L'ALCÁZAR DI SANTO DOMINGO

Proprio dinanzi al porto, nel punto nel quale ferve più attiva la vita moderna, s'ergono i resti dell'Alcázar di Don Diego Colombo, figlio del grande Ammiraglio. Dell'antico fastoso palazzo non restano in piedi che le quattro mura massiccie, costruite con enormi pietre sovrapposte, annerite dal tempo, macerate dalle intemperie, slabrate dagli incendi, dalle rivoluzioni e dalle guerre civili. Ma restano in piedi, a ricordo dei tempi eroici della scoperta e della conquista. Un guardiano mulatto è incaricato di difendere questi ultimi sassi dai ladri di pietre che avevano l'abitudine di ricorrere al palazzo dei Colombo ogni qualvolta avessero bisogno di un po' di materiale a buon mercato per rabberciare i muri delle loro stalle o per riattare i comignoli delle loro casette.

Il guardiano mulatto è pagato quasi niente e per aiutarsi ha impiantato nei cortili dell'Alcázar orto e pollaio. Numerosi ordini di fagiolini e di melanzane occupano ora i cortili e gli atri nei quali le dame della corte coloniale ed i cavalieri del vice-re ordivano i loro intrighi e consumavano i loro amori sotto gli occhi sognanti di Diego e di Bartolomeo Colombo o quelli feroci di Nicolás de Ovando o quelli perfidi e sinistri del crudele Bobadilla, l'implacabile nemico di Cristoforo Colombo. Piante di fichi sono cresciute in cima alle mura, nelle fenditure dei crepacci e nel cavo delle ferritoie, rachitiche per la poca terra di cui dispongono, contorte dai troppi venti coi quali debbono combattere. In basso razzolano le galline ed i figli del custode e v'è una lavanderia che la moglie del guardiano affitta alle comari del porto che vi lavano i panni dei doganieri e degli equipaggi. Due grandi spalliere di buchenviglia versano giù da un muro un torrente di velluti rossi ed amaranto e quella cascata opulenta evoca gli splendori della corte vicereale di Don Diego Colombo e le feste sfarzose di Donna Maria di Toledo che scandalizzavano i frati di San Domenico.

Benchè il palazzo si trovi nel cuore della città, stretto d'ogni lato da case e da botteghe, da bettole e da garages, quando s'è dentro par d'essere isolati in un luogo deserto, tanto alte e spesse sono le mura. Le sirene delle navi rimbombano nel cavo delle muraglie e si frangono in echi che scappano fuori dalle grandi finestre a perdersi sui tetti e sui coccheti di Santo Domingo. Il tempo ha distrutto tutti gli interni accomunando l'appartamento di Donna Maria con la carcere del cacicco Enriquillo ed il gran salone del Trono con le dipendenze degli schiavi. Pochi abbozzi di gradinata e qualche mozzicone di tramezzo murale indicano che tutto questo vuoto era occupato un tempo da scalee d'onore e da sale d'armi, da gallerie di quadri e da patios andalusi. Dove non c'è l'orto del custode si scapricciano ortiche e girasoli. Non si sa bene se il palazzo fu incominciato da Don Diego Colombo oppure da Bartolomeo, fratello di Cristoforo, ma sembra più probabile che Don Diego e sua moglie Maria, cugina di Ferdinando il Cattolico, abbiano incominciato la costruzione di questa reggia che gli archivi delle Indie descrivono splendida d'ori e di capolavori artistici, piena di altari spagnoleschi fatti venire di Galizia e di Andalusia e di preziosi oggetti indios tolti ai grandi cacicchi Maniocate a Caonabo dopo la vittoria di Bartolomeo Colombo al Santo Cerro.

