DA HAITI A SANTO DOMINGO

Parto alle quattro del mattino nella auto-corriera che fa il servizio postale tra la Repubblica di Haiti e la Repubblica di Santo Domingo. La corriera è una vecchia automobile tedesca, massiccia, tozza, alta di ruote, con un radiatore enorme che le dà una certa aria di autoblindata. Sui predellini laterali sono collocati due specie di gallinai che contengon la posta di Haiti per Santo Domingo. Dietro v'è una impalcatura di travi e di corde che sorregge un castelletto di bagagli, appartenenti ai signori passeggieri.

I signori passeggieri sono due neri di Port-au-Prince, uno scalzo e probabilmente pidocchioso, l'altro calzato ed incollettato con tanto di redingote. Il primo parla il creolo di Haiti, il secondo professoreggia in francese arroventando la erre alla parigina. Vi sono poi due donne: una bisavola magrissima, infagottata in una povera lanetta nera che si sforza di dar corpo a quell'ombra muliebre ed un donnone formidabile vestito di rosso che sfoggia enormi nudità di bronzo ed un seno prosperosissimo di mammifera. Il quintetto è completato da una ragazza mulatta che a forza di bianchetto s'è fatta un viso quasi caucasico il quale fa a pugni col bronzino cupo delle spalle e col color cioccolatto carico delle braccia.

Ogni passeggiero è accompagnato da buon numero di fagotti e di cestini per cui l'interno della auto-corriera è un bazar in piena regola. Grazie ad alte protezioni locali io ho il posto vicino al conducente. È questi un nero scimmiesco ed accigliato che guarda dall'alto in basso i suoi sudditi, forse perchè possiede un enorme guantone sbrindellato ed una fantastica cravatta color pistacchio. Nonostante l'ora mattutina una ventina di connazionali sono venuti a salutare il giornalista che parte. Ognuno s'è fatto un dovere di portargli qualche cosa: caffè caldo in thermos, acqua diaccia, limoni, una bottiglietta di rhum, una dozzina di aranci, un pollo arrosto, un barattolo di caramelle, un ramo di buchenviglia fiorita, ecc. ecc. Il poco posto libero fra il conducente e me è rapidamente occupato da tutti questi involti che m'imprigionano letteralmente le braccia e le gambe; ma non ho fatto i conti col servizio postale di Haiti. All'ultimo momento un alto funzionario in redingote consegna al conducente il sacchetto delle assicurate che egli pone tranquillamente sui miei ginocchi strizzandomi l'occhio, come per dire:

— Fai attenzione! Ho fiducia in te!

La partenza del locomobile tedesco-haitiano non è priva di una certa solennità. I famigliari dei passeggieri formano una piccola folla che saluta con emozione i partenti. Compare sull'uscio dell'albergo il proprietario corso del cosidetto Grand Hôtel de France in pigiama mattinale e pantofole. Gli spazzini municipali che stanno incensando la corriera, interrompono per un istante la loro funzione. Stringo per l'ultima volta la mano ai bravi italiani di Port-au-Prince. Gran saluto fascista. Sento in cuore qualche cosa che palpita con tristezza. Addio, cari e buoni italiani di Haiti. Chissà se vi vedrò mai più! Chissà se tornerò da queste parti! Il conducente prende posto. Il motore romba come un aeroplano transatlantico. Le cose tedesche fanno sempre troppo chiasso. Alle finestre vicine s'affacciano varie teste sonnacchiose. Finalmente la corriera si mette in moto con uno scricchiolio sinistro di ferramenta e di bauli. La ragazza mulatta colta di sorpresa casca nelle braccia dell'uomo pidocchioso. Diversi cani latrano. Bisogna acchiappare due sacchetti di posta che minacciano di scappar via. Si va. L'ultimo italiano che vedo è Vitiello che apre il suo negozio di «scarpe confezionate d'Italia».

Venti ore di automobile, due pannes, tre fermate ufficiali, una visita doganale in piena campagna sulla frontiera di Santo Domingo (con apertura dei bauli nel polverone), la rottura della «guida» non seguita, fortunatamente, da accidenti mortali, l'accomodatura del pezzo con... un metro di fil di ferro dolce, un doppio giro di sbarra volante intorno ad un paracarro, costituiscono la cronaca di questo interessante viaggio automobilistico il quale lascia per una settimana un caro ricordo muscolare ed attesta l'alta misericordia di Dio. Lo consiglio sinceramente a chi mi vuol male!

