-hac non si sa come siano arrivati laggiù. Pare che si tratti di due cercatori d’oro – il mestiere dei mestieri – e la loro presenza nel terribile altipiano, celebre per la leggenda degli Iddii rossi, è stata segnalata dai missionari del Kam-Keut al posto di guardia 77 della linea di frontiera.

E siccome io ho azzardato la proposta di fare anche noi una punta verso Pu-hac mi sono sentito rispondere dalle autorità costituite del presidente Doumergue e del re Sisovat: «C’est absolument defendu!»

Già, noi siamo quasi una Missione internazionale alla quale s’interessano diverse Banche ed anche qualche governo, mentre quei due magnifici italiani non debbono rendere conto della loro eroica pellaccia che a Dio ed alla vecchietta di Cotrone.

Tengo a precisare che salvo incidenti il nostro raid automobilistico non ha nulla di straordinario: solo il breve tratto fra la frontiera del Laos e quella dell’Annam – quattrocento chilometri in tutto – ha qualche precedente di... gente partita e non arrivata. Ma son vecchie storie, nientemeno del 1918!

L’ultima giornata di permanenza a Pnom-Pen la dedico al bighellonaggio, un metodo non brevettato, ma assai istruttivo, per rendersi conto d’una città sconosciuta e dei suoi abitanti, dopo avere scrupolosamente visitato tutte le meraviglie indicate nelle guide e le curiosità più o meno curiose suggerite dagli albergatori. Novantanove volte su cento è il bighellonaggio che salva la spesa del viaggio.

Bighellonare (consultare il Dizionario della Crusca) nel vocabolario dei globe-trotter’s significa allontanarsi dall’albergo senza una meta stabilita e senza precisare ai compagni di viaggio l’ora ed il giorno del ritorno; prendere la prima strada ed andarsene lemme lemme, guardando i negozi ed osservando la gente; poi quando s’è stanchi dei magazzini e del via vai, pedinare un tizio qualsiasi fino al domicilio, oppure, se il tizio in questione si ferma a tutte le bettole, girare sistematicamente ogni traversa che si trova alla sinistra, mangiare quando s’ha fame dove ci si trova, sostare a bere dove capita e magari a dormire. Se si finisce col perdere il nord rivolgersi al primo poliziotto, il quale s’incaricherà di far perdere completamente tutte le direzioni: essere pronto a tutto, anche ad un amore fatale, ad un pranzo catastrofico, ad uno scambio di pugni, all’incontro d’un creditore lasciato a Palermo, a rivedere un amico che si credeva morto od a dare il naso giusto nel portone dell’albergo che s’è lasciato mezz’ora prima!

Bighellonando si finisce coll’imparare tante cose e col pensare a tante altre che altrimenti non avrebbero modo d’annunziarsi.

Io, per esempio, in tanti giorni che sono a Pnom-Pen, anzi in Indocina, non m’ero mai interessato prima d’oggi ad un aspetto simpaticissimo dell’Estremo Oriente: una cosa da nulla, banale, stupida forse, ma che da una parte caratterizza il momento storico e dall’altra offre lo spunto a tutto un tema filosofico. Ne ho avuto la prima percezione oggi bighellonando nella «strada delle stoviglie» e la rivelazione definitiva, sempre bighellonando, nel «vicolo delle scarpe».

A proposito segnalo ai benemeriti assessori dei nostri municipi il senso pratico dei loro colleghi gialli, i quali battezzano le strade secondo le merci che vi si vendono in prevalenza: strada delle pantofole, vicolo dei ventagli, piazza del buon mangiare, crocicchio delle banane, scorciatoia delle figlie gioiose, traversa degli strozzini.... Pensate all’economia di tempo, di scarpe, d’annuarii, di guide, d’uffici d’informazioni, che comporta quest’armonia distributiva, oltre ai vantaggi della concorrenza diretta sui prezzi dei generi. Quanto al chilo? Tre lire. No, due e sessanta o passo dal vicino!

Dunque, tornando a bomba, io ho scoperto che, nonostante il parere contrario di tanti sommi filosofi, sommi orientalisti e sommi periti od esperti, come si dice ora, di politica intercontinentale, l’Estremo Oriente e l’Estremo Occidente possono andare perfettamente d’accordo, anzi che la fusione del vecchio mondo europeo con l’arcistravecchio mondo giallo è già in processo avanzato d’osmosi.