Tre secoli di storia coloniale di Spagna e d'America sono legati a queste mura gloriose che hanno visto passare vice-re, ammiragli, governatori, arcivescovi, inquisitori e grandi alcadi; che hanno ascoltato le campane della prima basilica d'America, San Nicola di Bari, e della prima università d'America, il celebre Ateneo San Tommaso D'Aquino; che hanno resistito al disastroso terremoto del 2 novembre 1564 ed hanno visto il 10 gennaio 1586 la formidabile flotta inglese dell'ammiraglio Penn incaricato da Cromwell di spazzare la bandiera spagnuola dai mari delle Antille. Luogo d'armi e di amori, di loschi intrighi e di eroiche imprese, l'Alcázar ha preso parte attiva a tutte le avventurose lotte coloniali fra Spagna, Francia, Inghilterra ed Olanda, ora centro di resistenza, ora agognata meta di vittoria. Le sue sale hanno ospitato le congiure e gli innumerevoli intrighi dei bucaneros, dei filibusteros e dei forbantes e le rivalità implacabili fra gesuiti e domenicani. Qui sono stati firmati gli ordini delle carneficine degli indios e delle stragi degli schiavi neri e sono state domate con la violenza le rivolte degli uni e degli altri. Tutte le passioni e tutti gli avventurieri della colonia hanno via via trovato albergo in queste mura, ora rifugio di polli e di avvoltoi. Di tragedia in tragedia sono passati i secoli e s'è formata l'America. I due stemmi di Colombo e di Castiglia che ancora restano sulla pietra, sono stati spettatori delle feste fantastiche con le quali furono celebrate le vittorie di Pizarro e di Cortés nel Perù e nel Messico e sono stati spettatori della triste vigilia di Aristizabal quando la Spagna ammainò la bandiera dalla sua prima città di America. Le cronache del tempo descrivono la folla che assisteva alla partenza delle navi spagnuole. Il popolo vedeva con secreto espanto imbarcarsi gli uomini di toga e di guerra. Quando s'imbarcò la Real Audiencia, il tetto dell'Alcázar dei Colombo s'inabissò improvvisamente ed il popolo fuggì nelle chiese. Forse l'anima del gigante di Genova protestava contro la debolezza di Madrid? Sulle mura del palazzo dei Colombo sventolò la bandiera della Francia – nemica di Genova – e più tardi quella dei re neri di Haiti. Le sale che avevano ascoltato le conversazioni in genovese di Bartolomeo Colombo col nipote Diego, ospitarono le amanti nere e mulatte dell'africo-haitiano Paul Louverture. Dicono che Bonaparte trovasse la profanazione così grave che inviò il generale Leclerc con 16.000 uomini a riconquistare l'isola e la leggenda vuole che la bella Paolina Borghese abbia dormito diverse notti nella camera da letto di Maria Colombo y Toledo.

Più di tre secoli di storia hanno avuto per sfondo queste mura, ma lo spirito del visitatore italiano si sofferma di preferenza sui primi quarant'anni dell'Alcázar che furono quelli della tragedia della famiglia Colombo, colpevole agli occhi degli spagnuoli d'essere una casata «straniera». Gli intrighi della nobiltà spagnuola incominciarono subito dopo il secondo viaggio di Cristoforo in America e s'intensificarono durante il terzo, quando la Corte ingrata di Madrid lasciò imprigionare il Grande Ammiraglio ed i suoi fratelli dal feroce Bobadilla. Cristoforo Colombo potè ancora una volta tornare in America, ma finì povero ed angosciato, lontano da quel mondo che il suo genio italiano aveva regalato alla razza bianca. Solo tre anni dopo il figlio Diego, divenuto più potente per il suo matrimonio con la figlia del duca d'Alba, ottenne d'essere reintegrato negli onori e nelle ricchezze del suo rango.

L'archivio delle Indie e i diari dell'Ordine di San Domenico sono pieni di resoconti delle feste principesche con le quali questo figlio di un genovese oscurava gli splendori della corte di Madrid, unendo al fasto della Spagna l'altera opulenza della Superba. In mezzo ai balli, alle caccie ed alle cavalcate si svolgevano gli intrighi dei nobili castigliani capitanati dal Tesoriere Reale Don Miguel de Pasamonte e quelli più sottili, ma non meno velenosi, dei frati domenicani. Quante volte la tonaca violacea di monsignor Girardini ha salito queste scale sulle quali in questo momento la figliuoletta nuda del guardiano insegue un porcello bizzoso di Santo Domingo, gettando lo scompiglio fra le galline e le farfalle dell'ex Alcázar? Obbligato a lasciare l'isola, Don Diego Colombo dovette aspettare che salisse al trono il grande Carlo V per tornare a Santo Domingo; ma quattro anni dopo era nuovamente costretto a ripartirne. La morte lo inchiodava in Ispagna. Suo figlio, Don Luigi di Veragua, nipote di Cristoforo Colombo, finì coll'essere diseredato completamente di tutti i suoi diritti e di tutte le ricchezze della casata. Non gli rimase che il titolo onorifico di marchese della Giamaica, posseduto dal suo grande avo. Così terminò la fortuna dei Colombo e le ossa del grande genovese sarebbero sparite oscuramente nel tritume del cimitero di Valladolid se la nuora Maria D'Alba non avesse chiesto il permesso di trasportare a proprie spese le ceneri di Cristoforo e di Diego Colombo a Santo Domingo. Solo allora i frati di San Domenico deposero le armi ed aprirono ai resti del Grande Ammiraglio la cripta della Cappella Maggiore della Cattedrale.

Dall'alto delle mura dell'Alcázar contemplo il porto, il fiume, la città, le fortezze, i coccheti e le campagne che s'addormentano nella serenità bluastra del crepuscolo. Il sole è già scomparso ma ancora un po' del suo oro galleggia sulle acque e pare che i cocchi si curvino a lambirlo lungo la spiaggia. Se per un momento faccio sparire con l'immaginazione tutti i bassi abitati bianchicci della città nuova, posso comporre coi forti, con le chiese, coi conventi e con le muraglie l'antica Santo Domingo dell'epoca coloniale. Una fila di asini s'insegue sotto la Puerta del Conde. Frotte di mulatte a braccetto transitano per il Portone della Misericordia. Nel cielo si sposano i suoni delle campane. In mezzo ai lumi della città che incomincia ad accendersi, s'erge nera e funerea la mole della Cattedrale, contemporanea dell'Alcázar. E pare che le due rovine secolari si parlino nella soavità del crepuscolo sul brusio pettegolo dei quartieri. Forse si raccontano ciò che hanno visto e sentito nell'andare dei secoli?

