I DIAMANTI NERI DELL'ISOLA DI TRINIDAD

Il grande arco delle piccole Antille è chiuso a sud da un'isola che quasi tocca il Venezuela: Trinidad. Cristoforo Colombo la scoprì il 31 luglio 1498 ma gli spagnuoli non ne presero realmente possesso che nel 1532 quando vi stabilirono una base militare in vista della conquista del Venezuela.

La straordinaria feracità dell'isola invogliò gli spagnoli a fondarvi piantagioni di zucchero e di caffè ma gli isolani che erano gente bonaria e pacifica non vollero saperne di lavorare, preferendo lasciarsi ammazzare come agnelli piuttosto che obbedire agli invasori. Il viaggiatore che oggi contempla, nel torpore di un meriggio tropicale, la dolce magnificenza dell'isola di Trinidad, la snervante mollezza del suo clima, la soave fragranza dell'aria, la grazia dei fiori, l'abbondanza dei frutti, non riesce a dar torto a quei poveri caraibi del 1532 i quali francamente non potevano capire la necessità del lavoro e neppure la sua utilità in una terra fortunata, nella quale non v'era bisogno nè di casa nè di vesti e bastava stendere la mano intorno per avere senza fatica tutti gli alimenti vegetali ed animali della creazione!

Nel 1606 un olandese, tale Isacco Duverne, risolse il problema sbarcando a Port of Spain con cinquecento schiavi neri ed incominciò la colonizzazione dell'isola. Pochi anni dopo gli inglesi vi stabilivano una stazione commerciale. Inglesi, olandesi, francesi e spagnuoli si contesero per oltre un secolo il possesso di Trinidad, finchè nel 1797 Sir Ralph Abercromby prese definitivamente possesso dell'isola in nome del re d'Inghilterra.

Oggi Trinidad è una piccola gemma della Corona inglese. Tutta la parte bassa dell'isola è coltivata a zucchero, cacao, banane ed agrumi che formano un delizioso scenario di verde e di fiori. Superbi boschi coprono le montagne. Il mare vezzeggia nelle baie in conche di smeraldo che specchiano l'opulenta pigrizia dei coccheti. Iddio ha donato inoltre a questa isola incantata il Pitch Lake, immenso deposito naturale di pece di inestimabile valore commerciale e ricchi giacimenti di petrolio i quali alimentano una grossa industria. La piccola Trinidad è in sostanza per l'Inghilterra una preziosa possessione agricola e mineraria, oltre ad essere una base strategica di notevolissima importanza come scalo della marina mercantile, come anello di chiusura dei possedimenti insulari delle Antille e come chiave maestra del litorale di Venezuela. Aggiungiamo che dal punto di vista dell'aviazione Trinidad è una base naturale di smistamento delle linee transoceaniche, via Buenos Aires, New-York, Colombia.

Tale è la feracità dell'isola che Trinidad è la sede dell'Istituto Imperiale Inglese di Agricoltura Tropicale (Imperial College of Tropical Agriculture) ed è la stazione agricola centrale della Corporazione Imperiale del Cotone (Empire Cotton Growing Corporation). Perchè l'Inghilterra, la quale possiede tante splendide terre tropicali, abbia scelto l'isola di Trinidad come sede dei suoi massimi Istituti agricoli, bisogna proprio che l'isola sia un miracolo di feracità. Chi infatti visita questo meraviglioso gioiello delle Antille non lo dimentica più! Trinidad non è un'isola. È un giardino incantato delle Esperidi che galleggia sopra una immensità di smeraldo in una atmosfera d'oro e di profumi.

Però i fiori più belli di Trinidad non sono quelli che sbocciano nelle serre e nei giardini. Francesi, inglesi, olandesi e spagnuoli, mescolandosi durante i secoli, un po' fra loro un po' coi neri e cogli indios, hanno finito per creare una razza umana indefinibile che è chiamata localmente «creola». Quando la ricetta è stata alterata durante i secoli il prodotto finale può essere anche un disastro, ma se per caso la ricetta è giusta vengono fuori certi capolavori di bellezza femminile che stregano per la vita il disgraziato passante.

A tre chilometri da Port of Spain – capitale dell'isola – in un pazzo giardino di buchenviglie, d'oleandri e di azucene, che marezzava di granata, di rosa e di bianco lo sfondo azzurro del mare, io ho visto una di queste fantastiche creole di Trinidad. Splendida era la donna, con tutto l'incanto di una bellezza perfetta e con tutto il torbido fascino delle creole: creatura di sogno che spargeva poesia ed irradiava voluttà: visione di paradiso che obbligava il viandante a fermarsi e nello stesso tempo gli suggeriva di fuggire, di fuggire vilmente e rapidamente, perchè vi sono dei pericoli contro i quali non serve il valore e vi sono nella vita delle puntate che è meglio non giuocare per non rischiare di perderle!

Io mi fermai. Volli fuggire ma non potei. E la creola di Trinidad alzò gli occhi dai fiori a guardare il passante. L'Africa aveva dato a quegli occhi la sua notte. Gli indios vi avevano messo il mistero del loro passato. La vecchia Europa, passando di generazione in generazione, vi aveva lasciato la sua anima, un po' dominatrice, un po' romantica, che empie di luce e di varietà lo sguardo delle donne. Lunghe ciglie d'Oriente ombreggiavano quei meravigliosi diamanti neri che avevano la proprietà di penetrare dentro la carne e di raggiungere il cuore. Pungevano quei diamanti! Pungevano da far male! E poi le ciglia carezzavano soavemente, con una delicatezza che struggeva anima e sensi, la piccola ferita!

