Politica coloniale

ALONG, 11 ottobre.

La Francia ha in Indocina un vasto impero coloniale, il quale, con la Cocincina, col Camboge, col Laos, coll’Annam e col Tonkino, rappresenta il più grande possedimento dell’Europa nell’Asia gialla, vasto due volte l’Italia e popolato da venticinque milioni di abitanti. Però l’influenza che esercita l’Inghilterra sul mondo giallo è infinitamente superiore a quella della Francia, benché la Gran Bretagna non possegga in fondo che la sola isoletta di Honkong! Questo enorme squilibrio fra l’influenza inglese e l’influenza francese, in contrasto con la schiacciante superiorità della situazione territoriale della Francia, caratterizza la figura politica dell’Indocina e dà il tono alla sua importanza economica.

Tutti sanno che vi sono quattro categorie di colonie: le colonie di popolamento, le colonie di rendimento economico, le colonie d’influenza politica e le colonie d’interesse strategico. In quale di queste categorie può essere annoverata l’Indocina? Nel pensiero francese l’Indocina riunirebbe gli elementi delle tre ultime categorie. Per il momento, però, il suo rendimento economico è appena sufficiente ai bisogni della colonia e il margine d’utile della Cocincina è assorbito dalle spese militari del Tonkino. Sotto il punto di vista delle materie prime la produzione di carbone, di metalli e di fosfati della colonia è assorbita per intero dalla clientela stessa del Pacifico, specialmente dal Giappone, e l’economia della metropoli non ne risente quasi alcun vantaggio.

L’importanza strategica del possedimento è svalutata dalla mancanza sul posto di forze militari e navali che realmente rappresentino un elemento di potenza. Le forze terrestri sono in prevalenza formate da truppe indigene di scarso valore militare, quelle navali, sono poi assolutamente irrisorie di fronte a uno sviluppo costiero di duemilaottocento chilometri. Sotto tale rapporto questa lontana colonia che fa corpo a sé, senza essere parte di un più vasto complesso coloniale in Asia, rappresenta più che altro un fattore di debolezza per la potenza militare e navale della Francia.

Resta quindi sul tappeto il solo valore politico della colonia, purché non si voglia seguire la democrazia francese nell’artifiziosa creazione d’una quinta categoria di colonie, «les colonies d’influence morale». Sarebbe facile dimostrare che le «colonie d’influenza morale», come le chiama Herriot, e le «colonie d’influenza politica» sono una cosa sola, giacché il prestigio e l’espansione spirituale di una nazione sono elementi fondamentali della sua politica estera. Ma, trattandosi di una colonia francese, accettiamo pure il principio democratico dell’influenza morale senza scopi politici. Esso suffraga il nostro giudizio pessimista sulla situazione politica e rivoluzionaria dell’Indocina.

È vero che l’Inghilterra possiede, in tutto e per tutto solo il trampolino di Hongkong, ma Hongkong è il centro di una formidabile attività politica ed economica che ha a Londra le batterie di carica e le pile di riserva. Inoltre l’Inghilterra stringe tre quarti dell’Asia gialla nel grandioso cerchio dei suoi possedimenti indiani e malesi e dei suoi Domini d’Australia e di Nuova Zelanda, occupa con Singapore una delle porte d’ingresso dell’Estremo Oriente, controlla strategicamente le colonie olandesi, completa infine le sue posizioni con tutta una politica organica del Pacifico, la quale arriva fino a Tokio e a Washington.

La Francia, invece di un semplice trampolino, possiede una vasta piattaforma; ma le... manca tutto il resto! La politica francese del Pacifico esiste nei discorsi dei ministri delle colonie e di qualche governatore generale, non nella realtà dei fatti. L’Indocina è per la Francia una lontana colonia, anzi una troppo lontana colonia, alla quale Parigi chiede soprattutto di non procurare grattacapi politici e di bastare economicamente a sé stessa. Quanto alla cosiddetta influenza morale che la Francia eserciterebbe sull’Asia gialla attraverso l’Indocina, essa è per il momento una lodevole intenzione, ed i più ardenti esaltatori della «France asiatique» non possono offrire alla critica che belle e sonanti frasi, non appoggiate nè da cifre statistiche nè da fatti concreti e neppure da episodi rivelatori. Tutto si riduce per il momento a quei «fattori imponderabili» sui quali le opinioni è lecito siano discordi, mancando ogni base di documentazione.

