Le danzatrici di re Sisovat

PNOM-PEN, 24 Giugno.

I torbidi della Cina meridionale hanno avuto più ripercussione di quel che si creda nel resto dell’Estremo Oriente. A Pnom-Pen costituiscono l’argomento del giorno. Non si parla d’altro nei caffè e negli alberghi. E gli indigeni meno sospetti d’intransigenza dicono chiaramente che la Cina non si calmerà fino a che non si sarà sbarazzata delle Capitolazioni, delle Concessioni, delle servitù portuarie, infine di tutta la bardatura imposta dalle Potenze.

L’esempio della Turchia è citato a torto ed a rovescio da questi omuncoli flemmatici che fino ad ieri parevano disinteressarsi d’ogni cosa che non fosse riso e piastre, e che tutto ad un tratto si rivelano nazionalisti appassionati ed informatissimi! Le parole «libertà», «indipendenza», self-government, «autonomia», punteggiano con frequenza i discorsi dei cambogesi e degli annamiti. Nel profondo delle coscienze millenarie una misteriosa «solidarietà gialla» unisce cinesi ed indo-cinesi contro gli occidentali. La si sente. È forse la «rivelazione» delle attuali complicazioni politiche. Ed è così forte che tradisce questi uomini che pur sono maestri nel nascondere i propri sentimenti.

Per strada, i crocchi, più numerosi che di abitudine, parlottano fra loro lungamente senza gesti e senza scatti di voce, zittendosi quando passa un europeo. Si capisce che parlano della Cina, degli «zii» che sono alle prese coi britannici, del Dragone che si sveglia, della Russia, del Giappone, del grande mandarino Karakan, della morte immatura di Sun-Yat-Sen, del maresciallo, di tante cose che parevano sepolte sotto la «collaborazione franco-annamita» e che sono risorte ad un tratto perchè a mille chilometri di distanza quattro fucili occidentali hanno sparato contro uomini di razza gialla.

— Da quindici giorni i nostri boys sono tutti ministri degli Affari Esteri! — Così riassume la situazione il direttore dell’albergo.

Ed un giornalista francese aggiunse:

— Me lo saluta lei il Journal de Saigon colla sua campagna nazionalista anti-cinese che costa fior di piastre al Ministero delle Colonie! Ben spesi quei soldi! All’atto pratico cinesi ed indocinesi formano due razze ed un’anima sola. E per conto mio metto anche i giapponesi nella medesima pentola.

È un fatto che Pnom-Pen, la quale m’era parsa unicamente un grande deposito di riso abitato da mercanti milionari e da facchini pezzenti, si rivela all’improvviso capitale: capitale di un paese che non ha rinunziato ai ricordi del passato ed alle ambizioni dell’avvenire: centro di passioni politiche e di aspirazioni nazionaliste: una delle tante officine rivoluzionarie dell’Estremo Oriente nella quale sotto la fallace apparenza del disinteresse giallo, i capi lavorano e le plebi collaborano, tutti aspettando senza precipitazione che gli eventi maturino nel crogiuolo del Destino.

Solo il «Palazzo Reale della Danza» è una oasi d’arte e di amore in mezzo al mare grosso della politica. Almeno così sembra a noi che lo visitiamo per graziosa concessione del Re Sisovat! Ma chi può dire che cosa si nasconda in realtà sotto la maschera pallida delle bambole reali? Anche il vecchio re sembra disinteressarsi di tutto ciò che non sia i suoi bonzi e le sue ballerine. I funzionari francesi ed i giornali del governo assicurano che S. M. è enchantée delle attuali condizioni del Camboge. Il popolino è convinto perfettamente del contrario. E le folle gialle a differenza di quelle occidentali non esigono dai loro condottieri l’azione immediata. Per esse anche l’attesa passiva d’un monarca può celare il calcolo d’una saggezza millenaria.

Chiedete ad un cambogese qualsiasi senza distinzione di classe che cosa prediliga più d’ogni cosa. Vi risponderà infallibilmente:

— Mio padre, il betel e la danza.

