GIAMAICA, PARADISO DEI TROPICI

Dopo aver eseguito una inchiesta speciale presso il Consolato d'Italia, il Comando della Polizia, il Segretario del Governatore ed il vescovato cattolico, mi sono convinto che effettivamente in Giamaica non v'è nessun italiano. Il console è un vecchietto inglese le cui conoscenze della nostra lingua si limitano ad un comico «Buan giernu»! È la primissima volta da che giro per lungo e per largo il mondo che trovo un paese nel quale non v'è neppure un italiano, perchè uno almeno l'ho pescato sempre, dappertutto, magari sotto le spoglie di un missionario che pareva cinese, d'un uomo d'affari che sembrava il prototipo dei cittadini di New-York, d'un merciaiuolo che passava per portoghese ed aveva una nidiata di bimbi mulatti. Vi sono, sì, in Giamaica dei Giannini, dei Sanguinetti e dei Vitiello, ma recatomi a far visita a questi connazionali ho dato di picchio nel primo caso in un dentista californiano coi denti d'oro che m'ha mandato a spasso, nel secondo in un esportatore di tartaruga con tanto di passaporto inglese e nel terzo in un nero autentico, laureato ad Oxford, che non so come abbia potuto ereditare un cognome tanto partenopeo.

Messo finalmente il cuore in pace sull'inesistenza di cittadini italiani in Giamaica – una cosa che mi tormentava da una settimana – ho deciso di lasciare gli eccellenti neri di Kingston e di andarmene per qualche giorno nell'interno dell'isola verso Mandeville ed Ewarton, in attesa del vapore olandese che dovrà trasportarmi ad Haiti.

Parto alle due del pomeriggio in un carrozzone di prima classe il quale ha la simpatica novità di non avere sedili. Vi sono invece delle comuni quanto comode poltroncine di vimini che si trasportano di qua e di là, ora accanto ad un finestrino ora accanto ad un altro e che permettono, se si è in comitiva, di fare il proprio bravo crocchio e di credersi in casa propria.

Sono miei compagni di viaggio due mulatti occhialuti dall'aspetto di dottori agronomi i quali si assorbono subito nella lettura del Jamaica Daily Mail; una miss biondiccia d'età incerta che ha nel volto e negli abiti il marchio di fabbrica della turista inglese; infine una famiglia di benestanti negri che ritorna probabilmente alla casa degli avi dopo un soggiorno nella capitale. Lui è un uomo attempato, vestito all'inglese con tanto di barbetta alla Edoardo VII; lei, adiposa e pacioccona, infagottata in un abito di batista bianca inamidatissima, stracarico di pizzi, ha l'aria di una balia di sultano in posizione ausiliaria; loro – tre ragazzone d'ebano scalettate sui diciotto-vent'anni – sfoggiano tre abiti di organdis sbuffante, rispettivamente color verde bandiera, color turchino Adriatico e color giallo quarantena. Docili alla moda hanno le gonnelle al ginocchio e le calze di seta (quaranta fili made in Paris), ma i loro corpi prosperosi di solide femmine nere mal si adattano al misurino della moda europea. I seni scoppiano sotto il tessuto di velo con una violenza che ricorda l'esuberanza della grassa terra tropicale ed hanno una maniera di accavallare maschilmente le gambe che scopre tre dita d'ebano lucido tra l'orlo della sottana e la stretta delle giarrettiere.

Prevedo che se farà caldo sentirò il profumino delle pecore d'Africa!

Il treno parte in perfetto orario e dopo aver fatto per un po' la corte alle villette di Kingston, si slancia in una pianura di canna da zucchero che ondeggia pigramente come un mare in bonaccia sotto un sole di fuoco ed un cielo di caramella.

Arriviamo così a Spanish Town, antica capitale, dove i due agronomi ci lasciano. La famiglia benestante fa una abbondante provvista di aranci, di banane e di ananas. La miss anglo-sassone, dopo aver consultato il suo Baedeker, arma attentamente una Kodak, segno che s'avvicinano novità.