È però un viaggio straordinariamente pittoresco, nel pieno cuore dell'isola, in mezzo a montagne selvaggie ed a colli boscosi che salgono, scendono, sgropponano, s'accavallano senza fine. La strada è una pista che scala arditamente le alture, che s'intrufola nelle gole, che sgattaiola per le valli, che zigzaga allegramente fra i boschi ed i burroni, serpeggiando su per i pendii, tagliando le roccie, scavalcando ogni ostacolo, semplificando ogni difficoltà coll'andare sempre innanzi. Costruita per i muli è stata adattata con decreto presidenziale alle automobili. Se a qualcuno non garba, faccia a meno di servirsene ed aspetti durante due settimane a Port-au-Prince un vapore cubano od una nave da carico olandese.

Non vi sono ponti, ma in compenso diversi fiumi e moltissimi torrenti. L'automobile risolve il problema entrando tranquillamente nell'acqua ed uscendone. Dove l'acqua è un po' profonda, i passeggeri sono rinfrescati da una doccia. Pelle, abiti ed oggetti, abbondantemente coperti di polvere, si coprono d'una pastetta impermeabile. Il complesso dei guadi automobilistici mostra praticamente ai viaggiatori quale sia il regime del grano nei setacci a sbalzo dei mulini.

S'incontrano pochi villaggi, due o tre paesotti ed un grande accampamento del corpo di occupazione nord-americano. Per un po' seguo con gli occhi l'andare della macchina, poi penso che il viaggio è troppo lungo per trascorrere venti ore di palpito continuo e preferisco contemplare la fuga dei boschi ed il mareggiare dei palmizi, confidando nella mia buona stella e nella potenza ammortizzatrice dei gallinai postali.

Comprendo però che per il nostro conducente non esistono che due punti: Port-au-Prince e Santo Domingo. Partito da Port-au-Prince deve arrivare a Santo Domingo. In linea retta ed alla maggior velocità possibile. Un porcello nero ed un bel gallinaccio marezzato esperimentano in corpore vili la teoria automobilistica del nostro chauffeur. Quando l'esperimento invece che sopra un porcello si verifica sopra un paracarro, noi facciamo due giri di sbarra fissa e ci troviamo per terra. Il donnone rosso ci rimette un dente. Il nero col colletto lascia sotto una ruota le falde della redingote. Io me la cavo con una ammaccatura al baule. Sono le dieci. E siamo a settanta chilometri dalla frontiera domenicana in pieno bosco!

All'una passa un camion carico di sassi che s'incarica d'avvertire il posto di polizia della frontiera il quale possiede un telefono. Alle tre arriva un'altra autoblindata tedesca che ricarica su uomini, bauli, cesti e sacchi postali. Il cambio del conducente non comporta un mutamento nel modo di andare. Evidentemente deve trattarsi di un sistema!

Un tiro di schioppo al di là della frontiera domenicana incontriamo l'appaltatore del servizio automobilistico: un italiano.

È un piemontese che ha casa e figli qui, in mezzo ai boschi, in margine ad un paesucolo indigeno. Un bel tipo avventuroso che conosce l'isola per lungo e per largo e che ha fatto fortuna diverse volte rimangiandosela poi in imprese arrischiate. Ora ha l'appalto del servizio automobilistico fra le due Repubbliche, fa il piantatore di caffè e l'esportatore di campeggio, taglia mogano pei monti ed estrae le essenze dei legni tintoriali. Ha non so dove una miniera dalla quale aspetta miracoli.

Nella sua casa trovo un bel ragazzone, il figlio, che è tornato fresco fresco da fare il soldato in Italia e tre figliuole dal profilo delle donne d'Italia ma con gli occhi maliosi delle Antille.

Breve sosta accanto ad una mensa italo-haitiana sulla quale si pavoneggia una autentica bottiglia di grappa torinese. Un pizzico di nostalgia condisce le polpette di banana fritta. In una stanzetta bassa, sopra un letto da campo, tra due vecchie armi indigene, vedo un ritratto di Mussolini a cavallo che dice mille cose.

Venti chilometri più a monte incontriamo le strade della Repubblica di Santo Domingo, eccellenti strade camionabili le quali hanno solamente il difetto di essere interrotte ogni momento da pontili di legno traballanti a cavaliere di fiumi e di torrenti. Ogni volta che l'auto-blindata postale passa su quei giuocattoli di legname suscita un terremoto in piena regola e si sentono le assi che urlano misericordia. È una delizia! I ponti sono così stretti che il pachiderma postale v'entra per miracolo. I parapetti sono formati da quattro praticabili incrociati ed inchiodati alla buona che al minimo urto schizzerebbero via. Ma il nostro nero ha un occhio straordinario. Il più piccolo sbaglio vorrebbe dire un salto nel vuoto!