Il ballo che per gli occidentali è un esercizio fisico, un passatempo mondano, magari una piacevole distrazione di natura artistica, ha agli occhi dei popoli asiatici una fisonomia mistico-religiosa che ne aumenta considerevolmente l’importanza. Nel Siam e nel Camboge il culto della danza è ancora maggiore che in India ed in Cina. Per le genti di Bangok e di Pnom-Pen il ballo è la suprema conquista artistica dell’umanità, quasi un riflesso della vita oltre terrena. La danza parla ai loro sensi ed al loro spirito più della musica, della scultura e della poesia. Per i cambogesi la musica non è altro che una forma d’arte secondaria destinata ad accompagnare la danza: la scultura esiste semplicemente in quanto fissa nella pietra e nel metallo, oltre alle immagini delle divinità, una espressione di danza che merita di essere eternata e tramandata alle generazioni future; la poesia si sforza di concretare in parole i sentimenti ed i miraggi che la danza suscita nello spirito delle genti.

Bisogna rendersi conto di questa funzione sovrana della danza presso le popolazioni del Siam e del Camboge per comprendere i loro «Corpi reali di ballo» che si perpetuano nei secoli all’ombra protettrice delle Dinastie e quasi si confondono con la sovranità di cui sono il massimo attributo. Si può dire che essi sono contemporaneamente il Trono, l’Accademia di Belle Arti, il Pantheon delle glorie nazionali ed Istituti di cultura politica. La storia antica del Siam e del Camboge sarebbe totalmente ignorata dalla maggioranza degli abitanti se le danze non facessero rivivere ogni giorno nell’anima popolare le leggende ed i fatti del passato. L’arte continua a produrre ninnoli e monumenti di stile «kmèr», perchè le ballerine reali forniscono agli artefici i medesimi modelli e le medesime ispirazioni che sedussero gli antenati.

Nel culto della danza e nella venerazione popolare per le sue sacerdotesse il Siam ed il Camboge hanno divinizzato i due grandi sorrisi dell’esistenza umana: l’arte e la donna. Nel fascino d’una danza adorano il fluido potente di Eva, ispiratrice e consolatrice, compagna insostituibile nella gloria e nella pena degli uomini!

Pian piano la danza ha invaso tutti i campi dell’attività sociale: la religione, la guerra, la politica, il commercio, l’amministrazione della giustizia. Non v’è cerimonia politica, civile o religiosa senza danze. Dove in Occidente si pronunzia un discorso, nel Camboge si eseguisce una danza. E l’anima del popolo educata da una tradizione secolare comprende il linguaggio d’un ballo come le nostre folle intendono l’eloquenza d’un tribuno.

Ci è capitato, per esempio, d’assistere in questi giorni alla solenne inaugurazione di un canale alla quale assistevano personalmente il Re ed il Residente francese, trattandosi di un’opera idraulica di grande importanza economica destinata a mettere in valore tutta la provincia di Battambang. Dopo l’abbattimento della diga che ha permesso all’acqua d’irrompere nell’alveo fecondatore, quando da noi il comm. Tizio ed il gr. uff. Sempronio avrebbero deliziato «l’eletto pubblico» con una prosa più o meno interessante, a Bai-Ang è il Corpo reale di ballo che ha... tenuto il discorso ufficiale eseguendo un esercizio coreografico che è durato oltre un’ora. E nonostante noi non fossimo affatto iniziati a questo genere di oratoria, ne abbiamo perfettamente compreso il significato.

Mentre le danzatrici di Corte ritmavano sull’erba rada d’un prato le loro figure, dai movimenti armonici si sprigionava tutto un discorso. Le danze descrivevano con formidabile efficacia espressiva la desolazione delle terre incolte arse dalla canicola e devastate dai venti, l’azione benefica dell’elemento fecondatore che trasforma i deserti in risaie, il lavoro agricolo degli uomini, il placido incedere dei bufali, i solchi potenti dell’aratro, la gioia del contadino che assiste allo sviluppo della pianta preziosa attraverso la vicenda delle stagioni fino al raccolto che assicura il sostentamento delle famiglie e la prosperità delle generazioni.

