IL SOGNO DI UN GIARDINO TROPICALE

In Camagüey, città dell'isola di Cuba, alle dieci del mattino, per uno di quei capricci di scrittore che poi l'uomo si rimprovera, avevo voluto assistere all'esecuzione di un bandito; un disgraziato che ne aveva fatte di cotte e di crude su per la montagna e che, trovato da due guardie in un cespuglio con una gamba rotta, era stato pietosamente curato all'ospedale, rimesso in condizione di camminare, rinvigorito con latte e tuorli d'uovo, poi processato secondo le norme della procedura giudiziaria, condannato alla pena di morte secondo le prescrizioni del Codice, infine strozzato legalmente col garrote spagnuolo nella cella mortuaria delle carceri provinciali.

Tutto s'era svolto regolarmente ed io avevo ricevuto tra cuore e coscienza quel tal scossone violento che avevo cercato. Avevo visto gli occhi di quell'infelice dilatati dall'orrore della morte cercare selvaggiamente e puerilmente una impossibile via di scampo; avevo veduto la stretta dello strumento giustiziatore tra gola e collottola; il gran convulso dei corpi che muoiono prima della loro ora; per ultimo l'estrema immobilità nella quale tutti i cadaveri diventano uguali.

Finito lo spettacolo ero uscito nel cortile della carcere e mai il sole m'era parso tanto tiepido e tanto bello.

A mezzo giorno m'ero seduto ad un tavolino dell'albergo di Camagüey per la colazione. Mi sentivo soprattutto fiacco. Pare che veder morire un altro stanchi! Chissà perchè?

L'albergo non aveva che cucina creola. La colazione incominciò quindi con una specie di gelato di frutta al quale fece seguito un pesce, cucinato curiosamente in un brodetto di peperoni. Chiuse il pasto uno di quei dolci estremamente mielati delle Antille che sciolgono in bocca una essenza di mille fiori. Tre piatti che non si pagano e che sono come da noi il pane avevano tenuto compagnia al pesce: banane fritte col sale; patate fritte con lo zucchero; un cedro del paese condito in insalata. Mangiai tutto e ci bevvi su un vinello spagnuolo che bruciava lo stomaco ma che a forza di aggiungervi ghiaccio si trasformava in una miscela polare ed equatoriale deliziosissima.

M'offersero un sigaro, un avana autentico che facevo fatica a tenerlo fra le labbra tanto era lungo e grosso. Per centellinarlo con comodo scesi nel giardino e scelsi tra una spalliera di azalee rosse ed una palma-cocco una sedia cubana a sdraio e a dondolo.

Faceva quel caldo dei Caraibi, senza un briciolo di vento, che dà all'organismo umano la sensazione esatta della candela di cera in liquefazione. Nel grande ardore del sole il giardino tropicale era meraviglioso! Faceva «sentire» il Tropico. L'essere era penetrato dal caldo della terra, dal grasso delle piante, dalla fragranza dei fiori, dalle resine dei tronchi, dal formidabile fermento delle cose. Le essenze diffuse nell'aria davano all'atmosfera una pesantezza quasi gommosa. Avevo tutto il torpore del meriggio nella mia carne, nelle mie vene e nella mia anima, quasi che io fossi terra, pianta, resina e fermento.

Gli occhi si chiudevano lentissimamente sotto il peso di una sonnolenza che progrediva a strati e che via via confondeva il mio spirito con la grande anima del giardino. In mezzo alle canne di zucchero un nero cantava... In qualche luogo lontano suonavano una chitarra... Innumerevoli farfalle vagavano tra i fiori. Vicinissimo a me, sopra una corolla scarlatta e spampanata che stillava miele, un farfallone giallo apriva e chiudeva con voluttuosa lentezza le sue ali di zafferano.

M'addormentai? Non saprei dirlo!

Ad un tratto la sinfonia verde-oro del giardino diventò ancora più verde e più dorata, d'un verde che evocava il brivido degli smeraldi, d'un oro che aveva il caldo bagliore del sole. Ed in mezzo a tanta bellezza vidi venire verso di me cinque uomini vestiti da giudici, due di qua e due di là, con in mezzo il Presidente il quale aveva la faccia del bandito che avevano giustiziato al mattino. Vennero poi carabinieri italiani, gendarmi francesi, guardie nazionali spagnuole, poliziotti cubani e policemen inglesi, insomma tutto un imponente spiegamento di forza pubblica ed assistetti ad un processo in piena regola, nel quale l'imputato ero io, accusato di avere ucciso il bandito del mattino, mentre il bandito del mattino era lo stesso Presidente che mi giudicava.

Infine fui condannato a morte per strozzamento col garrote. La sentenza doveva essere eseguita a Camagüey, nel giardino dell'albergo, il sabato alle dieci.

Il processo non mi meravigliò e la condanna non mi scompose, tanto che ordinai al cameriere di offrire un bicchierino ai giudici ed ai gendarmi i quali furono così gentili di accettare.

Poi incominciò il dramma e fu terribile.

Il giardino dava su una strada e su quella strada incominciarono a passare a piedi ed in bicicletta, in tram ed in automobile, tutti i miei amici più cari, i quali col più simpatico dei sorrisi e con le più cordiali strette di mano venivano ad assicurarmi che non avrebbero mancato di essere alle dieci di sabato alla cerimonia.

— A sabato allora!

— Sabato, siamo intesi. Non mancherò!

— Alle dieci. Verrà anche mia moglie!

— Allora è per sabato?

