Le caverne nere d’Honghai

HONGHAI, ottobre.

Navighiamo nel golfo del Tonkino all’imboccatura della baia di Along. Il mare è pieno di sole, la baia fiammeggia, la costa è sfumata dal bagliore solare. Fra un tifone ed una settimana di «crascian» il golfo del Tonkino ha queste improvvise giornate tropicali che precipitano subitamente il paese in pieno Equatore, giornate di canicola ardente che pompano l’umidità formidabile del Delta e preparano il materiale per le future tempeste.

La barca annamita scivola sull’acqua immobile color di topazio. L’immensa baia spalancata sul mare arde come una fornace carica di zolfo. Gli scogli sono gialli, fosforici, circondati da fantastici aloni di vampe. Abbiamo lasciato la costa già da due ore ed abbiamo sempre navigato nella solitudine e nel silenzio. Nessuna vela ha spezzato la sconfinata distesa del golfo, nessun frullo d’uccello ha turbato la statica immobilità dell’aria. Ma da qualche momento un rumore sordo e cadenzato, lontano e monotono, accompagna lo scivolìo dell’imbarcazione; un rumore che pare venire di sotterra, scaturire dalle stesse profondità del mare, come un maglio che stia lavorando negli abissi...

— Che cos’è? — chiediamo all’annamita.

— Honghai!

Comprendiamo. Sono le miniere di carbone a ridosso della baia verso le quali siamo diretti. Di mano in mano che ci avviciniamo alla terra il rombo aumenta d’intensità. Era prima come una eco lontana di lontanissime fatiche che non disturbava la quiete solenne della solitudine marina, che anzi dava una sensazione di riposo e quasi di benessere. Si sentiva la voluttà d’essere tranquilli ed inoperosi in mezzo alla vastità del mare, mentre sulla terra troppo stretta l’umano travaglio macerava la gente irrequieta... Poi il rumore è aumentato, ha attirato la barca nel suo vortice, è penetrato nel nostro sangue, ha acceso nelle vene quel bisogno prepotente d’attività e di lavoro che è la febbre divina della vita.... È diventato un bàttito forte ed affannato, un martellamento precipitoso, il fragore sonante d’un cantiere con mugghi cupi di rivoluzione. Più avanti ancora i rumori si sono distinti: le voci umane si sono separate dal fremito delle macchine e dall’ànsito dei motori...

Ma non si vedeva nulla all’intorno, nulla che giustificasse tanto clamore di macchine e di folle, altro che il mare immobile, sbiadito in lontananze di sole, una scogliera brulla, una costa giallina senza case e senza alberi.

Il rombo della potenza meccanica e dell’operosità umana gravava come un incubo sul deserto marino.

All’uscire dall’ombra d’uno scoglio ci troviamo subitamente di fronte alla miniera. Colpo di bacchetta magica! Il paesaggio d’acqua e di roccie si trasforma, nello spazio d’un baleno, nello scenario nero e fumoso della Ruhr di Krupp e di Stinnes, in una bolgia dantesca irta di comignoli e di capannoni, di macchinarii e di torri metalliche, in mezzo alla quale formicola una folla grigiastra e piccina che esce a torrenti dalle viscere della terra e scompare a torrenti in altre viscere della terra.

Honghai! Brutto sogno d’una cattiva pipa d’oppio!

Dov’è l’Annam millenario dei palazzi di smalto e delle pagode di porcellana? Dov’è il Delta umido e grasso, pezzato dalle specchiere gialle delle risaie e rigato dai bambù nervosi e sottili? Dov’è la baia favolosa d’Along coi suoi castellacci di chimera e le sue fantastiche città d’alabastro? Dove sono i Buddha grassi e sorridenti, i draghi pazzi e smorfiosi, i Genii pallidi e sibillini?

Qui rombano i magli elettrici e sibilano le perforatrici meccaniche. Cento vagoni aerei corrono su fili invisibili, orizzontali e trasversali, si capovolgono, si rialzano, ripartono in fila indiana, regolari, rettilinei, equidistanti....

