LA CITTADELLA DEL RE NERO

La Cittadella reale sorge nelle vicinanze di Cap Haïtien, in una regione impervia di montagne e di boschi. Ci si arriva a dorso di mulo venendo dal Capo. Consiglio d'andarvici solo e di scegliere una di quelle giornate bigie nelle quali i boschi sembrano più tetri e le rupi più oscure. Meglio ancora se è caduto nella notte un piovasco che ha lavato gli alberi, le roccie e la terra e che diffonde nell'aria un forte sentore di marciume vegetale.

Da lontano, mentre il buon mulo haitiano ascende pigramente il costone, si vede apparire la mole bizzarra che domina i monti ed il mare: tozza, fosca, enorme: ammasso di petrame, di torri, di merli e di muraglie, stagliato in uno scenario di alberi e di valichi alpestri. La vegetazione serra nella sua stretta ciclopica la fortezza, invade i cortili, s'annida nei crepacci, scala le casematte, fiorisce fra i merli e le garitte, ma non riesce ad ammorbidire le linee brutali della costruzione.

Tutt'all'intorno è pace e silenzio. Non v'è anima viva. Non si vede una capanna. Non s'ode l'eco d'una voce. Unici abitanti del luogo sono grandi avvoltoi che ogni tanto s'alzano dalle macerie e dalle rupi e percorrono col loro ampio volo silenzioso lo spazio.

È inutile cercare con gli occhi una linea qualsiasi d'architettura. Non ve n'è. Nessun ingegnere e nessun architetto hanno studiato le proporzioni di questo ciclopico ammasso di pietre che un cervello nero ha concepito in una notte di esaltazione per un gesto di potenza e che ha fatto eseguire da migliaia e migliaia di altri neri, adoperando i medesimi sistemi implacabili che i colonizzatori bianchi avevano usato coi suoi antenati. Le torri sono massiccie e le mura formidabili. Ogni cosa è tozza, pesante, immensa. Ci si domanda come mai esseri umani abbiano potuto erigere una costruzione così grandiosa senza macchine, senza strade, senza tecnici, in mezzo a montagne brulle e selvaggie? Chi ha trascinato fin quassù le pietre enormi? E come? Lo spirito evoca la folla miserabile che ha dovuto trasportare su per i pendii, a forza di corde e di nerbate, sotto il sole dei Tropici, questo ammasso di pietre! Ed immagina il sorriso trionfale del re che vedeva sorgere pian piano il palazzo del suo sogno orgoglioso!

Quale lontano atavismo ha suggerito a questo nero l'opera gigantesca ed inutile che ora si sgretola lentamente nella solitudine dei monti? E chi era in realtà questo discendente di schiavi, nato nelle Antille? Da quali misteriose eredità imperiali – Songhoi o magari egizie – traeva egli quella voluttà di palazzi e di fortezze, di cortei e di archi trionfali, che caratterizzò la sua romanzesca figura di guerriero, d'uomo di Stato e di megalomane?

Incominciata nel 1806, la cittadella Laferrière fu terminata nel 1822. Altri forti ed altri palazzi furono costruiti un po' dappertutto da re Enrico e fra gli altri il famoso palazzo dell'Artibonite con 365 porte, una per ogni giorno dell'anno. Il tempo e le rivolte hanno distrutto quasi interamente tutte queste costruzioni, meno la Cittadella la quale perpetua ancora l'ambizione del re nero che cercò di fondare nel Tropico americano uno degli effimeri imperi personali del Sahara e delle foreste vergini.

Fino al 1789 i neri delle Antille subiscono più o meno passivamente la loro terribile sorte. Il fermento covava nelle capanne degli schiavi ma la frusta aveva abituato le schiene a star curve. Non era facile dare improvvisamente ai servi l'ardire degli uomini liberi. L'unica forma con la quale gli schiavi esternavano il loro malcontento era il veleno che propinavano nei cibi e nelle bevande dei padroni. Ma nel 1789 una specie di brivido scuote la carne d'ebano dopo tre secoli di rassegnazione. Compaiono sulla scena uomini audaci come lo schiavo giamaichino Boukman, lo schiavo haitiano Jean François, Biassou, Jeannot, Dessalines. Ancora oggi gli abitanti di Morne-Rouge mostrano ai viaggiatori la spianata del Coccodrillo nella quale Boukman, prete della religione misteriosa e feroce del Vaudou, riunì gli schiavi dei dintorni.