Dopo aver cercato di descrivere ai lettori gli aspetti pittoreschi della Cocincina, del Laos, del Camboge, dell’Annam e del Tonkino – paesi tutti che lasciano nel visitatore un ricordo incancellabile e che per conto mio considero fra i più interessanti della terra – dopo aver tentato d’approfondire nei limiti modesti delle mie forze qualche aspetto della misteriosa anima indocinese, credo opportuno riassumere qui qualche osservazione di carattere politico e qualche dato economico prima di entrare per la porta di Canton nella grande Cina.

La Francia deve i suoi possedimenti d’Indocina a remote e coraggiose iniziative coloniali e li ha pagati con un forte prezzo di sangue. La storia dei Protettorati e delle Colonie francesi d’Estremo Oriente è ricca di sacrifizi e di glorie. Le risaie della Cocincina, la «brousse» del Camboge e «les hauts-plateaux» del Tonkino conoscono l’aspro sapore del sangue e del sudore francese.

Qualunque studioso che si sia un po’ occupato dei precedenti storici dell’occupazione deve rendere omaggio al valore militare e all’abilità politica della Francia. Spesso l’azione politica non è stata un merito del Governo centrale di Parigi, ma di modesti funzionari o di semplici comandanti di colonne, i quali hanno supplito col buon senso latino e con lo spirito individuale d’iniziativa che è proprio dei popoli mediterranei alla mancanza di direttive precise e di programmi organici da parte della metropoli.

L’azione politico-diplomatico-militare svolta in certe provincie del Camboge e del Tonkino e in certi principati laoziani da avventurosi ufficiali e da chiaroveggenti amministratori hanno uno sfondo romanzesco di straordinaria intensità. Qua e là un uomo isolato ha gettato le basi materiali e spirituali d’un solido impero ed è talvolta riuscito a dominare l’anima stessa delle moltitudini asiatiche, ma è mancata sistematicamente quella continuità d’azione che è il fulcro delle fortune coloniali britanniche.

Il giorno in cui, finita l’occupazione militare, s’è chiuso il periodo dell’avventura coloniale vera e propria ed è incominciato quello d’organizzazione politica e della valorizzazione economica, il Governo centrale ha sostituito naturalmente i coloni avventurosi e i comandanti audaci con un personale burocratico venuto di Francia e reclutato in maggioranza negli ambienti di provincia. Considerazioni di carriera e calcoli di pensione hanno preso il posto dell’amor di patria e delle nobili ambizioni di gloria. I governatori formati in colonia e saliti agli alti gradi attraverso le burrascose vicende della conquista hanno ceduto via via il passo a uomini politici della metropoli, designati per l’alta carica da ragioni di politica interna o di opportunità parlamentare. Tipica la recentissima nomina a governatore generale dell’Indocina del deputato socialista Varenne, il quale potrà avere molti meriti agli occhi del «cartello delle sinistre», ma non ha nessuna preparazione coloniale e non gode alcun credito presso i coloni di Saigon, di Haifong e di Hanoi!

Gli amministratori coloniali non si improvvisano e i Lyautey sono rari in tutti i paesi, anche nella patria di Sarrail.

I veri coloni sono del resto in Indocina una modestissima minoranza. La maggioranza dei residenti è formata dai funzionari, dai rappresentanti di commercio, dai «brasseurs d’affaires» e da una categoria ambigua di «colons de passage», i quali s’occupano un po’ di traffici e molto di politica locale.

A differenza degli inglesi, i quali quando sono in colonia dimenticano i «toryes», i «wighs» e le «Trade Unions» per essere solamente ed esclusivamente inglesi, e che quando sono funzionari coloniali sono semplici macchine esecutrici degli ordini superiori, i francesi, siano privati o funzionari – esclusi i militari – portano nel loro bagaglio insieme col casco e coll’ultimo romanzo anche le loro brave idee politiche e si fanno un dovere di diffonderle non solo fra i connazionali, ma anche fra gli indigeni. Estendete questo sistema dall’amministratore di quarta classe al governatore di prima classe e avrete un’idea dell’ambiente psicologico della colonia.

Tre soggiorni in Indocina e una conoscenza abbastanza profonda di quasi tutte le altre colonie francesi d’Africa e d’Oceania, mi permettono di formulare un giudizio generale sulla colonizzazione francese, il quale può anche essere sbagliato come tutti i giudizi, ma non può essere tacciato di leggerezza, essendo il frutto di lunghi studi e di attente osservazioni.

In prima linea la Francia non ha coloni, non possiede cioè quel sovrabbondante materiale umano che è necessario per concimare un possedimento coloniale.