Il treno riparte. È un diretto, anzi il grande espresso di Mandeville, ma si tratta sempre di un diretto da piccola isola, che ha quindi una idea relativa di ciò che siano velocità e distanza. Una catena di montagne profila a nord-ovest la sua mole accidentata e selvosa. La locomotiva, dopo aver traversato un paio di ponti, sotto i quali scorrono lente acque di smeraldo tra filari di bambù e ciuffi di papiri, punta in direzione dei monti. I pali del telegrafo indicano dopo pochi minuti che incominciamo a salire. Le tre ragazze nere sbucciano con aristocratica eleganza tre arancie verdognole del Tropico e sbirciano ogni tanto il biondo straniero non ancora tanto vecchio che è loro compagno di viaggio. Chi può indovinare i sogni di una ragazza negra, educata in un collegio inglese, che torna alla casa degli antenati dopo un tuffo di qualche settimana nella mondanità di una capitale?

La presunta suocera non ha l'aria di preoccuparsi gran che nè del possibile genero di pelle bianca, nè delle quisquilie della civiltà. Sbuccia le arancie coi denti, con dei morsi vigorosi che scoprono in pieno la sua dentiera di animale sano e potente, incastrata senza economie nelle gengive rosso-ocra che sprizzano salute. Eliminate in pochi colpi le corteccie, affonda gli incisivi nelle polpe sugose, le maciulla, le succhia e le distrugge, noncurante del sugo che le impiastriccia il naso e le guancie e che cola abbondante entro i candidi merletti inamidati nelle oscure profondità del petto monumentale.

Brava la balia! Così si gusta un arancio! Incoraggiata dalla tacita simpatia con cui i miei occhi seguono il suo pasto, addenta un ananas, poi un mango, poi una fetta di popone, poi mezza dozzina di grosse banane giamaichine. Tutto sparisce in quattro e quattr'otto nella sua ampia bocca, solida ed insaziabile, che ingoia filamenti e noccioli, senza tanti complimenti.

Ma il finestrino reclama la mia attenzione.

La meravigliosa isola di Giamaica – senza dubbio una delle più belle del mondo – spiega dinanzi al mio sguardo l'affascinante grazia delle sue valli e dei suoi monti che non conoscono inverno e che fermentano in una perpetua primavera. Di mano in mano che saliamo lasciamo indietro i campi di canna ed affondiamo in una vegetazione più grassa e lussureggiante che nell'umidità delle alture trova una terra più ricca di lieviti.

Vasti bananeti ed immensi coccheti si contendono il possesso della campagna. Ora si mescolano violentemente come per una battaglia, ora si spiegano alternativamente in ampie mareggiate come in seguito ad una vittoria. Dov'è il bananeto che vince, la campagna assume un aspetto fitto, turgido, pesante, con un non so che d'ordinato che ricorda la simmetria degli eserciti. Dove sono invece trionfano le palme, i campi assumono la gioiosa baraonda di un gran carnevale e l'occhio si perde in una immensità di ventagli, di pennacchi, di flabelli, di mille bellezze svolazzanti ed aeree.

Ovunque palme e banane lasciano libero uno specchio di terra, alberi giganteschi drizzano chiome solenni e rami carichi di frutti. Il binario apre nella massa verdeggiante uno striscione di terra scura, sul quale le rotaie lampeggianti vorrebbero essere una cosa rigida e sinistra. Ma da una parte e dall'altra delle parallele d'acciaio cento e cento fiori hanno tessuto il più sgargiante broccato che mente umana possa concepire: un broccato spesso e profondo di verdi policromi, con grossi ricami colorati in rilievo che lasciano pendere un visibilio di grappoli, di frange, di fiocchi, di campanelli, di svolazzi e di trine. A cento ed a cento aprono i loro parasoli certi alberi strambi del Tropico che finiscono in ogni ramo con un ciuffo violento di foglie rosse, d'un bel rosso ramato o sanguigno. E su tutto la «bella messicana» – delizia delle Antille – spolverizza i suoi minuscoli grappoli di fiorellini rosa, fini come foglie di capelvenere e tremuli come brividi di seta.

