DA SANTIAGO ALL'ISOLA AZZURRA

Dopo una settimana di soggiorno a Santiago mi trovo sul piroscafo nord-americano che mi deve trasportare all'isola azzurra. Manca poco per la partenza. Manca poco per il tramonto. Già i passeggieri sono tutti a bordo; non si aspettano che alcuni ufficiali, trattenuti a terra dal grande amore che questi cittadini di un paese «secco» sentono per le città dei paesi «umidi».

Santiago spiega dinanzi ai miei occhi il suo profilo, incassato entro montagne boscose e severe che l'incorniciano da vicino e quasi l'imprigionano. Disseminata su tre colli, la vecchia città ha qualche cosa di mediterraneo, d'orientale e di saraceno che parla alla mia anima latina. Antiche muraglie pongono qua e là una macchia austera nell'insieme delle casette bianche. Varie croci sovrastano i tetti ed i giardini. L'aspetto generale di Santiago è monacale e guerriero. I suoi forti sono smantellati e la sua potenza politica è finita, ma essa conserva l'impronta della sua antica armatura ed istintivamente evoca in chi la guarda visioni di caserme e di conventi, di cavalieri avventurosi e di frati implacabili.

Nel punto più alto dell'abitato, la cattedrale alza le sue due torri bianche che finiscono Santiago e l'incoronano. Torri ovoidali, tozze e pesanti, che paiono cupole di fortezza. Sembra che la città esista solamente per servire da zoccolo a questa cattedrale aerea, massiccia e militaresca. Immense nuvole di rame si accendono sui monti. Qualche vetrata fiammeggia. Il sole colora metallicamente i quartieri alti e la marina.

Girando i giorni scorsi per le stradine ripide e strette di Santiago, non ero riuscito a capire il loro spirito, distratto com'ero da cento piccole cose moderne e banali che m'impedivano di ascoltare il linguaggio delle pietre. La cattedrale stessa, curiosamente commercializzata dal vescovo italiano Guerra che l'ha fasciata con una cintura di botteghe, m'aveva lasciato disorientato e freddo nonostante le lapidi che ricordano le glorie della Spagna e della Croce. Solo di notte, quando le vie erano deserte e la scarsa illuminazione faceva più cupe le stradine, quando il mio passo solitario rimbombava sui selciati e le discussioni politiche di qualche nottambulo attardato echeggiavano stranamente nel silenzio, solo allora avevo avuto una vaga sensazione di medioevo mediterraneo e di inquisizione spagnuola.

Ma ora che contemplo la città dal mare, ad un miglio dalla costa, che ne abbraccio la struttura, che ne osservo il cipiglio di frate moschettiere, ora che più non si scorgono le botteghe di monsignor Guerra e solo si vedono le due grandi torri della cattedrale librate nel vuoto, che schiacciano la città con la loro pesantezza e nello stesso tempo l'innalzano verso il mistero dell'Infinito, ora che le tinte del tramonto spennellano di ruggine e di limatura di ferro i roccioni della costa e le gradinate dei quartieri, ora sento l'anima mistico-guerresca di Santiago che sopravvive ai secoli, alla storia ed alle nuove costruzioni americane. Nessun alcalde potrà cambiare la sua fisionomia. Nessun piano regolatore potrà mutare il suo profilo che è intimamente connesso con la stessa conformazione dei colli aguzzi sui quali i primi coloni costruirono la capitale, intimamente connesso con le sagome dei monti boscosi che la stringono entro le loro fiancate selvaggie e con la tozza cattedrale del Santo che domina prepotentemente lo scenario.

Una lancia reca a bordo i ritardatari: il medico, un ufficialetto di coperta, il vice-commissario, un passeggero yankee. Sono tutti e quattro brilli. Due ridono come ragazzi, dandosi grandi manate sulle spalle e simulando spunti di boxe alternati con passi di charleston. Hanno l'alcool allegro. Gli altri due sono invece severi, accigliati, funerari. Hanno l'alcool cattivo. Alcuni neri scaricano dietro i nuovi venuti diverse casse di birra.

Il medico diverte i presenti estraendo dalle tasche dei suoi pantaloni, della giacca, del panciotto, perfino dall'interno del cappello una serie veramente incredibile di bottigline e bottigliette, tutte piatte e genialmente tascabili, ripiene di whisky, di rhum, di gin, di cognac. Sono recipienti fabbricati appositamente per il consumatore nord-americano che porta la fiala del whisky nel taschino del panciotto e per la consumatrice americana che nasconde la boccetta del gin insieme con lo scatolino della cipria nell'intimità della borsetta. Conto ventiquattro bottiglie: una media di quattro litri di alcool coi quali l'eccellente medico può affrontare allegramente la navigazione fino al canale di Panamá sopra un piroscafo «secco» degli Stati Uniti!