In secondo luogo il Francese non ama in genere la colonia e non possiede le qualità peculiari del colonizzatore. Benché la Francia sia padrona del secondo impero coloniale del mondo, il cittadino francese considera tuttora la partenza per la colonia «un coup de tète» riservato ai capi scarichi ed ai figliuoli prodighi. Appena appena l’Algeria e la Tunisia godono in questi ultimi tempi di un trattamento di favore. Numerosi sono nelle amministrazioni coloniali i Còrsi, i Nizzardi e i Savoiardi d’origine italiana. Relativamente alla popolazione totale della Francia il loro numero è assolutamente sproporzionato all’indice demografico di quelle regioni e dimostra come lo spirito coloniale sia più sviluppato nei sudditi francesi di razza italica che nell’elemento etnico nazionale. Molti sono, ad esempio, i Còrsi che coprono cariche direttive in tutte le branche amministrative coloniali, specialmente in quegli uffici «a latere» dei governatori politici che sono i veri gangli dell’amministrazione.

Nel caso particolare dell’Indocina, tolti di mezzo i militari, i funzionari e gli uomini d’affari di passaggio, mancherebbe quasi completamente il vero colono – cioè colui che si trapianta in colonia con la famiglia e coi beni per farne la sua seconda patria e dedicarvi tutte le proprie energie – se non si fossero stabilite in Cocincina e in Tonkino parecchie famiglie venute da Pondicheéry, da Chandernagore e dagli estremi baluardi dell’antico impero francese delle Indie. Sono queste vecchie famiglie originarie di Dieppe e della Bretagna, le quali sovente tradiscono per il colore della pelle mescolanze di sangue portoghese e indiano, quelle che forniscono ai quadri del possedimento gli elementi veramente coloniali, i grandi banchieri, i grandi agricoltori, i grandi industriali, i «bàtisseurs d’empire», ma la fonte è naturalmente troppo esigua per i bisogni di un dominio così vasto e così popoloso.

Gli inglesi considerano le loro colonie le più belle palestre dello «struggle for life» britannico. Se non amano la colonia amano fortemente la vita coloniale. In genere il figlio sostituisce il padre nella carriera o nelle aziende. Inoltre gli Inglesi, dove non riescono da soli a colonizzare, ricorrono largamente alla collaborazione straniera, contenendola con consumata abilità entro determinati limiti. Nelle colonie britanniche innumerevoli sono gli stranieri alla testa di grandi ditte o di potenti imprese inglesi, vice-direttori di Banche, alti funzionari delle stesse amministrazioni statali. I Francesi, invece, non amano nè la colonia nè la vita coloniale. Parigi è il sogno d’ogni colono, «la rétraite en France» è l’unico obbiettivo d’ogni funzionario. Lo straniero è sempre «un métèque qui vient dans les colonies pour embèter les Francais»!

La mancanza di coloni bianchi e l’inframmettenza del parlamentarismo metropolitano nel reggimento politico della colonia sono, a mio parere, i due lati deboli di tutti gli organismi coloniali francesi. Si tratta, evidentemente, di debolezze organiche gravissime. Esse sono più accentuate e più gravide di conseguenze in Indocina per la specialissima natura del possedimento.

Nessuna colonia, neppure l’India, presenta le caratteristiche dell’Indocina. Eccettuate le poche agglomerazioni semi-selvagge dei Mois e dei Kas e quelle selvagge degli altipiani laoziani, i Francesi hanno da fare con vecchie razze di antica civiltà, le quali sono rimaste indietro rispetto all’Occidente nelle conquiste tecniche ed economiche, ma hanno raggiunto negli ordinamenti sociali e nel vasto campo delle conquiste pure dello spirito un grado così avanzato di evoluzione da lasciare sovente perplesso l’europeo.

Nel descrivere alcuni aspetti pittoreschi dell’Indocina mi sono sforzato di lumeggiare certe zone d’equilibrio alle quali la millenaria saggezza annamita è pervenuta attraverso il travaglio faticoso dei secoli, di mettere in rilievo certe oasi serafiche di felicità relativa raggiunte da una filosofia profondamente umana che è penetrata di generazione in generazione nella coscienza di tutta una razza, e specialmente di chiarire le solidissime basi spirituali e morali degli ordinamenti sociali, religiosi e politici dell’Annam.

Una simile colonia è certo ben diversa dai possedimenti mussulmani dell’Africa mediterranea e da quelli selvaggi dell’Africa tropicale ed equatoriale. Sotto questo punto di vista l’Indocina è una colonia unica. I Francesi, per essere una razza latina e geniale, avevano senza dubbio maggiore possibilità di far bene dei Teutonici o degli Anglo-sassoni, e lo hanno dimostrato sia durante la conquista militare della Cocincina e del Tonkino, sia nell’insediamento dei protettorati politici sul Camboge e sull’Annam.