Un coro femminile accompagnava le danze aiutando a spiegare il significato con parole adatte quando per la rievocazione d’antiche leggende e d’episodi mitologici esso diventava più complicato ed oscuro. La folla seguiva con raccoglimento le evoluzioni delle danzatrici. Lunghi mormorii esprimevano il piacere della moltitudine. A volte il ritmo delle ballerine si rifletteva nell’oscillare istintivo degli spettatori, del Re, dei mandarini, della folla minuta. Si trattava di contadini, di donnette della campagna, di poveri bifolchi e di sterratori miserabili. In occidente una folla eguale avrebbe sbadigliato! Questa vibrava invece all’unisono con le danzatrici, comprendeva, apprezzava, godeva, per la mirabile quanto misteriosa sensibilità di certe razze a determinate forme di bellezza. Come in occidente, una grande armonia attinta alle sorgenti della ispirazione umana lascia impassibile o quasi una folla anglo-sassone, mentre commuove o travolge una turba italica che ha la melodia nel sangue, così nel Camboge la massa del volgo è accessibile al fascino d’una danza che altrove è il privilegio d’una minoranza raffinata.

Le ballerine sono proprietà del Re, il quale le riceve in dono dal popolo. Ogni famiglia cambogese reputa assai onorifico avere una figlia fra le danzatrici di Corte e molti sono quindi i genitori che offrono al Trono le piccole aspiranti quando hanno sei anni. Una commissione esaminatrice di vecchi bonzi sceglie quelle che sembrano indicate all’alta funzione per bellezza ed attitudini fisiche. L’offerta è abbondante e la cernita severa. Ciò spiega come le danzatrici reali del Camboge siano tutte di straordinaria avvenenza.

Quelle che sono prescelte cessano da quel momento d’appartenere alla famiglia. I genitori sono disinteressati con un dono in denaro. Le piccole diventano proprietà della nazione ed entrano nella Reggia dove resteranno fino alla morte.

Il Re sceglie fra le danzatrici le sue favorite. Nessun altro uomo ha diritto d’alzare gli occhi sulle sacerdotesse del Palazzo ed ogni tentativo del genere è considerato un delitto di lesa maestà. Pare che il buon Re Sisovat sia in materia di manica piuttosto larga, mentre sotto il predecessore Norodom la disciplina era severissima. Spesse volte l’autorità giudiziaria francese dovette chiudere gli occhi su gravi casi d’ingiustizia e talvolta addirittura di barbarie per evitare complicazioni politiche con la Corte e con la pubblica opinione.

Le ballerine che erano sotto il Re Norodom cinquecento sono ora soltanto centodiciotto. Esse sono sotto la diretta sorveglianza della prima moglie del Re dalla quale dipendono. Divise in quattro turni di servizio, ognuno composto di venti figuranti, sono permanentemente a disposizione del monarca, il quale può richiederle ad ogni momento del giorno e della notte perchè eseguiscano uno spettacolo od anche solo perchè gli tengano compagnia, gli facciano vento coi flabelli di struzzo, gli servano il tè raccontando i pettegolezzi di Palazzo, cantino, suonino, ecc. In fondo il Corpo di ballo è l’harem del Sovrano in mezzo al quale egli sceglie la favorita ufficiale.

Le favorite che regalano al monarca un erede cessano immediatamente di far parte del Corpo di ballo: diventano dame di Palazzo ed abitano un padiglione speciale in un recinto apposito della reggia.

Tutte le altre sono riunite in un grande caseggiato nel quale ognuna possiede un piccolo appartamento, tre stuoie, due paraventi, mezza dozzina di ninnoli ed un pezzetto di giardino. Un’alta muraglia cinge il chiostro reale e la guardia ne è affidata ad un corpo scelto di veterani.

Sotto l’intransigente Norodom non avremmo mai potuto varcare la soglia della trappa, ma il novantenne Sisovat è d’idee larghe, e dopo un primo rifiuto formale, ci ha concesso un lascia-passare, temperato però dall’accompagnamento di quattro brutti ceffi di mandarini.

Arrivate ad una certa età le ballerine sono messe d’ufficio fuori quadro, ma rimangono nel Palazzo come insegnanti, cameriere, bambinaie, guardarobiere o semplicemente come mogli legittime dei veterani. Sic transit gloria mundi! Solo le favorite che hanno dato al Re un figlio conservano indefinitamente il loro rango di dame di corte.

