IL CASTELLO DELLE SCIMMIE

Due chilometri fuori d'Avana, dopo il sobborgo Cerro, alla fine di un lungo viale di palme, la strada fa un gomito brusco e proprio nella piegatura v'è un'alta cancellata di ferro che ostenta un enorme chiavistello. La porta è chiusa. Per farsi aprire bisogna attaccarsi ad una maniglia arrugginita che si smuove con difficoltà; si sente allora trillare una campanella lontana. È un suono d'altri tempi e d'altri luoghi che fa pensare ad un convento di clausura. Il trillo erra pigramente nel giardino. Si direbbe che svolazzi e che accompagni le farfalle nei loro vagabondaggi di cespuglio in cespuglio. Poi un vecchio sbuca da un viale con una corserella che dà pena a chi guarda e quando è arrivato mi domanda con aria quasi brusca:

Ustéd desea?

— Vengo a visitare il castello. Dite alla signora che sono la persona di cui le ha parlato il marchese Soler.

L'uomo attenua il suo cipiglio ma mi lascia fuori mentre dalla vicina portineria telefona al castello. Di laggiù debbono averlo autorizzato a lasciarmi passare, perchè diventa subito sorridente e servizievole – lo si direbbe un cane – e con un gran mazzo di chiavi apre faticosamente le numerose serrature che sbarrano l'ingresso.

— Passi! Passi! Caballero!

L'uomo va innanzi, un po' curvo, agitando quel grosso mazzo di chiavi che fa inclinare da un lato il suo corpo miserabile. Via via che avanziamo il gran giardino tropicale spiega il suo scenario di palme, di cedri e di bambù. È un vecchio parco signorile, un po' abbandonato, un po' troppo arso dal sole, ma ancora bello, anzi più bello così perchè il suo aspetto stanco ed impolverato s'armonizza con l'ardore della canicola tropicale, col polverone delle strade, con l'arsiccio della campagna circostante, col personaggio umano, infine, che abita il luogo.

Il vecchio disdegna i piccoli viali ombrosi e segue il vialone d'onore che è rutilante di sole; forse crede così di rendermi omaggio; forse vuole farmi ammirare una grande statua di centauro che sgroppona in mezzo ad una mareggiata di bambù od un gruppo di trampolieri rosa che fanno gli equilibristi sopra una sola zampa dinanzi alla specchiera di una vasca.

Giunti ad una specie di spianata uno squittìo di scimmie e di pappagalli saluta il visitatore ed il castello presenta la sua massa bizzarra. È un castello moderno che non ha avuto ancora tempo d'invecchiare. Da una parte ha proprio l'aria di un maniero, non di quelli che ergono le torri paurose sui fianchi di un monte, ma di quelli più mansueti e romantici che gli scenografi dipingono per il terzo atto di un'opera drammatica. Ci sono le torri ed i merli. C'è il poggiuolo classico col balconcello per la serenata d'amore. Salve dimora casta e pura! Dov'è Margherita? Dalla parte opposta invece i merli e le torri muoiono in una grande terrazza invasa dai rampicanti e l'edilizia medievale si trasforma nell'architettura tipica della casa coloniale spagnuola, come ce n'erano tante a Cuba, come ce ne sono ancora tante a Fernando Pó.

Il capriccio della castellana ha voluto creare lì un grande giardino a gradinate, mezzo italico e mezzo francese, con vasche e statuette, con cornici di muratura e lontane reminiscenze del Lussemburgo, ma la vegetazione del Tropico è troppo abbondante e troppo grassa per questo tipo di giardino e le linee classiche si stemperano in un molle e vago disordine di foglie che evoca la svenevole e dolciastra bellezza delle meticcie.

Il vecchio mi lascia in un vasto salone.

— La signora verrà fra qualche minuto!

Il salone occupa tutto il pian terreno del castello. Non è un salone solo: sono cinque grandi sale, delle quali una serve da stanza da pranzo ed un'altra da biblioteca, ma secondo l'usanza tropicale gli ambienti non sono separati da muri. Solo qualche pianta e qualche spunto di tenda accennano le divisioni, in modo che nessun ostacolo si oppone alla brezza da qualunque parte essa soffi. Di qua e di là venti e più porte s'aprono sul giardino. Foglie e fiori sono i tendaggi del luogo. Le libellule scambiano per veri i fiori finti delle tappezzerie e prillano lungamente tra i quadri ed i lampadari prima di decidersi a tornare in mezzo al verde.

Osservo i muri, i soffitti ed i mobili. I muri sono coperti da affreschi pagani nei quali nudi rosati bamboleggiano in mezzo a trionfi di palme e di azalee, ma quei nudi femminili sono troppo teneri e troppo biondi per quelle foglie tropicali e per quei fiori della zona torrida fatti per incorniciare bellezze ambrate e moresche, più carnali e meno serafiche. I soffitti sono copie in stucco, in legno dorato del cielo raso spagnuolo, a cassoni poco fondi. Debbono essere costati un patrimonio e attestano il pio sentimento di chi ha voluto trapiantare nell'arcipelago dei Caraibi un po' della vecchia e lontana Castiglia, donde vennero i padri.

