BILANCIO FALLIMENTARE

LA VI Conferenza internazionale di America, incominciata col sermone di Coolidge fra ramoscelli d'olivo e svolazzi di colombe pasquali, è terminata con la fin de non recevoir di Hughes e colle invettive anti-latine della Delegazione peruviana interrotte sul più brutto dalla scampanellata del Presidente.

Il bilancio ci interessa come latini, come europei, come cittadini del mondo.

Bilancio positivo? Bilancio negativo? Bilancio nullo?

No. Bilancio fallimentare! Bancarotta in pieno!

Se qualche dubbio poteva sussistere nell'animo di qualcuno, nonostante la seduta del 4 febbraio nella quale diciasette Delegazioni furono obbligate dalle circostanze a pronunziarsi contro la politica dell'intervento seguita dagli Stati Uniti, nonostante la seduta del 17 febbraio nella quale la Commissione di Diritto pubblico decise di rinunziare a tre quarti del suo programma per l'impossibilità di mettersi d'accordo, ogni dubbio ed ogni scrupolo di coscienza sono stati cancellati dalla seduta plenaria del 18 febbraio con la quale la VI Conferenza pan-americana, inaugurata da Calvin Coolidge per istaurare una nuova era di amore nei rapporti inter-americani, terminò con la rottura della grande pentola: cioè con la dichiarazione categorica di Hughes sul diritto degli Stati Uniti di difendere la vita e gli averi dei sudditi nord-americani ogni qualvolta sono minacciati dalle rivoluzioni o dai disordini del Centro America; col grido di angoscia del Salvador, del Guatemala, del Messico, dell'Honduras che hanno appassionatamente proclamato il diritto dei deboli di essere protetti dalla Legge contro i cannoni e le flotte dei forti; con le invettive dei delegati peruviani Maurtua e Denegri contro i latini dell'America centrale rei di non essere altrettanto docili dei peruviani alla volontà onnipotente di Washington; con la nobile dichiarazione anti-intervenzionista dell'Argentina la quale, meno cauta del Brasile e più autonoma del Venezuela, ha spezzato una lancia garibaldina a favore dei disgraziati paesi dei Caraibi e del golfo del Messico.

Il fallimento della Conferenza è determinato in maniera chiarissima che non consente equivoci precisamente dal fatto che, convocata per un'opera di armonia inter-americana e per la convenienza politico-economica degli Stati Uniti di migliorare i loro rapporti con l'America latina, è terminata invece con un'affermazione di disaccordo e una dichiarazione del Delegato degli Stati Uniti perfettamente opposta a quella che avrebbe voluto fare.

La realtà si può attenuare, svisare o nascondere. Ma il risultato della Conferenza – il vero – è esattamente questo!

Tra il discorso inaugurale di Coolidge ed il discorso finale di Charles Hughes c'è un abisso che è colmato dai processi verbali scritti delle Commissioni e dai processi verbali non scritti dei Sottocomitati segreti. Nel fondo stanno due cadaveri: uno, che dato per putrefatto, è risuscitato a mezza conferenza, quello di Sandino; l'altro che fu buttato inutilmente alle ortiche all'ultimo momento come fanno i palloni sgonfi con la zavorra, ed è quello del Presidente della Delegazione argentina Puerreydon.

Ma v'è un ferito grave che non è denunciato: il pan-americanismo. Venuto all'Avana assai malato per entrare in convalescenza si è aggravato ed è mancato un pelo – proprio un pelo – che decedesse!

C'è chi dà la colpa del fallimento della VI Conferenza ad Hughes; chi la dà a Puerreydon; chi a Guerreo del Salvador; chi a Maurtua del Perù; chi infine al caldo di Cuba che ha incendiato improvvisamente il febbraio tropicale, urtando il sistema nervoso degli eccellentissimi signori delegati. In realtà nessuno di questi signori è il colpevole. Lo stesso caldo rinfrescò con un temporalone proprio l'ultima giornata, la peggiore.

Gli Stati Uniti non potevano trovare un rappresentante migliore di Charles Hugues che alle sue benemerenze pan-americane (tipo evacuazione di San Domingo) aggiunge alto ingegno, presenza signorile, faccia simpatica, parola calda e senza punte, sorriso affabile e paterno, una calma olimpica, una pazienza certosina, una gentilezza impeccabile, una abilità indiscutibile. Durante l'intera conferenza ho ammirato quest'uomo che rappresentava la strapotente Repubblica delle Stelle e che non ha mai alzato la voce più del necessario, che non ha mai pronunziato una frase più forte del dovuto, che ha sempre chiesto disciplinatamente la parola per farsi ascoltare, che ha perennemente detto cose giuste e sensate, anche quando la Bolivia discuteva gli interessi strategici e navali degli Stati Uniti o l'Honduras proponeva un divieto giuridico di affitto contro il canale di Nicaragua.