In questo momento di tensione dichiarata fra il Ponente e l’Estremo Levante, mentre tutti parlano della «conflagrazione del Pacifico» come se si trattasse d’una scampagnata fuori porta, d’antagonismo irriducibile fra la civiltà volitiva e meccanica dell’Occidente e la civiltà contemplativa e spirituale dell’Estremo Oriente, io ho constatato che questi due antipodi politici e filosofici filano il perfetto amore sui... bancherelli dei rivenditori cambogesi.

Il fenomeno si verifica del resto anche in Europa. Infatti in barba al «pericolo giallo» il quale anche durante la guerra faceva storcere il muso a tutti i presidenti di Consiglio – Lloyd George compreso – quando si trattava di ricevere in Europa un contingente nipponico, la penetrazione dell’Estremo Oriente in Europa procede a passi da gigante: dopo il tè e le sue tazze, l’oppio e le sue pipe, l’Estremo Oriente ha sferrato una serie di fortunate offensive contro la muraglia occidentale, l’ultima delle quali in ordine di tempo è la vittoriosa invasione del mak-jong. La penetrazione gialla non ha rispettato neppure il santuario della famiglia occidentale ed ha prepotentemente violato coi «pigiama» e coi «kimono» le stesse alcove coniugali, arrivando cioè fino alle radici intime della razza.

All’Occidente che credeva di aver lasciato indietro nel saper vivere la vecchia Cina almeno di mille anni, la Cina ha dimostrato praticamente il contrario mandando in Europa ed in America i suoi pedicure e manicure ad insegnare ai barbari occidentali l’a b c del comfort, cioè come si puliscono le unghie, come s’estragga il cerume dagli orecchi e come ci si liberi dai calli. Nessun dotto orientalista potrà contestare questa situazione.... di fatto.

Nei salotti, nei saloni, fin’anche negli austeri Palazzi di Governo e nei sacri Musei Nazionali, l’Estremo Oriente ha sparpagliato i suoi vasi, i suoi avorii, i suoi paraventi, i suoi disegni, i suoi tessuti, i suoi Buddha, i suoi fiori artificiali, i suoi cani pekinesi, i suoi gatti siamesi, i suoi stuzzicadenti brevettati, ecc. ecc.

Nelle case e nelle strade di Pnom-Pen ho sott’occhi il fenomeno inverso, cioè l’irresistibile invasione dei modi di vita europei che penetrano brutalmente in tutte le abitazioni gialle e che talvolta violano sotto forma di specifici o d’altro i più intimi segreti della carne cambogese.

Ebbene, d’una cosa così semplice ed interessante, tanto stupida quanto profonda, non mi sono accorto che oggi bighellonando pei quartieri indigeni della capitale del Camboge!

Ho letto tante superbe descrizioni di questi paesi d’oltre mare, fatte da scrittori celebri, o da colleghi di buona volontà, in cammino verso la celebrità, e raramente m’è capitato di veder menzionata per esempio la presenza d’una spiritiera Primus in una cucina annamita, d’un becco a petrolio made in Cecoslovacchia sulla lampada degli antenati, d’una scatola di fiammiferi svedesi in tasca ad un mandarino, d’un banale sapone fenicato nella borsetta d’una levatrice tonkinese, d’un brutale cavatappi sulla tavola d’un nazionalista cinese.

Ora il cavatappi è un prodotto spiccatamente occidentale, che evoca immediatamente lo stupro villano d’una intimità ermeticamente sigillata, l’ebbrezza chiassosa d’una turba di beoni, la faccia congestionata d’un Gargantua rimpinzato di salumi e di vino... Eppure il cavatappi s’è imposto trionfalmente ai gialli raffinati, filosofi, astemii, fumatori d’oppio, ed a nessun nazionalista cinese, nemmeno se stipendiato dal compagno Karakan, viene in mente di boicottare il cavatappi, simbolo della barbarie e dell’intemperanza occidentale!

Un mio amico armeno che vede chiaro nelle faccende della Cina meridionale, forse perchè è interamente digiuno di politica, mi faceva osservare ieri l’altro che i rivoluzionari cinesi boicottano precisamente tutte quelle merci europee che incominciano ad essere fabbricate in Cina e che nel febbraio la dichiarazione di boicottaggio contro i prodotti britannici coincise con l’arrivo a Canton di diversi piroscafi nordamericani carichi delle medesime merci.