Ad un tratto la linea diventa aspra e selvaggia, quasi sia stanca di quell'orgia di colori e di fragranze. Aspri contrafforti di calcare e di bosco s'accavallano intorno al binario obbligandolo a girare violente scarpate e ad intrufolarsi sotto frequentissimi trafori. Tra una galleria e l'altra rombano impetuosi torrenti e si profilano sfondi alpestri di graniti e di felci. L'aria rinfresca e le nari avvertono l'odore tonico dei pini. Si sente l'alta montagna! Lo spirito si prepara a dire momentaneamente addio alle esuberanze del Tropico per gustare, a mille e più metri di altezza, un soffio corroborante della lontana Europa.

Una lunga galleria spegne tutti gli scenari. Nella penombra del carrozzone i sei occhi delle tre ragazze negre hanno la mansueta dolcezza di quelli dell'antilope e la felina fosforescenza di quelli delle pantere. La madre rumina beatamente il suo pasto vegetale. Un barlume annuncia la fine della galleria ed il principio del miracolo. Si verifica infatti il miracolo, uno di quei miracoli della Bellezza che lo spirito più non dimentica e che accompagnano l'uomo pel resto della vita come una perpetua carezza.

Mentre l'animo è preparato a più rudi montagne ed a più folte pinete, il tunnel sbocca in una vicenda di alte valli tropicali che le cime dell'isola incastonano entro il loro cerchio, proteggendole dai venti del mare e dai soffi delle altezze. Ed il Tropico v'ha piantato un Eden incantato che strappa al viaggiatore un grido di meraviglia.

Sono valli irrequiete che salgono e che scendono, che s'innalzano e che precipitano, che galoppano pazzamente di qua e di là, amoreggiando con cento gonfiori e con mille poggi. Solamente una frenesia vulcanica può aver creato questa burrasca pietrificata. Se la terra fosse brulla e selvaggia lo spettacolo sarebbe grandioso. Se ulivi ed abeti vestissero questi luoghi, le alte vallate di Ewarton sarebbero una delle visioni più serene e più riposanti dell'universo. Vi impazza invece con tutta la sua esuberanza, con tutta l'orgia dei suoi profumi e dei suoi colori, con tutta la fantastica esagerazione delle sue forme e delle sue dimensioni, la strapotente e formidabile vegetazione del grande Tropico e lo scenario assume una magnificenza così spettacolosa che le parole non sanno esprimere nè la gioia degli occhi, nè il tumulto dei sensi, nè la stupefazione dello spirito.

Palmeti, bananeti, coccheti, campi di miglio e di caffè, piantagioni di cacao e di vaniglia, ombre di foresta secolare, serre di fiori, seminati di cotone e di ananas, grovigli di cactus e di sisal, ciuffi di manghi e di tamarindi, blocchi di baobab, coorti di altissimi mogani, mausolei di alberi del pane e di fichi di Babilonia, tutto ciò che la Natura può creare di più grande, di più opulento, di più odoroso e di più raro, tutto è riunito in questo saliscendi di valli, ammucchiato, affastellato, ammassato caoticamente. È una esplosione di potenza vegetale che è forse senza eguali nel mondo, giacchè qui la mano dell'uomo e la possanza della Natura si sono unite per creare un trionfo di foglie, di fiori e di frutti.