La nave alza l'ancora e s'allontana quetamente. E la baia di Santiago spiega dinanzi agli occhi dei viaggiatori la sua magnificenza, teatralizzata dagli sprazzi del tramonto.

È una baia lunga diversi chilometri e stretta, come un corridoio aperto dal mare in mezzo ai monti, in fondo al quale Santiago staglia la sua sagoma monumentale. Di mano in mano che la nave s'allontana, i monti che circondano la città hanno l'aria di diventare più alti e più foschi. Il sole morente li lascia nell'ombra, come quinte tragiche, come panneggiamenti funebri di un colossale mortorio. La città si rattrappisce e si rannicchia. Il tramonto l'arrossa, l'insanguina, la empie di piaghe e di cicatrici. Le case s'uniscono e si confondono formando una massa grigio-rossa senza forma che in certi punti ha l'apparenza solamente di una roccia o di una cava. La cattedrale invece ingigantisce con la distanza. Le sue torri paiono più grandi e più alte. Si direbbe che s'allungano e si gonfiano. Dominano il quadro e lo empiono. La città sparisce. La cattedrale è tutto. Il sole morente mitraglia la sua mole e la vecchia chiesa risponde fieramente all'attacco col barbaglio delle sue vetrate e col fulminio delle sue croci. È feroce ed immensa. Quattro secoli e mezzo di storia coloniale sono condensati nel suo fulgore vespertino.

«Santiago y cierra Espa ñ a!» era il grido di guerra col quale gli spagnuoli fondarono il loro impero d'America. Il grido di Don Diego Colombo, di Cortés, di Pizarro, di Velázquez, degli avventurosi capitani ed ammiragli che accanto alla bandiera di Castiglia ostentavano il vessillo del potente ordine militare di Santiago e che dettero il nome di Santiago – patrono di Spagna – a numerose città del Nuovo Mondo perchè meglio d'ogni altro simboleggiava l'ardore dei monaci e degli hidalgos, dei frati guerrieri e dei cavalieri mistici, dei vescovi strateghi e dei conquistatori apostolici.

Qua e là un'isoletta verdeggiante od un punto civettuolo della costa trasformato dai cittadini in ritrovo balneare, tentano di mettere una nota di sorriso nello spettacolo, ma la baia è troppo aspra e severa per lasciarsi vincere da simili frivolezze. È una baia di guerra, legata ad imprese coloniali e militari nelle quali la spada e la croce gareggiarono in eroismo ed in ferocia. Ogni tanto le montagne s'aprono su sfondi foschi e selvaggi che paiono tane di pirati e rifugi di briganti. Il tramonto ferrigno accentua l'aspetto rude dei luoghi. Il cielo non ha nessuna dolcezza, nessuna sfumatura d'opale, nessun brivido di madreperla: solo lampeggiamenti che paiono bordate di vascelli e fiammate che sembrano riverberi d'incendio. Nell'atmosfera è sospesa una ruggine rovente che imbratta il cielo ed insanguina il mare. Le nuvole sono cariche di ferro, di rame, di zinco, di magnesio. Qualcuna arde pazzamente come un rogo di suppliziato. Altre sembrano paradossali scafi di vecchie navi rugginose che si dissolvono nello spazio.

Dove la baia finisce, la sua imboccatura si stringe a morsa. Da una parte c'è un costone selvaggio di roccie e di alberi. Dall'altra s'erge il Morro, enorme castellaccio spagnuolo assiso sopra un basamento di scogli e di casamatte. Diversi ordini di muraglie merlate scalano la scarpata e terminano in alto con una torre mozza e bassa che sembra un mastino.

Per oltre quattro secoli la bandiera di Isabella la Cattolica, di Carlo V e di Filippo II ha salutato dall'alto del Morro di Santiago le flotte di Spagna che partivano per avventure di guerra e di conquista o che tornavano da crociere e battaglie. E dall'alto del Morro la vecchia bandiera salutò anche l'ultima flotta, quella non più «invincibile armata» che nel 1898 non volle lasciarsi catturare dai nord-americani nella baia e preferì andare incontro alla morte sicura con tutti i pavesi spiegati e tutti i vessilli sciolti al vento della sfortuna.

I cannoni di Washington colarono a picco, una ad una, le navi imbandierate che uscivano una ad una dall'imboccatura della baia. Ed una ad una sparirono negli abissi, teatrali ed eroiche, grottesche e sublimi, sotto gli spalti del Morro smantellato.