A San Juan – grosso e ricco paesone della Repubblica di Santo Domingo – altri connazionali aspettano il primo giornalista italiano che attraversa l'interno della repubblica. Bisogna fermarsi e scendere. C'è tavola imbandita, infiocchettata da fiaschetti di Chianti. Vogliono un discorso. Vogliono sentire parlare della patria e del Fascismo. Ho le ossa peste, mezzo chilo di polvere nello stomaco, gli stinchi rovinati, un polpaccio illividito dalla sbarra volante del mattino, ma come si fa a dire di no ad italiani che sprizzano Italia da tutti i pori e che gridano Viva Mussolini! Arrivano telegrammi dagli italiani di Santiago de los Caballeros, di Moka, di San Pedro de Macoris, della Vega, esigono una visita. Vedrò tutti. Abbraccerò tutti. Dimentico di essere un povero giornalista in viaggio per credermi un ambasciatore d'italianità in giro pel mondo. Senza credenziali porto in giro il mio cuore e la mia fede. Viva Mussolini! Sì, sì! Viva! Viva! Gridiamo evviva con tutta la forza dei polmoni e con tutta la passione dell'anima. Evviva quest'uomo formidabile che ha ridato agli italiani all'estero la fierezza della loro Patria, che ha il suo ritratto in tutte le case degli italiani delle Antille, il suo nome su tutte le labbra, la sua figura in tutti i cuori! Perchè fare della letteratura di fronte a cose così semplici e così sublimi che debbono essere descritte come sono, adoperando le parole più modeste e le frasi più correnti?

Lasciamo San Juan che annotta. Mancano cinque buone ore per arrivare a Santo Domingo, cinque ore di automobile per strade oscure, in mezzo a campi ed a montagne, a piantagioni di caffè ed a boschi selvaggi. Spesso la strada rasenta burroni e precipizi che paiono più tetri nella notte oppure attraversa paesotti addormentati con tutte le porte e le finestre già chiuse. Qua e là una lampada arde sui muri dinanzi ai tabernacoli. Vecchie chiese ergono nell'oscurità le loro torri spagnuole, contemporanee della conquista.

Le strade di campagna sono abitate da una moltitudine di vacche, di buoi, di asini, di muli, di cavalli e di porci che, secondo l'usanza locale, non hanno stalle e passano la notte poeticamente al chiarore delle stelle. Questi eccellenti animali hanno abitudini da nottambuli e s'addormentano piuttosto tardi. Invece di trovar posto fra le erbe si assembrano sulla strada e fanno crocchio. Talvolta fanno anche altro. Spesso si sdraiano addirittura nel bel mezzo del cammino e le automobili debbono fare continuamente dei zig-zag per non disturbare il salotto delle vacche e la chiacchierata dei somari. Quando l'automobile è la pesante corriera postale tedesco-haitiana sono guai! La macchina non ha l'agilità di una antilope. No davvero! E certi muli sono così testardi che non c'è verso di farli smuovere. Toòf! Toòf! Toòf! Lo chauffeur haitiano copre di vituperi le vacche di Santo Domingo, el país más malo del mundo!

Alla mezzanotte – dopo venti ore di viaggio – arriviamo in una piazza illuminata e rumorosa. È piazza Colombo a Santo Domingo. I domenicani festeggiano a suon di mortaretti e di rhum la visita del presidente Louis Borno della vicina repubblica di Haiti. C'è folla in piazza e ressa agli alberghi.

Haitiani e domenicani vanno poco d'accordo fra loro ma il ricevimento ufficiale sposa i colori dei due paesi sulle facciate di tutti gli edifici e nelle vetrine di tutti i negozi. Haiti, territorialmente piccola e con tre milioni di abitanti, non perdona a Santo Domingo di possedere la maggior parte dell'isola con sole ottocentomila anime.

Dopo venti ore di calvario non trovo stanza in nessun albergo, ma trovo Pasquale Prota – napoletano ed orologiaio – il quale sloggia di autorità le valigie di un pezzo grosso delle dogane di Haiti e mi mette a posto nel primo caravanserraglio della capitale.

Share on Twitter Share on Facebook