Le villette dei piantatori e le casuccie dei contadini ridono in mezzo al verde. Intorno ad ognuna di esse la vegetazione vezzeggia con spalliere di fiori e con scenografie di palmizi. Sfarzosi rampicanti impiallicciano i tetti, coprono i muri, incorniciano porte e finestre, spiegano sui mattoni e sulle pietre un fantastico tesoro di ermellini, di porpore, di manti imperiali, di pallii cardinalizi. Vacche, pecore, anitre, maiali, oche, tacchini, galline faraone vivono liberamente in mezzo agli orti, ai campi ed ai giardini, tra branchi di monelli color guttaperca e color zafferano che sciamano per ogni dove. L'acqua gorgoglia in tutti gli angoli, abbondante, fragorosa, dominatrice. La lucentezza solare accende nei ruscelli arcani riflessi di paradiso. Uccelli d'ogni sorta empiono l'aria di canti, di trilli, di gorgheggi. Trampolieri rosati ed azzurrini ornano di ninnoli meravigliosi i cavoli ed i roseti.

Un profumo acuto di essenze e di resine, misto a sbuffate calde di putredine vegetale, invade le narici, penetra nel sangue, turba il cervello, sveglia nelle vene infinite prurigini. La fecondità della terra eccita i poteri fecondatori della specie e li dissolve nell'atmosfera vigorosa, evocatrice di amplessi e di vagiti.

In certi punti la terra s'apre mollemente a conca e fiumane di palmizi fanno della piccola valle un meraviglioso canestro. Nel mezzo un colle a pan di zucchero erge la sua rotondità. Boschetti di banane ne affrescano le basi. Campi di sorgo e di caffè s'arrampicano sulle pendici, inframmezzati d'alberi di papaia e di mango carichi di frutti. Due palme-cocco s'abbracciano in un angolo tra mazzi di girasole e pergolati di buchenviglia. Una vena d'acqua sgattaiola dentro uno scrigno di papiri. Una ficaia occupa la cima, ficaia del Tropico, grassa, lattiginosa, confusionaria, spezzata da enormi mogani che svettano nel vuoto. In alto, sul vertice del colle, un albero del pane centenario allarga le sue braccia monumentali a sorreggere una cupola di foglie ed una grandine di poponi, turgidi come mammelle di vacca lattifera.

Quale portentoso scenografo crea questi quadri? Chi curva le palme con tanta arte? Chi sparpaglia i fiori, mescola i colori, intreccia le foglie, accomoda con tanta grazia e sapienza le tinte dei verdi, dei gialli, degli scarlatti e dei turchini? Chi ha modellato gli avvallamenti e le alture perchè i fasti della vegetazione acquistino rilievo nella disposizione teatrale del suolo? Chi ha disseminato le acque di smeraldo, i salti d'argento, i frulli d'acciaio, le serpentine di cristallo? Chi ha raccolto in un angolo uno specchio d'acqua morta per slargarvi su uno smagliante tappeto di muffe verdi, punteggiato di fiori di porcellana e di globi soffiati di Murano?

L'anima non può fare a meno di rivolgere alle cose la grande interrogazione. Attraverso gli occhi smagati ondate di bellezza entrano nell'essere... Una vena sottile di poesia nasce nel cuore e vi canta... Vi canta divinamente... Oh! perchè questa canzone svanisce, come svaniscono i sogni?

La corsa del treno cambia ad ogni istante le forme ed i colori della mirabile visione. L'occhio si sperde in un mare di Bellezza. L'anima si sperde in un mare di sensazioni. Ci si sente bimbi e si gioisce intensamente, come bimbi che vedano per la prima volta quanto è splendida la terra. Dalla venustà delle valli s'eleva un cantico grandioso, solenne, musicale, che col murmure di mille foglie e col gorgoglio di mille acque esalta la bellezza del Creato e la meraviglia della Vita.

L'occhio cerca invano all'intorno la cupola e le torri di una Basilica che onori Dio nel trionfo della sua gloria. Poi lo spirito pensa che questa Basilica tropicale che ha per cupola gli splendori del cielo e per base gli splendori della terra è la più grande chiesa che possa onorare la Suprema Armonia dell'universo.

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