Hughes, ben compenetrato del compito specialissimo che incombeva questa volta al delegato degli Stati Uniti, ha fatto il possibile e l'impossibile per condurre in porto la gran galeazza del Pan-americanismo, attraverso gli scogli ed i risucchi della VI Conferenza, valendosi delle Delegazioni vassalle o tributarie per muovere le pedine più arrischiate, valendosi delle Delegazioni coassociate od amiche per influenzare opportunamente le discussioni o sviarle. Tutte le Delegazioni hanno reso omaggio alla personalità interessantissima di Hughes che s'imponeva non solo per la enorme forza del paese che rappresentava ma anche per l'eccellenza delle sue qualità personali. Lo stesso osservatore europeo gli perdona qualche pennellata catastrofica dell'Europa, riconoscendone l'opportunità per il corso del dibattito. I meriti di Hughes sono innegabili. Però anche il fiasco è innegabile. L'ultimo discorso di Hughes, precisamente quello che mise il sigillo al fiasco della Conferenza, fu magistrale, degno di un grande uomo di Stato; logico, opportuno, necessario. Tutto quello che Hughes disse doveva essere detto e detto come lo disse, ma ogni parola consacrava il fallimento. Lo scandiva. Lo aggravava. Era una cifra del deficit.

Puerreydon? Rappresentante di un paese esportatore come l'Argentina, che ha nell'esportazione la sua vitalità economica e la sua tranquillità sociale, Puerreydon ha chiesto semplicemente che il Pan-americanismo incominciasse fraternamente col non erigere troppo alte barriere doganali contro i prodotti dei paesi fratelli. Rappresentante di una nazione splendidamente latina, della più latina delle nazioni di America, che è anche quella più autonoma – economicamente parlando nei riguardi della finanza di New York, – Puerreydon ha preso posizione per i fratelli minori dell'America Centrale nella questione dell'intervento, collaborando in tutto il resto cordialmente con la Delegazione degli Stati Uniti e schierandosi sovente dalla loro parte contro talune proposte troppo decisive del Messico o del Salvador.

In coscienza non si può attribuire all'Argentina la responsabilità del fallimento della VI Conferenza pan-americana senza commettere una ingiustizia palese e senza dire una cosa perfettamente contraria alla verità.

Anzi l'Argentina è stata così cauta nei suoi movimenti che ha rinunziato all'ultimo momento alla stessa questione delle tariffe doganali per non disturbare la bella festa pan-americana ed ha sacrificato il Presidente della sua Delegazione ed ambasciatore a Washington il quale non voleva – ed a ragione – firmare la Convenzione dopo aver dichiarato in nome del suo paese che non l'avrebbe firmata senza la clausola delle tariffe.

Guerrero, ministro degli Esteri del Salvador, è stato sì – grazie a Dio – il paladino della latinità americana ed il grande combattente della formula del non intervento, ma tutte le soluzioni conciliative, tutte le transazioni protocollari, tutti i rinvii, i silenzi ed i sottintesi via via proposti per salvare la barca che faceva acqua lo hanno trovato sempre pronto a non creare l'irrimediabile, sempre arrendevole nell'evitare incidenti, disposto a contentarsi del minimo, cioè di non fare del male ai latini ed ai popoli deboli dell'America Centrale senza esigere a qualunque costo il loro trionfo nè la loro salvezza.

Se il presidente della Delegazione del Salvador avesse voluto, avrebbe avuto non una ma dieci occasioni di dare un colpo mancino ad Hughes ed ai suoi soci, mentre tutto pieno di alto senso di responsabilità ha sempre accettato e spesso trovato la formula che girava l'ostacolo o che rinviava sine die il problema troppo difficile o che lasciava sospesa la decisione non ancora matura.

Resta Maurtua! Il giurista e delegato peruviano si è limitato in fondo a servire gli interessi del suo paese ed a fare il suo mestiere di tecnico. In apparenza egli è responsabile di avere scatenato le burrasche del 4 febbraio e del 18 febbraio, così come l'assassino di Serajevo è apparentemente responsabile di avere scatenato la guerra europea; in realtà, come l'uomo di Serajevo, egli è stato uno strumento in mano della fatalità, e nessuno può mettere in dubbio nè la sua buona fede nè il suo attaccamento al pan-americanismo, cioè all'armonia ed alla concordia dei popoli di America.

Ed allora? Perchè la Conferenza è fallita?