Ci volevano poi gli uomini! Ci voleva un buon milione di Latini del Mediterraneo da trapiantare in Indocina per mettere in valore le immense ricchezze agricole e minerarie di quelle terre, per arginare la secolare infiltrazione cinese, la quale avrebbe dovuto essere nettamente troncata, per fondere le due civiltà dell’Occidente e dell’Estremo Oriente in una forma originale di convivenza ariano-semitica, sfruttando da una parte lo straordinario potere di adattamento della razza latina, dall’altra la debolezza meticcia degli Indocinesi, i quali offrono una resistenza infinitamente inferiore a quella dei Cinesi.

La riuscita d’un simile esperimento di ampiezza romana avrebbe senza dubbio dominato favorevolmente tutto il problema del Pacifico.

La Francia, povera di uomini e povera soprattutto di coloni, non può mantenere in Indocina che diecimila persone, compresi i funzionari, cioè la popolazione di un modesto villaggio. Questa stessa mancanza di residenti nazionali le ha impedito d’aprire con larghezza le porte della colonia all’emigrazione straniera. Se in teoria, chiunque può installarsi in colonia, in pratica ogni attività coloniale è condizionata all’acquisto della nazionalità francese.

Priva dello strumento capitale di qualsiasi colonizzazione, cioè della massa colonica, la Francia non aveva altro mezzo di dominio che il surrogato politico.

L’Indocina esigeva due forme di politica: una generale, una locale.

La prima avrebbe potuto essere rappresentata da una grande intesa asiatica, o coll’Inghilterra o con la Russia o col Giappone o col Nord-America, magari con gli stessi nazionalismi asiatici. L’alleanza anglo-nipponica fa scuola in materia. Una politica generale dell’Estremo Oriente è mancata affatto da parte della Francia. Prima della guerra la servitù del Reno, dopo la guerra l’immensità stessa di un impero coloniale sproporzionato alla capacità valorizzatrice del paese, hanno impedito alla Francia di mettere in valore l’importanza politica dell’Indocina, facendone la base di una vasta azione asiatica; per ciò la Francia è isolata in Estremo Oriente, con le sue opulenti colonie verso le quali s’appuntano diversi appetiti.

Parigi ha concentrato il suo sforzo sulla politica locale. Partendo dalla premessa che, poiché mancavano i coloni, era necessario vincolare l’interesse degli abitanti all’interesse della Potenza dominante, il Governo francese è arrivato logicamente alla collaborazione con gli indigeni. All’atto pratico, però, tale collaborazione è materialmente impossibile fra la razza gialla e la razza bianca, le quali sono separate dall’abisso che le due razze medesime hanno scavato nel loro cammino divergente durante i secoli.

Se la bontà di una politica coloniale di collaborazione ad oltranza è discutibile nell’Africa mediterranea e in quella tropicale per i compartimenti stagni dell’islamismo, essa è addirittura una gigantesca illusione nell’Asia gialla. In Indocina fra gli Annamiti e i Francesi non v’è la barriera di una religione. Vi sono due civiltà antitetiche, due modi completamente diversi di concepire la vita e la funzione stessa dell’umanità. Era necessario un ponte a cavaliere della voragine, un formidabile ponte fatto di carne e di spirito umano. Un milione di bianchi saldamente stabiliti in Indocina avrebbe formato i piloni del ponte, abbastanza solidi per resistere alle pressioni nazionaliste e alle tempeste rivoluzionarie. Il tempo avrebbe fatto il resto. L’abisso sarebbe stato colmato insensibilmente da quel materiale misterioso che scaturisce dalla convivenza continua delle genti.

Al posto di questo ponte Parigi ha costruito una serie di passerelle legislative e politiche, architettate alla meglio dai teorici del colonialismo senza coloni e dai governatori meteorici. Diverse di queste passerelle sono certo genialissime, ma d’una fragilità intrinseca senza rimedio.

Nell’India rivoluzionaria e tumultuosa il sistema coloniale britannico è una poderosa e massiccia armatura di acciaio, poggiata su ampie e solide fondamenta. Anche dove la base è solamente uno zoccolo non affondato nel suolo, è però di proporzioni ciclopiche. Nelle giornate di bufera l’armatura, sottoposta alla pressione di trecento milioni di malcontenti, scricchiola e talvolta un sostegno secondario cede, ma in complesso l’osservatore ha l’impressione di una costruzione straordinariamente robusta, capace di resistere a forti burrasche e anche a qualche crollo parziale.

In Indocina invece l’edifizio coloniale francese dà l’impressione di un grande scenario di carta e di seta, elegante e pittoresco, non privo di una certa grandiosità apparente, ma sempre fatto di carta e di seta, cioè esposto alla prima ventata che sia veramente carica di tempesta.

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