La Natura, maliosa e perfida mezzana, aveva disposto all'intorno uno scenario torbido ed avvelenatore, fatto apposta per spossare le fibre, per ammorbidire la resistenza, per distruggere con mielata violenza la volontà. Solamente per pochi istanti quei diamanti neri mi fissarono ed io mi sentii intossicare. Quando si risollevarono a guardarmi io ero già perduto, irrimediabilmente perduto.

Il mio lungo andare per il mondo aveva trovato la sua sosta. Una sosta felice o infelice ma nella quale era indispensabile fermarsi. Laggiù, nel porto, la sirena della nave incominciava a chiamare. Commesso viaggiatore dei mari il piroscafo aveva ingoiato il suo petrolio e vomitato le sue merci. Ora ripartiva e chiamava i suoi abitanti a seguitare la corsa verso altri porti, come se Trinidad fosse uno scalo qualsiasi, uno dei tanti scali del mondo per i quali si transita più o meno indifferenti, mentre v'erano invece a Trinidad i due più bei diamanti neri del mondo, quelli che si debbono assolutamente avere, che in tutti i modi e con qualsiasi mezzo bisogna avere per non essere vinti senza possibilità di rimedio dalla vita.

Il vapore partì, portandosi via il mio disgraziato baule che viaggiò solo nella cabina pagata. Povero baule, pieno di cose utili e care che in un attimo avevano perduto per me ogni importanza!

Tre volte rividi in ventiquattr'ore quegli occhi. Quelle tre volte bastarono per cancellare come una spugna quindici anni di vita combattuta e di vagabondaggio pel mondo e per trasformarmi in un povero ragazzo innamorato che faceva i capricci per avere i suoi diamanti.

La terza volta che quegli occhi mi guardarono era già sera e bisognava rimandare all'indomani l'avventura di Don Giovanni Tenorio, perchè Trinidad è un'onesta isola inglese nella quale non si possono scalare i muri di una villa.

Indimenticabile notte delle Antille! Nel cielo sfavillava la gioielleria dei Tropici, raggruppata a vezzi ed a diademi. Ogni tanto una gemma si sfilava e spariva nell'infinito con un brivido. L'aria era dolce e più dolce era il mio sogno. L'aria era profumata e più profumata ancora mi sembrava la vita.

Un vento veniva dal mare, tiepido come una carezza di donna e passando sui giardini di Trinidad s'impregnava di profumi. Profumo di vaniglia, di rosa e di miele che penetrava nelle vene e che macerava l'anima; profumo di gelsomino, di aloe e di lucùm che molceva i nervi ed imbalsamava la carne; profumo di rosolio, di liquore, d'essenza forte, che inebbriava il cervello ed ubriacava lo spirito. Dal villaggio nero giungeva il ritmo d'una canzone d'Africa – infantile e lasciva – che si confondeva con la cadenza più vicina di una musica creola – svenevole ed un po' triste – formando uno strambo cocktail musicale. La notte beveva quella musica e la mia anima innamorata vi ravvisava come un simbolo del suo tormento. E più bella ancora mi pareva l'isola perchè incorniciava il mio sogno, e più soave la notte perchè cullava il mio amore... L'alba mi sorprese sulla sedia a sdraio nella quale avevo perso il conto delle ore.

Guarii sei ore dopo, come si guarisce d'una malattia grave che lascia sempre il segno. Il medico fu un ometto, probabilmente ebreo, che fa il mestiere d'affittare case ed appartamenti. Non ho mai incontrato un chirurgo tanto cerimonioso e tanto crudele! Volevo una casetta vicino al giardino delle buchenviglie e delle azucene e con molta arte condussi il mio ebreo da quelle parti.

A cinquanta metri dalla casa dei diamanti v'era un «si loca» che si dondolava ad un balcone con la grazia di un sonetto. Il luogo mi parve semplicemente incantevole e qualunque prezzo mi avessero chiesto lo avrei trovato assolutamente conveniente.

— Chi abita lì? – chiesi con indifferenza indicando al mio uomo il giardino fatturato.

— La pobre Juanita!

— Perchè «povera»? domandai quasi offeso.

— Ha il mal del pinto! Suo padre e sua madre non l'avevano ma pare che l'avesse il nonno ed è una malattia che non perdona!

L'indomani lasciavo Trinidad sopra un vapore norvegese diretto a Portorico. Avevo rivisto la creola di Trinidad poche ore prima della partenza ed avevo risposto con un sorriso al suo divino sorriso. Avevo anche telegrafato per il mio baule che aveva istantaneamente riacquistato tutta la sua importanza. Nella tristezza dell'ora avevo un solo conforto, quello di amare una donna la quale non poteva darmi che la fugace e straordinaria bellezza del suo viso. Io portavo con me quella visione, cioè tutto ciò che la donna amata poteva darmi e che io potevo sperare da lei. E portavo anche con me un antidoto potente contro il mal d'amore che aspetta al varco il passante e non sempre gli permette di guarire.

Spero d'aver tanto fortuna nella vita da non incontrar mai una donna che rassomigli alla creola di Trinidad!

Il mal del pinto, per chi non lo sapesse, è una infermità tropicale – abbastanza comune in certe zone del Messico e dell'America centrale – di origine incerta e di natura ancora misteriosa la quale corrode la pelle e finisce per chiazzarla con grandi macchie cadaveriche ed oleose di carattere putrido. Incomincia in genere intorno alla vita e sale, sale verso il viso che è l'ultimo ad essere attaccato. Un giorno arriverà anche ai miei due diamanti neri e li spegnerà per sempre.

Nel mio taccuino di giramondo c'è scritto: – Trinidad, isola magica! È pericoloso scendere a terra!

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