La struttura geometrica delle armature d’acciaio colpisce brutalmente l’occhio e l’anima in questo angolo d’Estremo Oriente, ora che siamo abituati da lunghi mesi ad altre forme e ad altri disegni, alle curve morbide e sbilenche dell’edilizia annamita, alla bizzarra irregolarità dei ponti cinesi, alla sinuosità quasi lasciva dei cavalcavia tonkinesi, alle contorsioni rachitiche delle pagode, alle forme strambe dei monti, delle valli, della vegetazione dell’Indocina.

Credevamo di trovare ad Honghai la classica miniera di carbone, cioè un gruppo di edifizi neri intorno all’imboccatura dei pozzi sotterranei. Abbiamo invece dinanzi agli occhi una inverosimile collina d’ebano lucente che gli uomini stanno tagliando simmetricamente dall’alto in basso a grandi fette come una cava di pietra. I cantieri sono scaglionati lungo la parete di pece, uno sull’altro a distanza di otto o dieci metri, in modo che vista di lontano la montagna sembra rigata di mastodontiche scalèe.

Non vien fatto di pensare ad una miniera, ma ad un ciclopico tempio di bitume e di carbon fossile, innalzato in onore di una divinità terribile che disdegna le pietre ed i graniti, di qualche idolo infernale che vuole essere adoralo nel fumo, nel fuoco e negli scoppi, da una turba sudicia e pezzente.

Credo che la miniera di carbone all’aria aperta di Honghai sia unica al mondo!

Il sole potente del Tropico mitraglia la collina e la vallata, fa ardere il minerale, brucia pazzamente i ponti di ferro ed i vagoni «decauville», empie di bagliori lividi e rossastri i crepacci e le caverne, arroventa le interminabili tubature che fuorescono come budelli dalla montagna sventrata, saetta le tettoie d’ardesia delle officine, lampeggia sui lastroni di zinco dei depositi, trasforma la funivia di Cua-Luc in un nastro folgoreggiante lanciato fantasticamente nel vuoto.

Quando i vagoncini carichi di carbone correndo sulle parallele lucenti riversano il minerale sui piani inclinati auto-motori che lo precipitano a valle, il sole bombarda furiosamente quei torrenti neri di petrame balenante, facendone un’allucinante cascata di cristalli foschi e di diamanti lividi. I raggi fiammeggiano nel polverone, accendendo miliardi di pepite lucenti nel tenebroso velario. Il riverbero solare deforma le cose, le fa misteriose e sinistre. La macchina è brutta in mezzo a tanto oro. Sullo sfondo di quarzo delle montagne d’Along le gru e le torri metalliche sembrano enormi scheletri drizzati nel vuoto, scheletri di mostruose cicogne e di mammuth che stonano orrendamente coll’azzurro dolcissimo del cielo e col sorriso soave del mare di topazio.

Questi scenari di Pittsburg e di Duitsburg non sono fatti per un simile sole!

Con una giornata di «crascian» la miniera deve avere un aspetto più ragionevole, tutto deve assumere dimensioni e contorni più regolari. Oggi impazza invece in tutta la sua imperiale magnificenza il sole dei Tropici, il sole dei deserti e delle steppe, dei mari ardenti e delle città incendiate, il gran re di tutte le porpore e di tutti i diademi. Milioni di diamanti neri occhieggiano fra le pietre della collina. I ponti di acciaio e le armature di ferro sembrano avvolti in un fuoco misterioso che brucia i metalli senza riuscire a distruggerli.