Proprio di fronte al Palazzo dei Colombo c'è il tronco d'albero – oggi pietrificato – al quale secondo la leggenda Cristoforo Colombo legò il canapo della Santa Maria quando gettò l'ancora la prima volta dinanzi a Santo Domingo. Da qualche anno un modesto cancello cinge il cimelio. Due passi più lontano una vecchia haitiana ha istallato le sue padelle di friggitora. Dicono che sia stata una delle favorite del presidente Lily e che abbia avuto da lui questa concessione. Vecchi comandanti che da quarant'anni fanno il cabotaggio delle Antille l'hanno vista sempre lì, anche quando erano mozzi. Ha una sua maniera speciale di spadellare e di servire, simile a quello di un'altera castellana che faccia gli onori delle sue mense, ma se per caso un mozzo tenta di farla franca coi centavos delle polpette è capace d'inseguirlo fino a bordo e di mettere in rivoluzione l'intero porto. È questa l'ora in cui i marinai dei velieri e delle golette lasciano a bordo i cani ed i nostromi e scendono a terra ad annegare nell'orgia serale di Santo Domingo il tedio ed i malumori dell'eterno andirivieni fra l'una e l'altra delle Antille. Le frittelle della vecchia haitiana sono la prima tappa obbligatoria dei nottambuli. Frittelle zeppe di pepe e di spezie che fanno la fortuna delle bettole vicine.

Nello scendere dalle mura leggo sopra una pietra: CristóbaI Colón, gallego! Più sotto un'altra mano ha scritto col carbone: Es asturiano!

Nel luogo che consacra le disgrazie dei Colombo per la loro nazionalità genovese le due rivendicazioni nazionali e regionali spagnuole fanno sorridere tristemente! La mia anima italiana evoca istintivamente il panorama della gloriosa città che vide Cristoforo Colombo fanciullo e tenne compagnia ai suoi sogni di ragazzo. Quante volte, in questa stessa melanconica ora del crepuscolo, gli occhi del grande marinaro intravidero al di là della linea dei coccheti il profilo superbo della Dominante, gli alti palazzi di marmo a gradinata sul porto possente, la cintura formidabile delle mura e dei forti sulla quale le cupole ed i campanelli cantavano la gloria e la ricchezza di San Giorgio!

Ben amò Colombo la sua Genova! Non solamente egli afferma nettamente de ser nacído en Genova nel documento stesso che consacra il maggiorasco della sua casata (22 febbraio 1498, Archivio Reale di Simanca) ma nello stesso documento raccomanda al figlio Diego «che mantenga e sostenga sempre nella città di Genova un membro della famiglia che v'abbia casa e moglie e v'abbia rendita tale da poter vivere con onestà e decoro e si stabilisca e faccia famiglia nella città, puesque della sali y en ella naci».

Più giù, parlando della solidità del Banco di San Giorgio dice: «Genova es ciudad noble y poderosa, donde me moví par ir descubrir las Indias». E raccomanda a Diego ed ai discendenti di lavorare sempre «per l'onore, il bene e lo sviluppo della città di Genova e di impiegare tutte le sue forze ed i suoi beni a difendere ed accrescere la prosperità e l'onore della repubblica di Genova».

Accanto a questo documento decisivo (di fronte al quale si è inchinata la stessa Real Academia Espa ñ ola de Historia) cento altri documenti del tempo testimoniano chiaramente la nazionalità genovese dello Scopritore del Nuovo Mondo: lettere autografe di Colombo; documenti del Real Tesoro; scritti del figlio Fernando; lettere dell'ambasciatore di Spagna in Genova Nicola Oderigo (1502) e del Banco di San Giorgio (1502); documenti della Corte inglese; per di più la testimonianza concorde di tutti i contemporani: i vescovi Giraldini e Giustiniani Pietro Martire d'Anghiera (intimo amico di Colombo), Pedro De Isola, lo storico Antonio Gallo, il duca di Medinaceli, ecc. ecc.

Perchè la nuova Italia imperiale non esprime la sua fierezza materna anche nel palazzo dei Colombo a Santo Domingo con una targa di buon bronzo italico, il quale ricordi ai visitatori delle tre Americhe la nazionalità del grande navigante che ha cambiato con la sua scoperta la fisonomia del mondo civile?

Il giorno in cui ho visitato l'Alcázar v'erano gli allievi di una nave scuola argentina, molti dei quali avevano un cognome spiccatamente italiano. La mattina v'era stato il presidente della vicina Repubblica di Haiti e s'aspettava in settimana una carovana di quattrocento turisti della California. A tutti questa targa avrebbe ricordato la terra magnifica che si è specializzata nel dare geni all'umanità. A quelli di origine italiana avrebbe dato anche un piccolo palpito. Uno di quei palpiti misteriosi che non si sa di dove vengano, ma che toccano misteriosamente il cuore.

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