DINANZI ALLE CENERI DI COLOMBO

Taglio la piazza soleggiata del Grande Almirante. La piazza è deserta. Due neri scamiciati pigliano il sole sopra una panca. Un cane rognoso mi guarda passare. In mezzo alle azalee in fiore la statua marmorea del Genovese è misera e triste. Piccolo zoccolo e piccola statua schiacciati dalla mole vicina della cattedrale che sembra più vecchia e più nera nella porpora solare del meriggio.

Per giungere all'arcivescovado bisogna attraversare una strada incassata fra la chiesa e certe antiche case: vecchia strada di altri tempi, rimasta quale era all'epoca coloniale di Santo Domingo, perchè da una parte c'è la massa vetusta della cattedrale e dall'altra bassi edifizi che appartengono a confraternite e che hanno ancora i portoni massicci e le alte inferriate del loro secolo.

Entro in un minuscolo patio dominato da una enorme madonna e tiro un fil di ferro arrugginito che funziona da campanello. Squilla un suono dolce ed un po' solenne che tira fuori dal mistero dell'arcivescovado uno scaccino del medesimo color dei muri, infagottato in una redingote che non finisce mai. Lo scaccino è fatto d'ossa e d'un po' di pelle. Salgo una grossa scala di mogano pieno che ha il passamano intagliato a cristi e a rosoni e mi trovo in una vasta stanza piena di tabernacoli e di santi, dinanzi ad un monsignore alto ed un po' guerresco il quale ricorda certi cardinali del buon tempo antico, rotti alle armi ed agli amori, affrescati alla svelta in un ovale dai maestri pittori del Rinascimento. È monsignor Adolfo Noel, arcivescovo di Santo Domingo, Primate d'America, cameriere di Sua Santità, commendatore della Corona d'Italia.

La mano inanellata del monsignore m'addita un punto della parete. Volgo gli occhi da quella parte e veggo fra le Chiavi di San Pietro ed un trittico oleoso, un gran ritratto di Benito Mussolini, sopra uno sfondo arioso di bianco, di rosso e di verde che pare un trasvolar di ferzi nella gloria...

Monsignor Noel, che ha studiato alla Porziuncola, tiene a parlarmi in italiano. Dotto latinista, verseggiatore raffinato, conoscitore d'arte e grande collezionista di cose antiche, l'arcivescovo Noel ricorda, anche come temperamento, i monsignori italiani della Curia, benchè sia nato a Santo Domingo da famiglia patrizia dell'epoca coloniale. Durante l'occupazione nord-americana della Repubblica si rivelò altrettanto fiero patriotta che abile diplomatico ed a più riprese protestò pubblicamente in nome della giustizia divina ed umana contro le angherie della fanteria di Marina degli Stati Uniti, per cui anche gli anticlericali ed i massoni della Repubblica rendono omaggio all'elevatezza d'animo di questo grande prete ottuagenario che fino a pochi anni fa faceva le visite pastorali a cavallo su per le montagne di Santo Domingo.

— Benito Mussolini ha il crisma di Dio! L'Italia aveva bisogno di un Uomo – mi dice monsignore in perfetto italiano toscaneggiante – e l'Altissimo lo ha mandato perchè la terra dell'Arte e del Diritto riprenda nel mondo civile il suo antico magistero.

Entrano per le finestre aperte i suoni delle campane di Santo Domingo che annunziano il mezzogiorno. E par di essere in Italia, in una città di provincia, in un giorno pieno di sole e di profumi, tra l'Arno e la Maiella!

Monsignore tiene ad accompagnarmi nella cattedrale. Vuol farmi vedere il Tesoro della vecchia chiesa e mostrarmi certi antichi piviali che provengono dalla sagrestia della Basilica di San Nicola di Bari, la prima chiesa d'America, ora in macerie. Il solito scaccino estrae da una custodia un pesante ostensorio d'argento, tutto pieno di puttini e di statuette un po' profane: oggetto ecclesiastico preziosissimo ed opulento, tempestato di zaffiri e di topazi.

— Credo sia del Cellini! – dice monsignore.

Dalla sacrestia passiamo alla chiesa che un tempo era interamente coperta di affreschi. Più tardi i muri furono intonacati di bianco secondo l'usanza del tempo ed ora monsignore sta pazientemente scrostando il calcinaccio per rimettere a giorno le pitture, valendosi della collaborazione di un italiano residente a Santo Domingo, l'ingegnere Scaroni.