Si vedono torme di piccoli uomini che inseguono il carbone lungo i piani inclinati raccogliendolo in grandi vasche sospese su palafitte di ferro che sono i setacci metallici a scossa. Quando i setacci sono ben colmi, gli uomini scappano. Allora una crisi furiosa s’impossessa delle palafitte. I massi saltano, schizzano, si schiantano, si sbriciolano, battagliano freneticamente come mostri marini tirati fuori dagli abissi; pare vogliano fuggire per tornare in grembo alla montagna lucente, ma enormi artigli di acciaio calano dalle torri metalliche a domarli, a cacciarli giù nella prigione implacabile che rotea vertiginosamente. Grosse pale battono il minerale, lo rimescolano, lo selezionano, lo spingono entro oscuri cunicoli verso altri strumenti di tortura. Da cento forni il fuoco si affaccia a guardare lo scempio: un fuoco reso pallido dal fulgore del sole...

Le gru, le fucine, le fonderie, i forni Coppet per la fabbricazione del Coke, i cantieri per la lavorazione delle mattonelle, i torchi giganti per la distillazione degli olii, i magli elettrici, le ferrovie «decauville», le strade nere e polverose, gli uffici direttoriali e amministrativi schiacciati sotto le tettoie d’ardesia, tutto è naufragato in un pulviscolo d’oro in mezzo al quale le macchine sembrano più nere, le cave più truci, le attrezzature più brutali, l’arsenale del ferro e del carbone tragicamente fosco come uno spiraglio d’inferno in una visione di paradiso!

Quattromila cinesi e diecimila annamiti lavorano nella miniera di Honghai sotto la direzione di ottanta europei. La produzione del carbone è salita nel 1924 a novecento mila tonnellate e sarebbe assai superiore se non difettasse la mano d’opera gialla, giacché coi salarii e con le condizioni igieniche di Honghai qualunque altra maestranza non lavorerebbe mezza giornata!

La democrazia francese ha recentemente nominato proconsole in Indocina il deputato... socialista Varenne, curiosa fine di carriera per un tribuno del proletariato. Il governatore Varenne, che si propone di iniziare gli intellettuali annamiti ai dogmi della religione di Herriot, dia un’occhiata alle miniere di Honghai dove quattordicimila operai gialli sono allenati all’operosità occidentale in condizioni di vita e di lavoro che fanno pensare alla schiavitù degli ebrei nell’Egitto dei Faraoni.

Abbiamo visitato l’orribile villaggio abitato dagli operai, se villaggio si può chiamare questa sordida topaia sozza d’olio e di carbone nella quale quattordicimila disgraziati sono intassati con le loro famiglie entro scatoloni di fango senz’aria e senza luce. Il piccolo ospedale costruito in questi ultimi tempi dalla Compagnia è come un vaso di fiori in mezzo al letame per nascondere un immondezzaio. Abbiamo visto le bettole gremite di esseri miserabili che bruciano nell’assenzio di Francia, nel wisky d’Inghilterra e nel gin d’Olanda quel po’ di vita risparmiata dall’oppio di Canton e dai «scium-scium» di Hanoi. Abbiamo parlato con questa gente che non è più annamita e che non sarà mai europea, fantocci senz’anima, gleba umana frolla e pietosa. Abbiamo ascoltato i missionari cattolici lamentarsi degli insuccessi di Cristo ed i bonzi di Buddha piangere sull’affievolirsi della fede. Per la prima volta in Estremo Oriente abbiamo visto le tombe senza offerte e senza preghiere. Un vecchio annamita livido e scheletrito si è rizzato sullo strame del suo immondo giaciglio per maledire nella bava la miniera assassina. Una bisavola alla quale abbiamo chiesto deve fosse la sua famiglia ci ha additato la bolgia dicendo semplicemente: — Alla morte!.

Qualcuno domanderà: — Perchè vi lavorano se stanno tanto male? La risposta è semplice: — Perchè hanno fame! L’occupazione europea ha sconvolto l’ordinamento economico del paese, introducendo nuovi bisogni, nuove spese, nuovi egoismi, nuovi sistemi di concepire i rapporti sociali. L’indigeno che si arricchisce nei commerci occidentali non è più il generoso signore del buon tempo antico. Quando l’annata è cattiva per le risaie del Delta e della montagna, la miniera di Honghai è un triste refettorio aperto a tutti gli affamati del Tonkino.

