IL «QUATTRO ALBERI» DEL COMMODORO

Stavo bighellonando sulle banchine di Kingston tra le barche da pesca ed i velieri, curioso di osservare da vicino questo mondo di pescatori d'Africa che il destino ha trapiantato in una terra d'America, più curioso ancora di ficcare il naso nei velieri di cabotaggio delle Antille sui quali, per l'aspetto delle cose e per i tipi degli uomini, ha l'aria di sopravvivere ancora la vecchia marina piratesca del secolo XVIII, quando l'alberatura di un «quattro alberi» colpì la mia attenzione, così come certe volte si è colpiti in mezzo ad una calca dalla fisionomia di una persona conosciuta.

— Mi par di conoscere quella velatura! – dico fra me e me.

Accelero il passo in mezzo alle botti ed alle reti, ai venditori di fritture ed ai monelli mulatti. Di mano in mano che m'avvicino mi confermo nell'opinione di conoscere quei quattro alberi smilzi, tagliati a triplice croce dai larghi pennoni irti di cordame, ma non riesco a ricordarmi nè dove nè in quale circostanza abbia veduto quelle sartie. Poi, d'un tratto, un nome attraversa il mio cervello: Four Winds (quattro venti)! Possibile? Il commodoro qui? Io, che lo credevo in Australia od a zonzo in mezzo alle sue predilette isole dell'Oceania! Due minuti dopo ogni dubbio svaniva. Era proprio il Four Winds. Non solamente riconoscevo perfettamente la nave ma vedevo a mezzo d'una scotta Joè, la scimmietta messicana di sir Guy Gant, considerata dall'ammiraglio una perfetta mascotte, temuta dall'equipaggio come una tiranna contro la quale non c'è nulla da fare, ricordata perfettamente da me per avermi rovesciato un barattolo di pece liquida sopra un paio di fiammanti pantaloni di flanella bianca, un mattino abbastanza lontano in quel delle isole Vancouver.

Oh! Joè! Joè!

La scimmia mi risponde con una smorfia ed una grattata, mentre un braccio pesante mi sconnette mezza clavicola e sento esplodermi in un orecchio una specie di bomba la quale non è altro che un tonante allow del secondo di bordo che m'ha riconosciuto.

Ci stringiamo la mano e s'attacca a discorrere all'uso marino del più e del meno, come gente che si sia lasciata la sera prima al caffè, senza che nè all'uno nè all'altro venga in mente di domandarsi come mai ci si incontri nel golfo del Messico quando ci si è lasciati tre anni prima nel Pacifico. Nel salire a tribordo rivedo lo stesso nostromo d'allora – un cinese di Shangai che s'è giubilato nostromo a bordo del Four Winds dopo trent'anni di crociere e di contrabbandi fra Canton e le Filippine – e l'indimenticabile Ping-Ciao, barman di cartello e specialista patentato nella fabbricazione dei più bislacchi ed indiavolati cocktails che siano mai saltati in mente agli iddii della vecchia Scozia, patria come si sa dei più immaginosi ubbriaconi dei cinque continenti.

— Il commodoro è a bordo?

— No, è a colazione dal Governatore. Restate a tavola con noi. Tornerà verso le quattro ed avrà piacere di vedervi.

Sir Guy Gant, proprietario e comandante del quattro alberi Four Winds, è uno di quei tipici gentlemen inglesi di famiglia patrizia che s'arruolano a diciassette anni nella marina dell'impero attratti dal fascino del mare che incanta la loro anima isolana, sedotti dallo spirito avventuroso dell'oltremare che è una delle più interessanti caratteristiche dell'aristocrazia e della grande borghesia britannica, spinti anche un po' dalla tradizione ereditaria della famiglia di dare sempre uno dei suoi ragazzi al mare, sul quale la dominatrice degli oceani poggia la sua potenza politica ed economica. Come tanti altri boys della sua razza il futuro ammiraglio entrò nella marina mercantile e, dopo un tirocinio di timone e di ramazza, passò nella marina da guerra percorrendo la rigida trafila dei quadri. Insegna nella campagna di Cina, ufficiale osservatore durante la guerra russo-giapponese, comandante durante la guerra europea d'un convoglio di trasporti transatlantici sulla nave Leviathan, fu promosso nel 1918 commodoro di prima classe che corrisponde pressapoco a vice ammiraglio.

Raggiunto dal limite di età, nominato sir e cavaliere dell'Impero, avrebbe potuto ritirarsi nelle sue immense tenute d'Australia o nella sua aristocratica casa di Londra o in un delizioso cottage che possiede sul canale d'Irlanda, ma figlio del mare ha voluto continuare a vivere pericolosamente e zingarescamente tra i fortunali e le tempeste. La sua cospicua fortuna gli ha permesso di comperare e di armare un grosso quattro alberi, sul quale vive ormai da otto anni e sul quale vivrà forse fino all'ultimo suo giorno; ora qui, ora lì; sempre in viaggio da un porto all'altro e da una isola all'altra; nell'Atlantico e nel Pacifico, nell'Oceano Indiano e nei mari polari.

Imbarcato la prima volta a diciassette anni sopra un tre alberi, ha voluto chiudere la sua vita sopra un bastimento della stessa categoria per vivere in pieno, senza caldaie e senza carbone, quella grande vita della navigazione a vela nella quale il marinaio di razza assapora la riposante pace delle bonaccie e la rude battaglia delle tempeste e veramente ascolta tutte le voci del mare e ne sente le carezze più dolci e ne affronta le collere più violente.