Gli abbigliamenti di cerimonia non sono loro proprietà. Fanno parte del Tesoro reale e sono restituiti dopo ogni spettacolo ai funzionari che li hanno in custodia. La loro ricchezza è famosa in tutto l’Oriente. Si tratta di ricami meravigliosi, di manti imperiali, di porpore, di piumaggi, di gioie e di diademi che sono usciti nel corso dei secoli dal Laboratorio e dall’Oreficeria reale, due istituzioni egualmente centenarie. Se il carovita ha influito sulle uniformi delle semplici comparse e delle allieve, le acconciature delle prime ballerine e delle favorite conservano tutto l’antico splendore. Su sete finissime di Cina, vaporose come schiume, fabbricate ancora a mano secondo l’uso antico col prodotto di bozzoli speciali, operaie mirabili hanno trapunto con fili di vero oro e di vero argento disegni altrettanto pregevoli che bizzarri. Ci hanno per esempio mostrato una tunica intorno alla quale la prima operaia del Laboratorio ha lavorato otto anni!

Perle, diamanti, topazi, opali, acque marine, zaffiri grossi come nocciuole aggiungono allo splendore dei ricami lo scintillìo delle loro luci purissime. Gemme d’acqua meravigliosa che la dinastia ha collezionato durante i secoli, quando il loro valore era infimo in confronto all’attuale, sono legate capricciosamente con giade e con smalti su fondi di filigrana e d’avorii scolpiti. Su certe larghe placche d’onice, ignoti artisti si sono sbizzarriti ad intagliare tutto un paesaggio d’Estremo Oriente nel quale le foglie, i tronchi, le pagode, l’acqua corrente, il cielo e gli astri sono rappresentati da pietre preziose dell’intonazione voluta.

La favorita in... attività di servizio – l’attuale si chiama Marasià ed ha diciotto primavere – ha diritto a portare un corsaletto sotto il quale nasconde, per tradizione centenaria, agli occhi dei profani i seni prediletti dall’augusto figlio del Sole Eminente. L’oggetto in questione è una specie di custodia d’oro sulla quale ogni sovrano della dinastia ha tenuto ad incastonare i più bei rubini esistenti nel paese durante il suo regno. Oltre cento gemme di notevole grossezza sono ammucchiate su questo straordinario gioiello. Durante le danze nel riflesso dei doppieri il torso nudo di Marasià sembra cerchiato di carboni accesi. Sulla lussuriosa magnificenza del suo corpo appena velato da una garza trasparente non vi sono altri gioielli che questa fantastica corazza di rubini ed i suoi grandi occhi di smeraldo. Ed è così potente la malìa un po’ perversa di Marasià che riuscirebbe anche dove fece cilecca la moglie di Putifarre!

Acconciate così come madonne miracolose o come veneri impudiche, secondo la trama del soggetto danzato, cariche di collane, di vezzi, di bracciali, di anelli, di pendenti, il capo ornato di diademi alti cinquanta centimetri, le ballerine reali deliziano con la virtuosità delle loro caviglie e coll’avvenenza dei loro corpi primaverili gli ozii del satrapo giallo, consolandolo del potere sovrano perduto, come nei secoli della potenza cullavano le ambizioni degli autocrati.

Immagino che l’eccellente Re Sisovat debba dimenticare senza sforzo la presenza a Pnom-Pen d’un Residente generale, quando nella tranquilla intimità della Reggia, senza cortigiani e senza mandarini, lontano dagli occhi rispettosamente severi del colonnello-governatore, in mezzo alle sue danzatrici, fra il fru-fru delle sete, lo scintillìo delle gemme, assiste agli sponsali della bellezza e dell’opulenza celebrati dall’Arte, e vede rivivere per la goia dei suoi occhi i bassorilievi del tempio d’Angkor-Vat!

Deve sentirsi certo più Re del povero Residente Generale che è alle prese col ministro delle Colonie, alle dipendenze della Camera dei deputati e per riflesso d’ogni grande elettore della Gironda che voglia interpellare il Governo sulle malefatte dei proconsoli della Repubblica.