Colpiscono soprattutto i mobili per la mescolanza di vetuste e massiccie suppelletili intagliate in legni di caoba e di ebano con frivoli mobilucci moderni di fattura parigina; gli uni e gli altri piuttosto vecchi, trascurati, scoloriti, con i damaschi stinti, le dorature sbocconcellate o addirittura zoppi e monchi di un pezzo.

Nel centro del salone s'erge una specie di chiosco cubiforme, tappezzato con portiere d'India. Non si sa che cosa sia; vien fatto di pensare al palcoscenico di un teatrino, però a ficcare il naso dentro l'unica porticina si scopre un amore di salottino turco. Preziosi tappeti ed artistiche lampade di rame battuto fanno corona ad un'ampia ottomana, piena di cuscini di cuoio e di velluto che evocano l'Oriente dei deserti e l'Oriente dei maragià. La luce che filtra dall'alto attraverso i piccoli vetri rossi e violetti, mantiene il locale in una penombra di moschea. Uno non si meraviglierebbe di vedere sbucare improvvisamente una odalisca ed accenderebbe con naturalezza un po' di incenso nei bruciaprofumi che ornano gli angoli e che pare anelino da tanti anni il profumo delle resine che nel lontano Levante accompagnano e talvolta sostituiscono l'amore.

La proprietaria del castello è una ricchissima signora cubana, multimilionaria di dollari, che fu assai bella ed amò la vita. Parigi e Nizza l'ebbero per venti anni fra le loro elegantissime. Montecarlo la vide fra le sue giocatrici più disinvolte e Capri l'ospitò lungamente in una sua villa a mare che echeggiava la notte di suoni e di canti e turbava i pescatori delle paranze. Cento storie si raccontano sulla sua bellezza ed è difficile in mezzo alle cento sapere quali siano le vere. Difficile ed inutile. Un pittore ha fissato in un affresco le grazie giovanili della donna che allora aveva il viso suggestivo delle creole e gli occhioni vellutati del Tropico. Ormai è rimasto solo l'affresco che adorna il chiosco turco, dov'è la grande ottomana coi vecchi cuscini.

La signora del luogo s'occupò di politica e fu rivoluzionaria, quando essere rivoluzionari significava a Cuba rischiare la forca. Maceo, Gómez e Martí l'ebbero amica. Teodoro Roosewelt ed il generale Wood trovarono nella sua intelligenza una consigliera accorta e geniale durante e dopo la guerra ispano-americana. Fra i tanti suoi braccialetti ha avuto anche le manette ed ha assaporato l'angoscia degli interrogatori sui quali grava l'ombra del Tribunale Eccezionale di guerra. L'atrio del castello è occupato da un grande affresco nel quale centinaia di cavalli al galoppo accompagnano una bandiera che oggi sventola sul palazzo del Presidente della Repubblica di Cuba e che venticinque anni fa era inseguita nelle forre e nelle macchie dell'isola come insegna di ladroni e di briganti.

Grande viaggiatrice ha percorso il mondo intero, compresa la Patagonia e la Groenlandia, il Tibet e le isole Marchesi e d'ogni paese conserva in una vetrina un oggetto: uno solo: ma è un gioiello.

Difficilmente parla del suo passato, ma se il suo interlocutore imbrocca la mattinata di buon umore, può ascoltare la cronaca vissuta dalla Pietroburgo mondana degli Zar, l'ospitalità principesca del maragià di Odeypure od il sogno di una notte d'autunno a Bagdad, in mezzo agli aiutanti di campo ed alle uri di Soliman Ibrahim pascià.

Il suo libro prediletto è la Vita di Cristo di Papini... Una scaletta scricchiola. La castellana viene a ricevere il suo ospite di un'ora.

Donna Marta è oggi una donnetta mezzo grigia, mezzo bianca alla quale potete dare cinquantacinque come settant'anni: scarna, malvestita, mal calzata, mal pettinata. Della bellezza dell'affresco e di tutto ciò che esso sottintende di eleganza e di vanità non è rimasto nulla. Di tutte le relazioni mondane e le amicizie illustri con cui questa donna bella, intelligente e ricchissima ha infiorato la sua vita non è rimasto nulla. Una cartolina ogni tanto, ma sempre più raramente. Donna Marta divide ora il suo tempo fra cento venti scimmie, quattordici cani, sette pappagalli ed un orso! C'erano delle tigri e degli elefanti ma sono morti. Molti criticano la sua corte odierna di scimpanzè e di macacchi. Pochi debbono comprendere il dramma psicologico di questa donna che ha bevuto a tutte le coppe della vita ed ha conosciuto il mondo in tutti i suoi cieli e che, giunta ad un punto della sua esistenza, nella quale tante altre donne della sua condizione si tingono i capelli e magari si pagano un bell'Alfonso o si trasformano in legnose patronesse di una Opera Pia per continuare a primeggiare tra i poveri e gli amministratori, ha voluto invece ritirarsi, ancor bella, dal mondo, prima che la sua femminilità sentisse il peso della vecchiaia che non perdona.