Honghai è per il tonkinese una specie di ergastolo temporaneo al quale Dio condanna i figli dell’Annam negli anni di siccità. L’ergastolo non è abitato sempre dalla medesima folla. Si spopola nelle annate buone, si riempie nelle cattive. Vi passano intere moltitudini provenienti da ogni angolo dell’Indocina e dell’Yunam, le quali si formano un concetto tragico della vita occidentale, anzi della civiltà occidentale, attraverso il brutale meccanismo di una impresa industriale che trae gli utili maggiori dallo sfruttamento della mano d’opera indigena.

Il viaggiatore che, reduce dalla visita della baia l’Along si sofferma un istante dinanzi alla collina nera di Honghai, vede il fuoco che divampa nei forni Coppet, ma in genere non si accorge di un altro fuoco invisibile che cova nelle tane della miniera e vi brucia l’anima di una razza. Qualche viaggiatore è stato tratto in inganno dai paffuti e sorridenti bottegai cinesi che si affacciano fuori delle bettole e dei negozi ad ossequiare con servilità lo straniero. Falsa apparenza! Quei gialli sorridenti ci odiano e ci disprezzano più degli altri. Sovente sotto la maschera dell’oste si nasconde l’agitatore. Il cinese è opportunista, ma profondamente anti-europeo. Fatto il gruzzolo corre a Canton ad irreggimentarsi nelle Corporazioni nazionaliste e xenofobe. Il governo dell’Indocina che fa assegnamento sulla collaborazione economica dei cinesi prepara alla colonia brutte sorprese.

Disgraziatamente Honghai non è solamente una miniera di carbone; è anche un brutto esemplare della vita occidentale messo sotto gli occhi dei gialli che non sanno; è un documento formidabile a disposizione dei Gandhi e dei predicatori che sommuovono le turbe asiatiche, è il centro di una sorda propaganda rivoluzionaria che irradia la sua influenza sul retroterra, crogiuolo di mille lieviti e di mille fermenti che si propagano senza controllo.

Honghai assicura a pochi azionisti grossi dividendi, ma fa molto torto alla Francia e all’Europa in Estremo Oriente. Quattordici soldi al giorno è la paga di un operaio, dieci soldi il salario di una donna, sette o cinque il compenso di un ragazzo. Molte sono le donne, numerosi i fanciulli. Contro queste cifre stanno quelle del bilancio della Compagnia: trenta milioni di utile nell’ultima annata! Il capitale azionario ha già decuplicato quattro volte il valore d’emissione!

Non voglio insistere sulle condizioni sociali dei lavoratori di Honghai perchè non voglio dare un carattere anti-francese alle mie osservazioni in quanto i francesi sono forse ancora i migliori. Se i regolamenti sono duri, l’innata bontà latina vi aggiunge qualche carezza. Altrove è peggio. Dopo aver visitato Canton, e Scianghai mi riservo di riassumere una mia piccola inchiesta sulla balorda improntitudine con cui gli europei forniscono agli emissari di Karakan ed agli apostoli dei nazionalismi asiatici le armi e le munizioni della rivolta.

La civiltà occidentale ha a Honghai uno di quei grandi templi del ferro e del carbone dei quali è giustamente fiera perchè attestano il suo primato nell’asservire le forze cieche della Natura e farne strumenti di produzione e di ricchezza. Ma nell’erigere questo tempio di Honghai come tutti gli altri del litorale cinese, gli europei non avrebbero dovuto preoccuparsi solamente di farli grandi e moderni, ma anche un po’ di farli amare dalle moltitudini gialle.

Nessuna opera di conquista sarebbe stata più solida.