La colpa del fallimento della VI Conferenza Pan-americana non risale a questo o a quell'uomo, a questo o a quel governo. Il fallimento è semplicemente la conseguenza logica di un paradosso: quello che vorrebbe armonizzare le imperiose necessità politiche ed economiche degli Stati Uniti con la sovranità ed il libero arbitrio dell'America centrale; che vorrebbe fondere gli imperativi categorici del canale di Panamá, del costruendo canale di Nicaragua, dell'antagonismo navale anglo-americano, dell'incoercibile espansionismo finanziario ed economico degli Stati Uniti con il libero capriccio dei messicani, dei nicaraguesi, dei salvadoregni, degli haitiani, dei dominicani, ecc. di vivere come loro aggrada e di fare in casa propria il proprio comodo.

Se gli Stati Uniti avessero deciso di sacrificare sull'altare del Pan-americanismo i loro interessi economici, industriali, commerciali, bancari, petrolieri, zuccherieri, strategici, aerei,ecc., avrebbero potuto trasformare con facilità la VI Conferenza in una apoteosi del Pan-americanismo e la Conferenza si sarebbe sciolta con un commovente abbraccio generale, magari aggraziato da qualche sghignazzata all'indirizzo della perfida Albione e della bellicosa Europa! Ma gli Stati Uniti hanno voluto la botte piena e la moglie ubbriaca, l'amore ed i pugni, la serenata romantica a Giulietta e la serenata tragica a Sandino. Hanno cercato di ubbriacare le Delegazioni latine con un cocktail di imperialismo e di pacifismo. C'è chi ha bevuto perchè non ha sentito la droga o perchè era venuto con l'ordine di bere qualsiasi intruglio. Ma Guerrero ha detto: «Non bevo!» L'Argentina ha dichiarato: «Non mi piace la bibita» Il Messico ha precisato di essere astemio! L'Equatore ha optato per una bevanda più innocua!

Durante tutta la Conferenza si è verificato costantemente questo curioso fenomeno: che Hughes ha sempre battuto il record degli applausi, che tutte le Delegazioni hanno fatto a gara per sorridere agli Stati Uniti, ma ogni qualvolta una questione fondamentale – arbitrato, intervento, sovranità, indipendenza, solidarietà economica – sgattaiolava di straforo fra le scuciture della conversazione diplomatica sul tappeto della Conferenza, in maniera da poter essere veduta dai popoli e dai parlamenti, in maniera cioè da mettere le Delegazioni di fronte al sentimento delle moltitudini americane, immediatamente tutte le Delegazioni (quelle dei paesi bianchi come quelle dei paesi meticci e dei paesi neri, dei paesi liberi e di quelli asserviti, dei compromessi e dei non compromessi) tutte erano costrette a sciorinare, una dietro l'altra, come dischi di fonografi, la loro brava dichiarazione di principio che non era certo una dichiarazione di amore per Washington.

Costrette da chi?

Ecco la chiave della VI Conferenza Pan-americana!

Dai Parlamenti? Dalle folle ascoltanti? Dall'onore? Dall'istinto di conservazione? Dallo spauracchio elettorale? Dall'allettamento di una possibile elezione presidenziale o dal timore di un possibile capitombolo presidenziale?

Sì, ora da questa ora da quella considerazione, ma tutte – le dichiarazioni nobili come quelle volgari – tutte avevano il loro punto di partenza in un luogo impreciso che è sospeso nel gran regno di quelle forze imponderabili che determinano il corso della storia umana.

In questo luogo impreciso fanno capo i cordoni ombelicali di tutte le grandi e piccole nazioni dell'America non anglo-sassone, che si affacciano alla porta della vita ed alla finestra della storia. Questo luogo può chiamarsi Libertà come Latinità. Come si chiami non conta. Però esiste e la sua esistenza non permette che lo sviluppo dell'America sia falsato dalla costruzione artificiale del Pan-americanismo il quale poggia sopra una prevenzione politica che è ormai superata dalla storia (la dottrina di Monroe), sopra un'unicità continentale che è smentita dalle formazioni etniche economiche e spirituali del continente americano, infine sopra una tesi diplomatica che è quotidianamente e sistematicamente distrutta dalla pratica spicciola della vita americana.

Chi ha vinto alla VI Conferenza? Nessuno. Chi ha perso? Il Pan-americanismo. E siccome gli alfieri di questo pan-americanismo erano i nordamericani che lo hanno fatto a loro uso e consumo e che hanno mandato all'Avana lo stesso Coolidge a sventolare questa bandiera adottata dai politici, dai banchieri e dagli ammiragli degli Stati Uniti come il vessillo più intonato al presente ed all'immediato futuro internazionale, non sono nel torto coloro che credono – come me – che i perdenti della VI Conferenza sono gli Stati Uniti.

Senza che, per questo, abbiano vinto i latini.

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