Ricordo che a Saigon ho assistito ad una corsa di cavalli in un ippodromo che era fratello gemello dei Parioli di Roma: tribune chiare, pesage con la palizzata, pista grigia, praterelli verdi ben rasati, book-makers, jokeys annamiti, biglietti d’ingresso visibili all’occhiello. A Pnom-Pen il bighellonaggio m’ha condotto dinanzi ad un impeccabile tennis-ground nel quale giovani cambogesi in flanella, rivali di Morpurgo, e belle dame dell’Annam giuocavano a palla con le racchette d’Inghilterra. Chiesto ad un poliziotto indigeno di che si trattasse, m’ha risposto: te-nìs. E pronunziato in quel modo pareva veramente un rito millenario di mandarini. In tutti i capoluoghi dell’Indocina, accanto ai santuari di Confucio ed alle pagode dei Genii, ho visto i templi del Foot-ball e del Rugby frequentati da una folla fanatica. Ottavio Bottecchia ci metterebbe poco a diventare uno dei tanti generalissimi della Cina rivoluzionaria. Tutte le strade del Camboge sono percorse da velocipedi con o senza parasole.

Provate a comprare in un chiosco qualsiasi cinque giornali, annamiti, cambogesi, cinesi o tonkinesi che siano, e fatevi tradurre i misteriosi disegnetti dei titoli: riconoscerete i medesimi nominativi della lontana Europa: Il Popolo del Camboge, il Corriere di Saigon, la Tribuna dell’Annam, il Mattino, L’Opinione, l’Imparziale, il Piccolo Giornale della Cocincina, con sotto al titolo tanto di qualifica «organo liberale», «portavoce della opinione democratica», «fonografo del Proletariato», ecc. ecc.

Nel quartiere industriale di Pnom-Pen, che sembra un formicaio pullulante ed incomprensibile d’umanità gialla, uno di quegli irruenti flussi umani che bastano da soli a giustificare il «pericolo giallo», a guardare bene dentro le corti e le botteghe ho riconosciuto una fabbrica meccanica di mobili in pitchpine Luigi XIV, una fabbrica di birra, un’altra di carrozzeria per automobili, una di gazose e d’acqua di seltz, perfino un laboratorio ortopedico destinato ai mutilati della grande guerra. Infatti sulle casse pronte a partire c’era scritto da una parte «Fragile» e dall’altra «Marsiglia».

Sono quindi obbligato a constatare che il vero Estremo Oriente letterario e tradizionalmente antieuropeo, esiste solamente nelle zone semichiuse dell’interno, dove i bianchi son pochissimi e quei pochi se non sono amati, non sono neppure odiati ed in ogni modo esercitano tuttora un certo ascendente. Viceversa lungo le coste e nei paesi già famigliarizzati coi bianchi, dove il simbolico cavatappi è diventato un oggetto d’uso comune, il vecchio Estremo Oriente è scomparso dalla circolazione insieme al rispetto ed alla stima per gli europei.

A Pnom-Pen, per esempio, – ed il caso vale per Hanoi, Saigon, Scianghai e compagnia bella – il vecchio Estremo Oriente bisogna andarlo a scovare nell’ombra mistica delle pagode e nel silenzioso raccoglimento dei palazzi imperiali in rovina. Lo si può trovare anche in una strada qualsiasi dei quartieri indigeni purché sia guardata in blocco badando più ai colori che ai particolari. Guai a bighellonare però, cioè a ficcare il naso troppo curiosamente dietro i paraventi di lacca. Ci s’accorge che l’Europa ha invaso ormai coi suoi prodotti, colle sue abitudini, coi suoi modi di vivere, con le sue frasi fatte, tutto l’Estremo Oriente millenario. Fra moglie e marito non mettere il dito, dice un proverbio, ma l’Europa l’ha messo anche lì! È giuocoforza constatare che la donna annamita addomesticata dalla civiltà occidentale scimmiotta maledettamente la suffragette, che il bagarino cinese è fratello carnale del succhione europeo, che i consiglieri comunali di Cholon s’ispirano alle gesta dei loro colleghi politici di Montecitorio, della Scupcina e della Camera dei Comuni, che i mandarini non sono più i vecchi letterati in tunica di seta che un tempo si facevano portare in palanchino dinanzi alle tombe degli antenati, ma sono i finanzieri e gli industriali che volano in automobile alle Banche ed alle Compagnie di Assicurazione per redigere telegrammi urgenti al ritmo brutale d’un ventilatore elettrico.

Ed allora? Dov’è l’irriducibile contrasto fra Oriente ed Occidente che sospinge fatalmente i popoli ed i governi all’inevitabile conflagrazione del Pacifico?

Già si va in ferrovia alla Porta di Cina: si percorrono in barche a vapore i canali secolari: accanto ad una pagoda si vedono le trattrici agricole sconvolgere la terra: in pieno Battambang un cinematografo vi presenta Charlie Chaplin: su una strada del Laos, quando immaginate di veder sbucare da un momento all’altro una torma di eleganti selvaggi, vedete passare l’autocorriera.