Otto colossali altari di mogano, superbamente intagliati alla spagnuola, fiancheggiano la navata. Ricoperti d'oro zecchino dalla pietà coloniale ed adornati dal gusto spagnolesco dell'epoca con smalti e colorature, sono carichi e pesanti. Monsignor Noel ha fatto togliere l'oro ed i colori dai tre altari più belli. Ora troneggiano sui muri bianchi – cupi, solenni, austeri – mostrando a nudo lo splendore degli intagli e la finezza delle torniture. Il legno antico – la magnifica caoba delle Antille – ha assunto coi secoli un colore oscuro, pieno di ombre, di oleosità, di riflessi, che s'intona squisitamente coll'argento ossidato dei candelabri e colla patina bruna delle vecchie immagini.

Nel fondo della navata c'è un grande e bizzarro monumento di marmo, mezzo gotico e mezzo chigurresco, che fa a pugni col resto della chiesa. Lì riposano i resti di Cristoforo Colombo!

Monsignore mi racconta la lunga storia. Tre città si contendono l'onore di possedere le ceneri dell'Almirante: Santo Domingo, Siviglia e la Avana. Ormai l'Avana ha rinunziato alla sua pretesa. Restano in lizza Santo Domingo e Siviglia. Io sono fra coloro che fanno credito a Santo Domingo.

È storicamente provato che nel 1536 i resti del grande navigante genovese, morto miseramente a Valladolid nel 1506 sotto il peso della ingratitudine spagnuola, furono trasportati a Santo Domingo e sepolti nella Capilla Mayor della Cattedrale. Era allora Capitano Generale della colonia Don Luigi Colombo, nipote dell'Almirante.

Due secoli e mezzo dopo la Spagna cedeva alla Francia, per il Trattato di Basilea, la culla della sua potenza coloniale: Santo Domingo. Il tenente generale della Real Armada Don Gabriel Aristizabal ottenne che i resti di Cristoforo Colombo fossero conservati alla Spagna e provvide a trasferire il sarcofago dell'Almirante alla Avana prima di consegnare ai francesi Santo Domingo. Il nocciolo della questione sta appunto in questo trasferimento. Secondo gli abitanti di Santo Domingo gli spagnuoli nella fretta dell'operazione si sbagliarono di tomba e riesumarono i resti del figlio di Colombo, don Diego, che era sepolto accanto al padre. Secondo i cubani i resti trasportati all'Avana erano proprio quelli del Genovese, ma l'errore si verificò nel trasferimento delle ceneri dall'Avana a Siviglia. Però la tesi cubana non poggia su fatti storici nè su documenti dell'epoca, mentre la tesi di Santo Domingo è suffragata da una serie di prove che lascia perplessi gli studiosi.

Sta di fatto che nella Capilla Mayor della Cattedrale erano sepolti tre cadaveri: quelli di Cristoforo Colombo, del figlio don Diego e del nipote Don Luigi, duca di Veragua e marchese di Giamaica. Le tre tombe non avevano iscrizioni esterne che le distinguessero. L'errore era possibile. Fino d'allora germogliò a Santo Domingo la tradizione popolare che i resti dell'Ammiraglio fossero rimasti nell'isola, tradizione che si perpetuò di generazione in generazione.

Il fatto nuovo si verificò il 10 settembre 1877. Era allora vescovo di Santo Domingo l'italiano monsignor Cocchia ed era console d'Italia Don Luigi Cambiaso, discendente del famoso ammiraglio Cambiaso delle flotte di Santo Domingo. Erano in corso diversi restauri all'altar maggiore e monsignor Cocchia ne approfittò per constatare se v'erano altre tombe nei muri della Capilla. I lavori erano diretti dal canonico Don Francisco Billi, altro italiano, uomo di grandi meriti che ha oggi una statua di marmo nella capitale della Repubblica. Fu trovata la tomba vuota che aveva contenuto il cadavere trasportato a Siviglia.

— Nel sondare i muri – è monsignor Noel che parla – si sentì un suono cavo che impressionò i presenti. Si tolsero alcuni mattoni e si trovò una nicchia. Nella nicchia v'era una cassa quadrata. Furono immediatamente sospesi i lavori e furono ripresi il giorno dopo alla presenza del vescovo, del console d'Italia Cambiaso, del ministro degli Interni, del corpo consolare al completo, delle autorità civili, militari ed ecclesiastiche. La cripta conteneva un sarcofago di piombo, sfondato nella parte superiore. Una folla enorme gremiva la cattedrale ed erano stati accesi tutti i ceri degli altari. Sulla cassa v'erano le traccie di una epigrafe. Nell'interno v'erano poche ossa, alcuni frammenti di cranio, una clavicola. L'interno del coperchio recava la seguente iscrizione: «illustre y estimado varón Don Cristóbal Colón». Mentre l'organo intuonava il Te Deum e la folla esprimeva nel canto del salmo trionfale la gioia di aver trovato i resti dello Scopritore, fu steso un processo verbale che reca le firme del vescovo, del Capitolo, dei membri del governo, del sindaco della città, di Don Luigi Cambiaso console d'Italia e dei consoli di Germania, Francia, Spagna, Inghilterra, Stati Uniti ed Olanda. Vari documenti trovati nell'archivio delle Indie dimostrano che il luogo nel quale fu trovata la cassa corrisponde esattamente al punto nel quale fu sepolto l'Ammiraglio.