Quando noi entriamo nel recinto delle danzatrici, è l’ora del riposo pomeridiano. Solo il turno di servizio è a Palazzo. Le altre sbrigano le loro piccole faccende. Ne vediamo parecchie nei loro rispettivi giardinetti occupate ad inaffiare crisantemi e fiori di loto od a disegnare la terra secondo l’usanza cambogese con sassolini multicolori ed ocre variopinte. Sotto le tuniche di seta i corpi giovanissimi flettono una snellezza felina allenata dall’esercizio. Gli occhi sorridono sui fiori, agli stranieri che passano, ma i visi restano seri e gravi come si conviene a sacerdotesse che perpetuano un mito ed incarnano una fede.

Molte fanno la loro toeletta, che è l’operazione più lunga e più importante d’una ballerina cambogese. Inginocchiate contro uno sgabellino dinanzi ad una specchiera, maneggiano con destrezza i complicati strumenti coi quali forgiano la loro maschera di bellezza: una maschera identica per tutte, calcata sul fac-simile immutabile delle statue del tempio di Angkor. I secoli e la Rivoluzione francese non hanno influito sul modello. Il belletto nasconde i rosa e le ambre della carne sotto una vernice uniforme che dà ai visi la lucentezza d’una porcellana ed il pallore argentato della luna alta. I poeti del Camboge cantano le bellezze di maiolica che rassomigliano alla luna. E le ballerine obbediscono ai poeti.

Quando il bistro ha identificato il colore delle epidermidi, fatto eguale l’arco perfetto degli occhi, lo scarlatto acceso delle bocche, l’ombra fosca delle ciglia, le sacerdotesse sono pronte per la loro funzione. Veramente paiono tante sorelle generate da una mostruosa matrice di statua, colle fronti sporgenti, le pettinature identiche, le grosse labbra sensuali aperte ad un fatuo sorriso d’oltre mondo.

A forza d’imitare i gesti ieratici dei bassorilievi, i loro movimenti ne conservano la impronta. Sia che camminino, che muovano le braccia o pieghino il busto, danno l’impressione d’essere uscite allora allora dagli intagli dei templi. Hanno nei muscoli la rigidità obbligata delle pose statuarie. Un fascino bizzarro si sprigiona dai loro corpi fragili e dai loro visi artificiali. Si comprende come debbano sembrare alla popolazione esseri speciali, baciati da un misterioso soffio di divinità, fantasmi dell’al di là, sconcertanti superstiti delle epoche morte.

Vecchie serventi che un tempo furono ballerine o favorite reali, obbediscono ora devotamente ai capricci delle giovani. Senza invidia e senza rimpianto. La loro anima primitiva, vissuta sempre appartata dal resto del mondo nell’atmosfera artifiziosa della clausura, non vede nelle nuove padrone che la continuazione di ciò che esse furono: una immagine, nient’altro che una immagine di bellezza. Le vecchie adorano nelle giovani la loro grazia scomparsa. Sanno che anche per esse breve sarà la primavera e lungo l’autunno.

Alle sei – l’ora in cui il Re Sisovat lascia ogni giorno infallibilmente i bonzi ed i ministri per ritirarsi in mezzo alle sue donne a masticare il betel – assistiamo ad uno spettacolo di gala eseguito da due turni di servizio.

Durante quasi due ore, quaranta silfidi tropicali ricamano nell’aria indorata dal sole morente tra i palmizi ed i frangipane del giardino reale, una mirabile fantasia. Una vecchia sorvegliante che par fatta di terracotta e che inalbera un incredibile parasole color ciliegia, è incaricata di spiegarci via via la trama dell’episodio danzato nel quale rivive la storia complicatissima d’una certa pricipessa Tupsavanga che, dopo una lunga serie di peripezie, finisce per sposare il re dei giganti, certo Prea Minurat, che è uno dei leggendari antenati della dinastia.