Pnom-Pen m’offre uno spettacolo originalissimo, pieno di osservazioni politiche e di considerazioni filosofiche; Buddha e la bicicletta, l’Altare degli antenati carico di offerte e il fonografo che strimpella la Madelon, la fumeria d’oppio ed il bar americano, la festa del Dragone ed il Gran Prix dell’ippodromo di Tao-lè, il palanchino e la Fiat, il ventaglio di seta e la penna stilografica, il mandarino e l’indigeno laureato in elettrotecnica, il codice di Lao-tzè ed i diritti dell’uomo, l’insalata di crisantemi e l’oster-coktail, la tradizione millenaria ed il bolscevismo di Lenin, le società segrete dell’Yogat-karia che si perdono nella notte dei tempi per la tutela delle gerarchie e le «cellule segrete» organizzate dai luogotenenti di Karakan per la fabbrica a serie del proletariato universale...

E non me n’ero mai accorto? Forse che sì, forse che no, ma non vi avevo mai dato importanza, perchè finora non ero mai stato perseguitato come in questi giorni, in tutti i luoghi, dal mattino alla sera, dal rombo spaventoso della «conflagrazione inevitabile».

Non m’ha forse detto stamane un bravo cambogese che guadagna fior di piastre coll’importazione di un prodotto italiano: – Aut, aut; o voi, o noi; non v’è posto per entrambi.

Parlava con la massima serietà del mondo il piccolo uomo giallo, fiero della sua tunica nazionalista di seta nera, quasi che la sua scrivania, la sua penna, le sue macchine da scrivere, l’apparecchio telefonico, i fasci di telegrammi, i lumi elettrici, il tempera lapis, perfino il suo sigaro avana non affermassero precisamente il contrario.

Mi veniva voglia di domandargli se il «contrasto irreducibile» sia proprio fra le due civiltà o fra gli uomini che pretendono di rappresentarle? Ma ne ho fatto a meno, perchè come tanti altri anche il mio amico cambogese m’avrebbe risposto con qualche frase fatta di quel grande spirito asiatico che è Vaillant-Couturier, leader milionario dei comunisti francesi, amico sviscerato tanto del sultano comunista Abd el Krim quanto del generale comunista Fen Yang.

Seduto nel pomeriggio ad un piccolo caffè indigeno ho guardato la strada che è sempre piena di insegnamenti. Ho visto passare bei cinesi tondi e panciuti dentro piccole 5 HP col tassametro; ho visto un cambogese armato d’una lunga asta dirigersi sul crepuscolo a passo cadenzato verso una nicchia nella quale sorrideva il faccione di un grasso Buddha, inchinarsi come per eseguire un rito ed accendere sul cranio rasato del Maestro un lampione a gas; ho visto un ragazzetto spennellare misteriosamente qua e là i muri d’una pagoda e poco dopo apparire dei bei striscioni di carta con tanto di «Défense d’afficher». Di fronte a me un cinematografo apriva e chiudeva l’occhio multicolore della sua reclame luminosa; un autobus a sei ruote, guidato da un indigeno e zeppo d’indigeni, s’è fermato diverse volte a pochi metri dal mio tavolo: nel vano d’una finestra ho seguito lungamente l’alterna vicenda d’un bel piedino cinesissimo e d’un pedale Singer.

Un negozio di bric-à-brac ha poi attirato la mia attenzione. Nella luce delle vetrine ardevano pallidamente l’oro dei vasi cinesi ed il blu carico dei recipienti annamiti, ma guardando bene ho anche riconosciuto la lampada a petrolio che usava la buon’anima di mia mamma, le sveglie a 9,50 dei nostri comodini, un coltello a serramanico che sentiva lontano un miglio di Benevento, un rasoio di sicurezza che non doveva essere noto a Confucio, certi berrettoni di lana alla ciclista che non sono una tradizione celeste, ma che si vedono in capo a tutti gli operai indigeni della Cina e dell’Indocina, una collezione di porta ritratti e perfino una serie di oleografie fra le quali ho riconosciuto la barba del Presidente Fallières ed il duetto di Jago e Desdemona. E tutta questa roba è d’uso e consumo indigeno. Nessuno certo dei trecentosessantasei europei di Pnom-Pen viene a rifornirsi di simili porcherie nel cuore del quartiere cambogese.