Naturalmente Siviglia contesta l'autenticità della scoperta, ma i documenti di Santo Domingo sono impressionanti. Gli scienziati si sono divisi in due campi. La questione è in sospeso. E lo sarà per molto tempo. Forse, chissà, per sempre!

Monsignore è obbligato a lasciarmi. Entrano infatti in chiesa gli allievi di una nave-scuola argentina, in onore dei quali è aperta la teca d'argento che conserva i resti di Colombo. I miei occhi vedono pochi avanzi mortali che possono essere quelli del grande marinaio di Genova. Ed un brivido indefinibile mi corre per le vene!

Poi gli argentini se ne vanno. Anche monsignor Noel si ritira. Lo scaccino in redingote chiude le porte. Un dollaro degli Stati Uniti mi permette di restare nella cattedrale silenziosa e deserta. Il sole delle Antille filtra attraverso le vetrate violacee nella chiesa in penombra.

Il mio pensiero vola lontano assai. Va fino in Cina. E ricorda la Pagoda dei Geni di Canton nella quale contemplai lungamente la statua del «genio» Marco Polo, adorato dai gialli. Perchè il mio spirito accomuna in quest'istante i due massimi viaggiatori della Storia? O è forse il mio cuore italiano che palpita fortemente nel petto, gonfio d'orgoglio per le incomparabili glorie della razza?

Domani visiterò il palazzo in rovina di Don Bartolomeo Colombo e la mia mente rievocherà i fasti di questa casata ligure che ha regalato alla razza bianca il Nuovo Mondo. Oggi no. In questa chiesa oscura ed un po' paurosa dimentico l'Ammiraglio. Penso solo al Grande Sfortunato che dorme nella teca d'argento. Pochi momenti fa i suoi resti miserabili hanno sentito il tepore del sole! Cento occhi latini, giovani ed ardenti, li fissavano con un impercettibile tremito nelle pupille!

Me lo immagino ragazzo, sulle coste della Liguria, obbligato a battere la lana nel fondaco paterno, mentre la sua anima irrequieta correva dietro le vele che lasciavano la Superba e puntavano le prore verso le lontananze del mondo. Lo vedo errante per le scalinate di Genova, ramingo di palazzo in palazzo, chiedendo ai mercanti ed ai dogi i mezzi materiali di realizzare il suo grande sogno. Poi esule in terra straniera, non creduto, deriso, imprigionato, vagabondo di città in città, di corte in corte, con la sua offerta formidabile che fa ridere le genti.

Ligure tenace, riesce e vince. Cambia la storia dei popoli e delle dinastie. Distrugge regni e religioni. Muta il corso del mondo. Finisce in carcere. Muore pezzente. Imperi e repubbliche nascono dalla sua opera. Sorgono nuovi popoli e si formano nuove civiltà. Egli ha per compenso un tozzo di pane duro, condito di lagrime. È lo «straniero» che ha torto! È il primo «emigrante» italiano in America!

Quella che doveva essere la «Colombia» ed eternare nel nome di un continente il gigante di Genova, fu dapprima «las Indias», poi l'America. I suoi discendenti non ereditano che titoli nobiliari senza valore e finiscono col non possedere neppure un palmo di terra in quell'emisfero che il loro antenato ha scoperto e che arricchisce re, príncipi ed avventurieri. Duecento nove anni dopo la sua morte la Spagna decide di tributare onori imperiali ai suoi resti e... sbaglia di sarcofago. Ossa che non sono sue hanno gli onori del trionfo. Oggi tedeschi e galiziani vogliono derubarlo anche della sua patria: Genova. Uno scrittore francese scrive un libercolo d'appendice sulla sua vita per far denari con poco spirito a spese dell'Ammiraglio. Uno storico e professore cubano in un volume di cinquecento pagine gli dà una nuova nazionalità e lo fa catalano.

Pochi uomini al mondo sono stati altrettanto sfortunati di Cristoforo Colombo. In vita e dopo morte.

Quale misteriosa maledizione degli Incas o dei Mayas pesava sul suo destino?

Però il suo nome stabilisce una delle grande svolte della storia umana. E splende, eterno, nel tritume dei secoli, legato alla grandezza di una razza che ha dato all'umanità i suoi massimi geni e le sue supreme conquiste.

La nostra!

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