Pare che il tramonto tropicale voglia svegliare negli animi il ricordo di quella tragedia spagnuola che fu anche tragedia europea. La Spagna vi perdette gli ultimi resti della sua potenza coloniale: Cuba, Portorico, le Filippine. L'Europa assistette con le braccia conserte e col sorriso incosciente alla diminuzione del suo prestigio nel mondo. Gli occhi dei passeggieri yankee osservano con curiosità le vecchie pietre che la nave quasi sfiora coi suoi ponti. Forse essi ricordano il Maine e le facili vittorie di Wood. Due donne spagnuole dal profilo andaluso ed un vecchio dal caratteristico naso castigliano – il naso dei caballeros del Greco – hanno anche essi i loro sguardi fissi sulla vecchia torre, ma senza curiosità. Una fiamma arde nelle loro pupille. Fiamma che brucia giù nel profondo dell'anima, nel profondo delle reminiscenze ereditarie. Io mi sento latinamente vicino alle due donne andaluse ed all'uomo di Castiglia.

L'ultima visione che abbiamo di Santiago è il Morro che arde nel fuoco del tramonto, in alto alle roccie esterne dell'isola che sono tutte butterate di caverne. Il mare riflette nella sua trasparenza i falò degli scogli e l'incendio del castellaccio. I gialli ed i rossi del crepuscolo empiono mare e cielo coi colori della Spagna!

Una sola notte di navigazione separa Santiago da Kingston. Pranzo collegiale di nave nord-americana. I passeggieri hanno l'aria di tanti seminaristi dei due sessi in periodo di esercizi spirituali. Aranciate e limonate nei bicchieri. Lessi e pappette nei piatti. Come mangia male questa povera gente della Repubblica miliardaria! Una specie di camomilla che dovrebbe essere caffè chiude il pasto del convitto galleggiante.

Un ufficiale mi fa cenno di seguirlo. Dinanzi ad una cabina trovo una diecina di persone in maniche di camicia che aspettano. Non abbiamo certificato fresco di vaccinazione ed il regolamento prescrive che l'operazione si faccia a bordo. Il medico brillo delle ventiquattro bottigliette tascabili sbriga la faccenda come s'usa col marchio dei montoni nelle farms. Quando è il mio turno rifiuto di farmi vaccinare dall'uomo del rhum e la mia indipendenza latina meraviglia il resto del gregge.

— Non potrete scendere a Kingston! – minaccia l'ufficiale di servizio.

All right!

Io so che il medico inglese di Kingston ascolterà con impassibilità britannica la ragione del mio rifiuto – lo stato d'ubriacchezza del collega nordamericano – e m'autorizzerà freddamente a scendere pregandomi di passare in giornata al Dispensary.

E la sera racconterà agli amici inglesi il grazioso casetto.

Ai primi chiarori dell'alba siamo già nella baia di Kingston. Dopo la visione tragica di Santiago l'isola azzurra ci riceve in un salone incantato che ha una cupola di turchese. Grandi venature azzurre striano lo smeraldo soavissimo della baia. Alte montagne seghettano con le loro creste l'immacolato sereno del cielo. L'aria è dolce, profumata, tiepida di sole, carica di effluvi. Mille palme salutano dalle rive. La Giamaica ci offre il sorriso d'uno dei suoi più soavi mattini.

La nave scivola con lentezza. Scivola lievemente sul vetro dell'acqua. I fondali trasparenti mostrano i velluti screziati delle arene. Due rotoli di cristallo sgaiano sul filo della prua. Un frullo di vetrame iridescente si frange a poppa. Nel silenzio s'ode un gran fruscio di rasi stracciati e di sete smosse. Dalle rive vicine giungono ondate di canti, rintocchi di campane, echi di chitarre.

Un colle ci saluta con una fiumana di ibischi in fiore che precipita dalla cima a mare e continua in acqua con una grande ombra piena di brividi e evanescenze. Nella meravigliosa lastra della baia si riflettono le linee sinuose delle sponde, gli ombrelli delle palme, i ventagli dei bambù, i triangoli dei monti, le vele peschereccie che sciamano per ogni dove, i bungalow patrizi che fanno capolino fra i manghi e gli alberi del pane. Ride la terra e ride il cielo. Dai picchi turchini delle Blue Mountains ampie ondate di azzurro diradano nell'aria, scendono al mare, penetrano nell'anima, empiono di sereno gli occhi degli uomini e di pace i loro spiriti. Il paradiso tropicale di Giamaica prepara i viandanti alla grazia del suo eterno giardino.

Fin quasi all'ultimo Kingston nasconde dietro un promontorio i suoi quartieri di legno e di mattoni, quasi abbia ritegno di guastare la visione di sogno che l'«isola azzurra» serba ai suoi visitatori mattutini.

Arriva la lancia col dottore inglese.

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