— Sarò lì! Saremo lì! Puoi contarci! A qualunque costo! Alle dieci precise! Dì, si viene in marsino od in giacchetta?

E chi mi stringeva la mano e chi mi dava affettuosi colpetti sulla spalla e chi mi stringeva confidenzialmente il ganascino; tutti allegri, contenti come pasque, cordiali, affettuosissimi. Ce n'erano di quelli che non si fermavano, ma si sporgevano fuori dei trams e delle automobili col giornale in mano che annunziava a lettere cubitali la mia prossima esecuzione, e salutandomi gaiamente col cappello mi urlavano:

— A sabato! Alle dieci! Complimenti!

Riconoscevo amici di ieri e di ieri l'altro, compagni di scuola, compagni di guerra, compagni di baldoria e di lavoro. Di tutti coloro ai quali volevo bene od avevo voluto bene non mancava nessuno. C'erano tutti. Meno uno! Il più caro, quello col quale avevo condiviso il pane della povertà ed il pianto dell'amarezza. Ma venne dopo un po' anche lui. M'abbracciò forte forte con tenerezza di fratello.

— Sono con te – mi disse – come sempre! Lascia fare a me. Penserò a tutto. Ai fiori, all'olio per il meccanismo, alla mancia per il boia, al seppellimento. – E seguitava ad abbracciarmi.

Poi sbucarono da un viale le mie sorelle, vestite di primavera, esuberanti di giovanile gaiezza, tutte felicità e sorriso. Mi si misero intorno per farmi festa, a raccontarmi cose graziose, a vezzeggiarmi con mille moine.

— Veniamo dalla sarta, – mi diceva una che è bionda come la spiga del grano. – Vedrai sabato come saremo chic! Io in celeste e lei in rosa. Con un gran fiocco da bambola sopra un fianco. Ti faremo fare bella figura. Tutti ci guarderanno e ci diranno: ecco lì le sorelle del giustiziato! Chissà che non sia proprio quello il giorno del nostro prince charmant!

— E poi siamo state – mi diceva l'altra che è bruna come un frutto di mora – dal pasticciere. Le amiche vogliono assolutamente essere con noi quel giorno dopo l'esecuzione. Si farà un po' di musica. Magari quattro salti. Abbiamo ordinato un gran gelato di panna montata con cialdoni... e paste... e cioccolattini... qualche bottiglia di champagne...

Ognuna delle loro parole mi faceva male, male in profondità, ma esse continuavano a sorridere ed a bambineggiare, a ricordarmi ogni cinque minuti quelle fatali dieci del sabato.

La Teresa – vecchia domestica di casa che m'ha visto nascere – scomodò due guardie per venire ad assicurarmi che m'avrebbe preparato per sabato una delle migliori camicie, col colletto stirato. Poi fu la volta di mio padre che col suo consueto impeccabile abito scuro, si fece largo fra gli astanti e mi sedette vicino.

— Ho letto che è per sabato. Verranno tutti i colleghi del Consiglio di Amministrazione. Sarà una cosa a modino. La decapitazione sarebbe stata più coreografica, però hanno deciso lo strozzamento ed ormai non si può cambiare. Preparerò domani il piccolo avvisetto di partecipazione e lo darò ai giornali perchè sia pubblicato il giorno stesso dell'esecuzione.

Con un fru-fru di seta ed un vaporoso irradiar di profumo – del suo profumo – arrivò la donna del mio amore.

— Hai saputo l'ora? – mi disse in un bacio.

— Le dieci.

— È un po' prestino le dieci, ma andrò dal parrucchiere il venerdì sera. Amore mio! Amore mio! Pensare che non siamo che a mercoledì! Ti ricordi quel bel pizzo nero che comprammo nel Belgio? Come non ti ricordi? Quell'occasione che trovammo a Bruges in piazza del Municipio? Da quella vecchietta con la cuffia bianca? Sì, sì, proprio quello! È arrivato finalmente il momento di adoperarlo. Lo darò alla modista perchè mi faccia qualche cosa di carino che sia soprattutto intonato alla circostanza. Ci saranno certamente i fotografi! E quanti curiosi! Voglio farmi tutta bella per te...

Mi baciò in bocca. Avrei voluto morderla, avvelenarla, ucciderla e la vidi andare via, agile e leggiera, seguita dagli occhi e dai desideri degli uomini che il sabato dopo, suonate le dieci, non avrebbero più avuto l'imbarazzo della mia presenza.

Sentii un dolore atroce che mi attanagliava l'anima e mi scavava il cuore. Avevo in bocca l'asprezza del tossico e del fiele. Ed intorno a me non v'erano che sorrisi.

In quel momento vidi comparire mia madre, col suo viso buono e bello, e nascosi nelle sue braccia il mio povero capo per sciogliere nella sua tenerezza la mia immensa ambascia.

— Figliuolo, figliuol mio – mi diceva la mamma con la sua voce dolce e carezzevole – ti ho portato la sciarpa. Mettitela al collo. Che non abbi a prendere il tuo solito mal di gola prima di sabato!...

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Aprii gli occhi.

Non c'era più nessuno.

— Sono andati via? – dissi fra me e me.

Per un minuto soffrii da sveglio tutta l'angoscia patita da chissà quanto tempo durante il sogno.

Un piccolo rumore mi fece trasalire. Era il farfallone giallo che, spaventato dal mio risveglio, abbandonava bruscamente il fiore scarlatto. La corolla spampanata si disfece in una pioggia di petali. Un po' di profumo vagò nell'aria. E tutto finì.

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