Contro la predicazione di coloro che parlano di «civiltà infernale», di «brutalità barbarica», di «libidine di dominio», l’Occidente avrebbe potuto opporre i suoi templi di Honghai, di Canton, di Hongkong, di Scianghai, sonanti di lavoro, produttori di ricchezza e di benessere, i cantieri, le fabbriche, gli arsenali, l’aumento della produzione, lo sviluppo delle provincie, le moltitudini operaie strappate alla risaia omicida ed ai villaggi di paglia, riunite dalla forza nuova in borgate linde e gioiose, sottratte ai capricci del clima ed all’ignavia dei principi.

I gialli che hanno un patrimonio millenario di saggezza e di intelligenza avrebbero sentito il potere realizzatore e vivificatore della «Civiltà Occidentale» che non esclude la tradizione asiatica, ma la completa e la rinnova. Piano piano ci avrebbero aperto le porte delle loro case e delle loro anime. La collaborazione dell’Occidente e dell’Estremo Oriente sarebbe germogliata spontaneamente nelle coscienze, fiore meraviglioso della convivenza umana, ed avrebbe ingentilito col suo profumo l’inesorabile lotta moderna per il possesso integrale delle ricchezze della terra.

Invece!...

Pare che gli europei abbiano fatto apposta a scavare fra le due civiltà un abisso più vasto e più profondo del Pacifico!

A due chilometri dalla miniera, a mezz’erta di un poggio color zafferano, una vecchia pagoda appoggia alle rupi giallastre della montagna la piramide burlesca delle sue sette feluche di porcellana.

I minatori che l’assenzio non ha ancora abbrutito, salgono di tanto in tanto alla pagoda a visitarvi il grande Buddha dei padri. Qualcuno si ferma a metà strada, dinanzi ad una chiesetta cattolica che erge la Croce di Roma fra il tempio di Buddha e la bolgia del carbone. Un vecchio prete spagnolo è riuscito a forza di pazienza a carpire al Filosofo quattrocento anime annamite. Per quanto tempo?

La Compagnia concessionaria delle miniere è in guerra con Buddha. A quest’ora la pagoda sarebbe stata indubbiamente sacrificata all’urgenza di qualche cervellotico sondaggio se il Buddha di Honghai fosse un qualsiasi Buddha dell’Indocina. È invece un Buddha speciale, vecchissimo, decrepito, posto dal Destino sotto la protezione degli imperatori dell’Annam e del... partito liberale annamita.

L’onnipotente Compagnia, che è padrona di tre quarti del Delta, e che potrebbe permettersi il lusso di passare oltre la volontà degli imperatori del Sud Pacifico, deve inchinarsi di fronte alla maestà democratica del partito liberale annamita sul quale la Repubblica francese appoggia la sua politica di «collaboration indigène», unica politica-palliativo possibile quando si colonizza senza avere i coloni.

Ho chiesto ad un pezzo grosso della miniera le ragioni dello stato di guerra esistente fra Buddha e la Compagnia. Ho capito dalla risposta che ogni tanto i «gong» della pagoda chiamano a raccolta i minatori e che ogni volta una buona metà di quella gente non torna più alla miniera. Partono, se ne vanno, senza riscuotere nemmeno la paga arretrata.

— Propaganda dei bonzi, forse?

— No, ci sono solo due vegliardi che appena stanno in piedi.

— È un Buddha xenofobo, allora?

— Peggio di Gandhi!

Ho voluto visitare il Buddha miracoloso che ce l’ha a morte cogli azionisti della «Socìété de Charbonnage». L’ho trovato solo nella penombra del tempio centenario in mezzo a tanti fiori appassiti ed a tante striscioline colorate di carta, ognuna delle quali rappresenta una preghiera.

Un alto finestrino ad inferriata illumina la nicchia, finestrino di carcere medievale pieno di grosse ragnatele. Attraverso le spranghe di ferro ed i ricami polverosi dei ragni entrano l’oro della baia ed il vento del mare. La pagoda è povera, nuda e cadente. I muri incrinati lasciano sfarinare l’intonaco. Manca qualche tegola alle sette tettoie ed attraverso gli strappi delle feluche bricioli azzurri di cielo decorano la casa di Buddha. Il rombo della miniera attutito dalla distanza e dalle roccie è come il rosicchio monotono ed uggioso di un tarlo.