E allora viene spontanea alla mente la riflessione che se a Pnom-Pen capitale del Camboge, poche centinaia di francesi amministrano tranquillamente un vasto paese; se i cambogesi adoperano correntemente i nostri mezzi di trasporto e le nostre sveglie a 9,50, se si dilettano al tennis, alle corse di cavalli ed al cinematografo, se si servono dei nostri telegrafi, telefoni e ventilatori, se redigono giornali press’a poco come i nostri, adoperando le medesime formule politiche, citando i medesimi «immortali principii» e ripetendo quasi parola per parola gli ordini del giorno degli allogeni atesini, se s’abituano a maneggiare la forchetta, a sciacquarsi i denti con un antisettico, a giuocare in Borsa, a guadagnare sull’aggiotaggio ed a radersi col Gillette, la pretesa irriducibilità fra le due forme di civiltà è smentita dalla pratica spicciola della vita.

Viene anzi ad essere provato perfettamente il contrario. I gialli assorbono rapidamente e facilmente tutte le piccole e grandi conquiste della civiltà occidentale, adattandole senza sforzo alla loro mentalità caratteristica ed alle loro abitudini millenarie. La collaborazione pacifica fra Occidente ed Estremo Oriente non solo è possibile, ma è di fatto una realtà esistente, la quale avrebbe potuto dare in breve tempo risultati d’incalcolabile importanza, se...

Se?!

Già, questo «se» è piuttosto difficile a precisare.

Bisognerebbe spiattellare diverse verità senza eufemismi; dire per esempio: se gli americani non facessero le corna agli inglesi; se i britannici non dessero lo sgambetto ai cugini d’oltre oceano; se i russi di Mosca non facessero dell’imperialismo ad oltranza; se americani francesi ed inglesi lasciassero liberi anche gli altri popoli di collaborare pacificamente alla valorizzazione economica del continente asiatico, compresi fra questi popoli anche l’italiano ed il giapponese; se i missionari protestanti non sparlassero come portinaie dei missionari cattolici; se i generali cinesi non trovassero dollari, sterline, rubli ed yen per pagare le loro soldatesche mercenarie; se esistesse una solidarietà europea; se gli Stati che hanno colonie avessero anche uomini sufficenti per colonizzarle sul serio; se i poveri coolye non fossero presi a calci nel sedere nelle strade di Saigon e di Honkong; se i comunisti di Parigi non telegrafassero ai rivoluzionari di Hanoi: «nous sommes avec vous»; se...

Ma ci vorrebbero almeno dodici colonne per elencare tutti i «se» che hanno pian piano determinato nell’intero Estremo Oriente una situazione catastrofica, la quale può essere riassunta così: Il bianco non è amato, nè temuto, nè rispettato.

Tanto in Cina che in Indocina si verifica questo fenomeno curiosissimo: di mano in mano che i gialli adottano il telefono, il telegrafo, l’automobile, il motore a scoppio, l’anello di Pacinotti, i sieri batteriologici, i metodi industriali ed i perfezionamenti scientifici degli europei, credono di non avere più nulla da imparare da noi e ci considerano come limoni spremuti da buttare nella spazzatura.

E se per caso qualcuno prende le difese della grande razza bianca che ha l’incontestabile primato delle sue meravigliose conquiste, i gialli, in perfetta buona fede o con magnifica mala fede, tirano fuori tutti gli insulti che sono stampati dai francesi contro i boches e viceversa, dagli anglo-sassoni contro i latini, dai russi di Lenine contro la società occidentale, et similia! E vi dicono sul muso – Vedete? Siete barbari, villani, vandali, iconoclasti, ladri, prevaricatori, assassini, stupratori, pezzenti, infingardi, carne venduta, alcoolici, ubriaconi, sfruttatori... E sciorinano le pezze in appoggio, rappresentate da testimonianze europee, citazioni europee, documenti europei col timbro del Foreign Office, volumi europei magari con la prefazione di Clemenceau, statistiche dei panni sporchi europei pubblicate in cinese dagli uffici di propaganda di Leningrado o di San Francisco di California...

L’Occidente raccoglie in Estremo Oriente ciò che ha seminato. 1 gialli hanno imparato a conoscere gli inglesi attraverso la gelosia americana e gli americani attraverso la diffidenza britannica, i francesi attraverso gli strafn tedeschi ed i tedeschi attraverso i pamphlets pargini, e così di seguito.

Bisognerebbe che i grandi mestatori della politica e dell’economia occidentale in Estremo Oriente bighellonassero in po’ nei quartieri indigeni di Pnom-Pen, di Saigon di Scianghai, di Canton, ecc., e constatassero i risultati della loro incredibile propaganda xenofoba, la quale, dopo aver minato la figura morale dell’Occidente sta ora illustrando sadicamente ai gialli le deficienza organiche e le debolezze politiche di ciascuno dei grandi paesi occidentali!

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