Era una notte di tempesta. I fulmini tropicali martellavano la foresta. La danza terribile del Vaudou – danza magnetica e spiritica che fino a pochi anni fa era praticata sulle frontiere tra San Domingo ed Haiti – trasforma l'assemblea in una massa di suggestionati che obbediscono al loro medium: Boukman. Un maiale nero è ucciso in mezzo allo schianto della bufera. Tutti bevono il suo sangue caldo. Poi Boukman ordina la strage. Ed incomincia la rivolta degli schiavi del Nord che mette a ferro e a fuoco le fattorie coloniali confondendo nell'inesorabile vendetta ogni carne bianca, senza distinzione d'età e di sesso.

La rivolta del Nord si propagò istantaneamente agli schiavi del Sud e dell'Ovest. Ogni fattoria è uno scannatoio. Folgora in questo periodo la figura feroce ed avventurosa del siciliano Praloto, che argina coi bianchi la sommossa e muore assassinato a San Marco. La ribellione trionfa ad Haiti e si propaga in tutte le Antille fino alle lontane isole Bermude. Ovunque v'erano neri essi scuotono con violenza le catene della servitù e vendicano sui bianchi il lungo martirio dei loro padri. È una lotta titanica frazionata in mille episodi che hanno per sfondo il mistero delle montagne. Il segreto avvolge la maggior parte di essi. L'uomo che uccideva era ucciso un istante dopo. Ogni casa era una fortezza nella quale si combatteva fino alla morte. Ogni capanna era un ammazzatoio che spariva tra le fiamme con le sue vittime. Furono quelli per Haiti anni terribili di rivolte feroci e di repressioni violente: pagine di sangue e di orrore che a rileggerle fanno spavento.

In mezzo agli incendi, alle congiure, alle carneficine, alle battaglie ed ai tradimenti, appare la figura del futuro re Enrico I, lo schiavo Cristoforo. Nel 1799 già generale celebre, combatte a fianco dell'eroe dell'indipendenza haitiana Dessalines ed è nominato governatore delle provincie del Nord, quando Dessalines si fa proclamare imperatore di Haiti.

Alla morte di Dessalines, l'ex schiavo Cristoforo aspira al trono ma le rivalità degli altri governatori non gli consentono di realizzare il suo sogno. Allora, mentre a Port-au-Prince si proclama la repubblica, egli si autoproclama re del Nord. E diventa S. M. Enrico I. Lo schiavo che aveva battuto il miglio nelle macine ha un regno. E sa fare il re.

La cerimonia dell'incoronazione evocò nei boschi di Haiti i fasti di Fontainbleau. Mancava la chiesa per l'incoronazione. Fu costruita in cinquantatrè giorni da tutti gli uomini validi del regno. Ipnotizzato dalla figura di Napoleone, re Cristoforo proclama la monarchia ereditaria, nomina quattro principi, otto duchi, ventidue conti, trentasette baroni, quattordici cavalieri, fonda l'ordine equestre di San Enrico, batte moneta, si circonda di cortigiani, di ministri e di cerimonieri. Haiti ha un piccolo regno ricalcato sulle grandi corti di Europa. Cristoforo promulga un Codice Civile (il codice Enrico), un Codice Penale ed un Codice Rurale; istituisce quattro ministeri: crea una flotta agli ordini degli ammiragli neri, duchi di Fort Royal e di... Piacenza.

Sorgono i fastosi palazzi reali del Capo, di Milot, di Jean Rabel, di Fort Liberté, di Saint Marc. E sorge la Cittadella, costruzione ciclopica e geniale, sogno di una notte calda delle Antille, concretato nella pietra, col sangue di mille e mille infelici!

Quando il sole incomincia a scendere dietro i monti del Capo, lo scenario della Laferrière, tutto seghettato di luci e di ombre, assume una teatralità che suggestiona lo spirito. In mezzo alla selvaggia asprezza dei monti la mole della Cittadella è un monumento grandioso e brutale, potentemente barbarico. Vien fatto di pensare che Cristoforo lo abbia voluto così per mostrare ai bianchi delle Antille che i neri erano più capaci e più grandi di loro! Di fronte ai fortini ed alle torri che i bianchi possedevano nell'isola, Cristoforo drizzò la Cittadella per glorificare la razza serva agli occhi dei padroni. La volle enorme e potente. Monumento di orgoglio e di rivolta, s'empie di significato nella penombra del crepuscolo. Ed obbliga il bianco che passa e che magari comanda, a riflettere...