Il Filosofo è seduto sulle calcagna con sussiego canonicale. I piedi sono nascosti dalla tonaca, le mani abbandonate sui ginocchi. Ha il volto grasso, un po’ flaccido, con un doppio mento adiposo ed i lobi degli orecchi gonfi di carne.

A prima vista fa l’impressione di un bel Buddone classico e prosperoso, uno dei tanti!

Poi ci s’accorge che il suo sorriso non è l’ebete smorfia rassegnata dei suoi confratelli. È un sorriso formidabile, quasi direi terribile, che affascina prepotentemente il visitatore e finisce per conquistarlo anche se è incredulo o beffardo.

I piccoli occhi obliqui, scaltri, ma non cattivi, sono strizzati con furberia paesana. Hanno l’aria di dire: — A me non me la fanno e non te la debbono fare nemmeno a te!

Cento rughe sottili s’irradiano dagli angoli degli occhi, irrompono dalle palpebre cariche d’ombra in direzione delle guancie, sprizzano dalle ciglie verso l’ampia fronte convessa. Tutte queste rughe danno al volto un aspetto di grande vecchiaia, di straordinaria vecchiaia. Fanno pensare ai secoli della pagoda, ai millennii di Gotamo Buddo, alle generazioni che lo hanno adorato e sono scomparse nel mistero della grande notte.

Fra gli occhi e le labbra la contrazione del naso carnoso e delle guancie sporgenti è carica di dolore rassegnato.

Più sotto le labbra sorridono, beate, serafiche, ancestrali. Distruggono la scaltrezza degli occhi, annullano la preoccupazione delle cento rughe, cancellano l’impronta del dolore. Sorridono alle miserie della vita, all’enigma pauroso del domani, alle cattiverie dell’umano egoismo, alla baia d’oro, al cielo azzurro, al mare color di topazio, alla piccola miniera lontana che con tutto il suo fragore riesce appena a farsi sentire... Sorridono perdonando, sorridono incoraggiando, sorridono scherzando...

L’insieme di queste molteplici espressioni riunite nella stessa immagine è una grande maestà: divina, regale ed umana nel medesimo tempo.

La bolgia di Honghai con le sue macchine urlanti, coi suoi scheletri di ferro, coi suoi comignoli fumosi, coi suoi forni perpetuamente turgidi di fuoco, è una mostruosa piccola cosa di fronte a questo sorriso ciclopico che simboleggia il millenario travaglio spirituale di una razza.

Capisco come gli uomini gialli che dall’inferno della miniera salgono all’eremo del Perfetto non possano più scendere nel regno del fuoco e dell’odio.

Tornano ai villaggi di paglia annidati fra i ventagli delle banane, alle risaie monotone e solenni che riflettono il cammino delle nubi, ai silenzi sovrani del Delta, alla terra grassa e benigna che sorride dopo la tempesta, alle quiete botteghe dell’artigianato indigeno nelle quali il lavoro s’accompagna alla meditazione.

Il Buddha della pagoda di Honghai schiaccia la miniera e le sue macchine con la superiorità di un sorriso che è il frutto di tre millennii di filosofia umana.

Il minatore giallo lava nel canale il sozzume del carbone, butta il camice di sacco, rinunzia alla piastra avvelenata che lo sfama ma lo intossica, prende per mano la moglie ed i figli prima che perdano il rispetto della sua autorità, raccoglie su la pipa dispensatrice di troni e d’illusioni, riprende la strada della risaia, verso i cimiteri dei padri e degli avoli, verso i villaggi abitati dai saggi e dai filosofi nei quali anche la morte è lenita da un soffio di poesia.

I gialli vogliono una patria, una filosofia ed una fede. L’Europa offre cannoni, macchine e denaro.

Gotamo Buddo sorride...

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