Dotata di sufficiente esperienza per conoscere la venalità degli uomini, forse ammaestrata in corpore vili, s'è chiusa nella clausura laica di questa gran villa tropicale piena di ricordi, dalla quale non esce mai e nella quale non entrano visitatori salvo casi rarissimi. Pieno ancora il cuore di tesori affettivi li ha riversati sulle bestie e fra le bestie ha scelto quelle che all'uomo sono più vicine: le scimmie.

Fa un certo senso questa scelta. Rimpianto? Insulto?

Non esiste al mondo nessuna collezione privata di scimmie che possa gareggiare per numero e per rarità di esemplari con questa di Donna Marta, nella quale dal gorilla e dallo scimpanzè si arriva fino a scimmiette microscopiche che paion miniature di capi pellirosse ed a certe scimmiuccie notturne che hanno quasi della nottola. Cinque uomini s'incaricano delle scimmie sotto la direzione di un giovane granatiere che ho poi saputo essere italiano. Dove non si trova un italiano? Illustri professori tedeschi ed americani sono venuti appositamente a Cuba per studiare il castello delle scimmie ed i suoi abitanti. Da venti anni Donna Marta vive coi suoi macacchi ed in questo periodo ha raccolto sulla vita della specie un materiale di osservazioni dirette che per gli studiosi della materia rappresenta senza dubbio un tesoro.

I cani dei dintorni che sanno la larga ospitalità del castello fanno di tutto per penetrarvi. Sono già quattordici quelli entrati di straforo a far parte della famiglia. I gatti girovaghi hanno ogni giorno un pasto di trippe e di ossa in un angolo della tenuta. Ogni mattina sulle terrazze delle due torri sono fatte grandi distribuzioni di pane e di miglio per gli uccelli. Un accurato ufficio di anagrafe precisa la data di nascita d'ogni bestia, le linee della sua discendenza, le malattie a cui è stata soggetta, le caratteristiche del suo temperamento.

Trecento bambini mantenuti ed educati dalla milionaria in un apposito collegio tolgono a quest'amore per gli animali l'unico lato antipatico che potrebbe avere.

Donna Marta ama i suoi macacchi, e gli scimmiotti la ripagano con eguale affezione. Quando la castellana esce sulla spianata del castello, una gazzarra indiavolata si scatena in tutte le gabbie. Ognuna delle scimmie reclama la padrona con urla terribili che sconcertano e quasi impauriscono il visitatore occasionale. Gli chimpanzè scuotono freneticamente i cancelli delle gabbie mentre le scimmie minori si contentano di urlare a perdifiato. I cani ed i pappagalli fanno coro. Solo i gatti assistono sdegnosamente al putiferio, chiusi nel loro sussiego professionale.

Appena la castellana si avvicina ad una gabbia ognuna delle scimmie fa quel che può e quel che sa per dimostrare la sua contentezza, senza desiderare altro compenso che una stretta di mano. Una batte il passo di carica su un secchio, l'altra infila una volata di capriole; una balla il charleston, l'altra si attacca ai manubri e si slancia nelle più ardite acrobazie. Conchita lava un suo straccetto; Manuelita offre il suo piccolo dal visetto straordinariamente umano; Musmè si schiaffeggia; Tony saluta militarmente. Il tutto è grottesco, se volete, ma anche un po' impressionante.

In onore dell'ospite i capocomici della compagnia sono invitati a dar prova all'aria aperta della loro bravura. Vedo così Bubù fumare gravemente la sua pipa: Raul inforcare gli occhiali che gli danno una straordinaria rassomiglianza con l'ex Presidente Taft; Samuel gironzolare in bicicletta pel giardino con la maestria di un campionissimo. Colei che fu la bella e corteggiatissima Donna Marta stringe la mano ai suoi amici pelosi, si fa abbracciare dagli orang-utang più entusiasti, si fa baciare sulle guancie dagli enormi chimpanzè che paiono boschimani della foresta vergine.

V'è del tragico e del comico, del grazioso e del ributtante in questa scena, non priva di una certa tristezza e di una buona dose di filosofia.

Donna Marta m'accompagna a visitare la cappella, un piccolo gioiello gotico sperduto in mezzo alle palme. Grandi vetrate raccolgono il sole sfolgorante del Tropico e lo spezzettano in mille lampi nelle tuniche azzurre delle Vergini e nelle carni piagate dei Cristi. Ci accompagnano Samuel, il ciclista, e Bubù, il fumatore.

In fondo alla minuscola cappella una Madonnina bianca sorride celestialmente. La vecchia dama si copre con un velo nero che la fa ancora più insignificante e si genuflette. È ora una povera cosa reclinata, quasi senza vita. Samuel che ha lasciato fuori del tempio la bicicletta s'inginocchia e congiunge le mani come la sua padrona. Bubù, più scimmia, s'accovaccia dopo essersi tolta di bocca la pipa.

Io non so se debbo ridere o star serio. Nel tempietto che le vetrate empiono di mistiche profondità luminose, il gruppo della donna reclinata e delle due scimmie pensose è di una teatralità tragico-burlesca che mi fa correre un brivido pel filo della schiena.

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