Per me la Cittadella Laferrière è il monumento che simboleggia la tragedia dei neri di America. Se fossi un nero d'America considererei la Cittadella di Cristoforo il tempio della razza. Vi andrei a temprare il mio spirito d'uomo nero, nella contemplazione del passato, nella riflessione del presente, nella speranza dell'avvenire.

Un cervello nero ha concepito questa mole tra una battaglia ed un tam-tam. Braccia di uomini neri lo hanno eseguito. Sangue nero ha cementato le pietre. Sudore e lagrime di neri hanno indurito il terreno ed impastato il pietrisco. Nere erano le donne che recavano l'acqua ai lavoratori e che a notte li consolavano con le carezze. Neri erano gli aguzzini che frustavano gli indolenti e gli stanchi. Il ritmo afro-antillano della marimba accompagnava il lento alzarsi delle torri e delle muraglie. Ed i neri dovevano, nonostante tutto, provare una vaga ebbrezza nel veder sorgere in mezzo alla solitudine dei monti una mole più grande di tutte le altre che affermavano nell'isola la potenza dei bianchi. Nell'animo di Cristoforo dovevano rivivere misteriosamente i canti dei gris-gris dei villaggi d'Africa che celebravano nelle feste delle tribù la potenza dei sultani Oloff e dei re del Dahomey, degli imperatori Songhoi e dei monarchi Bambarà.

Il lungo martirio dei neri d'America incominciato nel 1501 e legalizzato nel 1521 dagli Uditori Reali di Santo Domingo, ha nella Cittadella di Cristoforo il suo mausoleo. Durante tre secoli tutta l'Africa Occidentale, da Capo Bianco al Capo di Buona Speranza, è stata una specie di fantastico pozzo dal quale i colonizzatori inglesi, francesi, spagnuoli, olandesi e danesi attingevano a piene mani lagrime e sangue per concimare le terre tropicali di America. Senegalesi, Oloff, Mandingo, Bambaras, Aradas, Apolloni, Ibos, Congolesi, Fullah, Peuhls hanno fornito ai solchi dell'America tropicale un concime umano, grasso e fecondo, che si trasformava in zucchero, cacao, caffè, rhum, zafferano, vaniglia, oro e smeraldi.

È storia lontana ormai alla quale nessuno più pensa! Ma la Cittadella nera di Cristoforo ricorda al visitatore che passa le carovane di schiavi che scendevano dall'interno dell'Africa alla costa, tragiche teorie di uomini e di donne con un forcone di mogano al collo od una manetta dolorosa d'ebano ai polsi. Erano carovane e carovane. Si fermavano sul litorale nei famosi Troncs, in attesa delle navi negriere che dovevano trasportare la merce umana in America. Arrivavano i brigantini d'alta velatura, equipaggiati da uomini di sacco e di corda, comandati da capitani altrettanto crudeli che intrepidi. Gli schiavi erano ammucchiati nelle stive, domati con la sferza, stremati dalla fame e dalla paura. Le carovane arrivavano a destinazione lasciando una scia di morti sulla terra ferma e sul mare.

Chi di noi non ha letto nella sua giovinezza le storie tristi e terribili dei brigantini carichi d'ebano vivo? E le descrizioni dei mercati immondi nei quali il prezzo dell'uomo dipendeva, come pei cavalli, dallo stato dei denti e dalla muscolatura dei polpacci? E la spartizione delle donne? E lo scempio delle fanciulle? Ed i tormenti della maschera, della scala, della brimballe, del formicaio, del miele, dei quattro pali? E la marcatura a fuoco degli schiavi con la sigla dei padroni? E tutta la tragedia formidabile di quelle povere cose umane che non avevano diritto di amare, di volere, di dormire?

A mano a mano che il crepuscolo smuore, il luogo si fa più tetro e più selvaggio. Più consono al monumento. Più uguale al pensiero di Cristoforo. Gli avvoltoi spariscono nell'ombra. La notte inghiotte il giallore delle torri, delle muraglie, dei merli, dei cortili. Resta la massa informe. Scura e paurosa. Confusa con gli alberi e con le tenebre. I boschi d'intorno stormiscono al vento. Fischiano, urlano, singhiozzano. Fanno pensare ai singulti ed ai sussurri di una invisibile moltitudine. Quanti cadaveri dormono sotto la Cittadella? Quanti spiriti d'ammazzati abitano queste macerie? Che fa l'ombra di Cristoforo, sepolto nel cavo di un bastione?

Il mulo che ha paura scalpita nervosamente...

E s'ode l'eco di una marimba lontana che sperde per le valli un suono d'Africa.

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