Una musica di xilofoni accompagna la vicenda. A volte il ritmo sommesso e sempre eguale degli strumenti fa pensare allo stropiccìo d’un immenso esercito in cammino e quasi rievoca la marcia delle generazioni scomparse che si sono dilettate dei medesimi suoni e delle medesime danze nel loro uniforme andare verso la morte; a volte invece i suonatori martellano furiosamente i tasti estraendone una fuga pazza di rombi d’organo e di schianti di tuono, come la sfuriata d’un organista demente durante un cataclisma.

Sotto le mitre scintillanti ed i diademi a cupola bizantina, le sacerdotesse cariche d’oro e di gemme, raccontano col linguaggio muto delle mani e delle caviglie, dei torsi e delle braccia, la vicenda avventurosa della principessa Tupsavanga. A prima vista i corpi sedicenni, che paiono ancora più acerbi per la gracilità della razza, hanno l’aria d’essere schiacciati dal peso dei vezzi e paralizzati dalla rigidità dei tessuti ricamati, ma quando, docili ai segnali invisibili) si mettono leggiadramente in moto, sembra che il giardino sia invaso da un nugolo fantastico di sfarzose farfalle.

Sotto certe tuniche cartacee a forma di campana, le gambe agilissime battono il tempo d’un concerto paradossale che fa pensare alla frenesia dei carillons quando impazzano in cima alle pievi nei mattini di festa. A volte i movimenti sono compassati e meccanici, a volte invece snodati e voluttuosi come stiracchiamenti di pantera. Certi scatti potenti delle reni sono come i balzi dei giaguari nelle notti di caccia e d’amore; certi tremolii dei seni richiamano alla mente il brivido delizioso delle campanule agitate dal vento; i contorcimenti dei torsi gareggiano con l’inanellamento lascivo delle serpi; l’ondeggiar delle anche ha l’armoniosa maestà delle onde turgide di marea; quando con i capelli sciolti e le braccia aperte turbinano vorticosamente su loro stesse, emettendo un trillo breve e selvaggio, lo spirito pensa istintivaniente allo scempio della bufera in un roseto...

Creature nate per la danza, che non sanno fare altro, per le quali tutta l’esistenza non è che un solo passo di ballo, accoppiano ad una virtuosità senza confronti, una eleganza stilizzata dal buon gusto raffinato dei secoli. E tale è la perfezione dell’insieme, che la stessa nudità finisce per perdere ogni effetto sui sensi. L’opulenza medesima delle vesti e dei monili diventa un elemento secondario. Restano dei gesti, meno ancora, un semplice movimento di armonie, un nulla sublime fatto di tanti niente meravigliosi.....

Le carni e le gemme sono dominate da un fluido mistico e religioso.

Quando si son viste le ballerine reali, si comprende il tempio di Angkor-Vat, si capiscono i tetti bizzarri, gli oggetti stranissimi, le linee eccentriche dell’edilizia «kmèr».

La mole fantastica dell’Angkor-Vat non è altro che un passo di danza pietrificato dall’entusiasmo di diverse generazioni di artisti. Il tempio ha fissato nei suoi mille graniti le fugaci creazioni di bellezza delle danzatrici: queste fanno rivivere ogni giorno per la gioia del Re e del popolo i bassorilievi millenari del Tempio.

Il mausoleo di sasso scolpito e le figurazioni plastiche della carne sacerdotale, formano in realtà un altare unico, sul quale la razza adora il fascino eterno della donna, illuminato dal desiderio e spiritualizzato dall’amore.

E più non sembrano incomprensibili i tetti obliqui e sbilenchi campati in aria sugli steli inverosimili, le cupole schiacciate e come proiettate nel vuoto, gli archi di traverso, i cornicioni a zig-zag, le finestre irregolari, le porte smorfiose, le code di serpente e le proboscidi di elefante che si contorcono fuori di tutte le tettoie, le volte storte, i ponti ondulati, le torri fatte di campane in volata.

Architetti e scultori si sono ispirati agli svolazzi degli scialli, ai guizzi dei veli, ai giuochi delle collane, agli squilibri delle caviglie inarcate, ai contorcimenti dei corpi giovani e delle reni snodate, per sospendere nel cielo d’Angkor la fantastica frenesia d’una danza e coronare così la capitale col più bello dei suoi diademi.

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