Due motorini a petrolio facilitano al Four Winds l'entrata e l'uscita dai porti e permettono alla nave di tagliar corto alle calme troppo lunghe e troppo estenuanti, ma si tratta solo di macchinario accessorio. La vera anima della nave è la sua enorme alberatura di corriere del vento. I transatlantici che incontrano al largo questo magnifico uccellaccio marino quando, un po' incurvato dal maestrale, fende le onde con tutte le vele alle scotte, debbono sentire in fondo alle loro caldaie un non so che di biliosa invidiuzza, di fronte alla indomita gioia del poeta che sprezza il denaro e vive felice coi suoi sogni nella scia dell'ideale.

— Dov'eri, Ciao, il mese scorso?

— Alla Guadalupa.

— E l'anno scorso?

— Al Zanzibar.

— E due anni fa?

— Nelle Caroline, nelle Marchesi, nelle Marchall...

— E fai sempre cocktails?

— Sempre!

— Qual'è l'ultima novità, Ciao?

— Il saimattham: sugo di ananas, acqua di cocco, rhum di Giamaica, vermuth italiano, latte, sale, zucchero, limone, una goccia di angostura, un tantino di whisky: agitare fortemente e servire ghiacciatissimo con una ciliegia sotto spirito ed una oliva verde.

— Preparami un saimattham, Ciao, mentre aspetto il commodoro.

La sera ci sorprende sul ponte del Four Winds. Nel cielo ardono i diamanti delle Antille. I lumi di Kingston tremano nell'acqua. Sir Guy Gant, stilizzato nel suo impeccabile smoking di gentleman inglese, mi parla del comune amico sir Cecil Armitage, governatore della Gambia, messo recentemente a riposo per avere raggiunto il limite di età e della tristissima vita che questo vecchio coloniale mena a Londra, separato da quel mondo nel quale ha trascorso l'intera esistenza ed al quale ha dato insieme con la gioventù tutti i suoi affetti.

— Sono contento, – mi dice l'ammiraglio, – d'aver scelto la flotta. Ciò mi permette di seguire la mia vita matrimoniale col mare, anzi di poter entrare in certe dimestichezze con le onde e coi venti che non mi sarebbero state permesse coi vascelli di S. M.

— Sempre cinese l'equipaggio?

— Sempre. Gli inglesi sono per me i primi marinai del mondo, ma costano cari e bevono troppo. Coi cinesi ho risolto il problema: marinai eccellenti, di poco costo, frugali, astemi ed obbedienti come macchine. Ho due ufficiali inglesi a bordo. Tutto il resto del personale di coperta, di timone e di camera è cinese.

— Vi tratterrete molto ancora a Kingston?

— Parto domani per Cuba. Conto vagabondeggiare durante l'intero inverno negli arcipelaghi delle Bahamas, delle Leward, delle Virginia e delle Bermude, toccando isola per isola tutti i luoghi e fermandomi negli angoli più gradevoli.

— Non avete ancora intenzione di ritirarvi in Inghilterra?

— A far che? Io amo profondamente l'Inghilterra, ma Londra mi soffoca, Manchester mi asfissia ed Edimburgo mi fa l'effetto di un carcere. Questa nave è del resto un pezzo d'Inghilterra. Tutti i mari sono un po'... l'Inghilterra!

V'è molto orgoglio in questa conclusione del commodoro, ma noi italiani dell'epoca fascista siamo perfettamente in condizione di comprendere questo sentimento che anche nella sua esagerazione è pieno di poesia.

— Non solo su questa nave mi sento in terra inglese, – aggiunge il commodoro, – ma mi sento nell'impero britannico. Le mie numerose collezioni ed ogni oggetto che mi cade sotto gli occhi mi ricordano costantemente terre e città sulle quali sventola la bandiera del Commonwealt . Questi vasi sono dell'India, questo tavolo è di Singapore, quella scrivania è del Newfouland, queste poltrone sono di Londra, il giornale è d'Australia, il caffè di Giamaica, il portasigarette di Hongkong... Non sono più in Britannia io, qui, sul mio veliero, che un cittadino di Londra nel suo home e nel suo club?

Per vedere alcuni trofei di caccie recenti – ricordi di un soggiorno in Nigeria – ed una serie di amuleti del Dahomey scolpiti rozzamente dagli indigeni nel rame, attraversiamo i vari ambienti che formano lo sfarzoso appartamento del commodoro. In esso il vecchio uomo di mare ha raccolto le sue collezioni di oggetti rari ed esotici (son proprio esotici per lui?) che egli ha via via costituito durante la sua carriera di ufficiale ed i suoi vagabondaggi di libero navigante. Vedo preziosissimi avori d'Estremo Oriente, minuziosamente scolpiti e traforati dai pazienti artisti della Corea e della Cina; dolcissime giade che paiono fatte d'acqua tinta e poi congelata; vecchi tappeti del Levante che hanno le tinte soavi dei fiori appena vizzi; broccati e cashmir d'India ai quali pare sia rimasto attaccato il profumo di sandalo delle donne che li usarono; mobilucci del Belucistan e del Nepal che sono un unico intarsio di legni rari con venature di madreperla e striature di argento; selle di maragiá e di emiri, parasoli di mandarini, mitre ed incensieri di pagode; cento oggetti diversi, ognuno dei quali ricorda un paese, rappresenta una civiltà, sintetizza un'arte, simboleggia una pagina di grandezza o di decadenza umana. Qua e là il proprietario-comandante tradisce la sua nazionalità con una racchetta di tennis od uno sticht da golf, abbandonati accanto ad un paravento della Birmania o a un idolo del Madagascar.

Collezioni ed oggetti di lusso sono però tutti raccolti esclusivamente nell'appartamento. Nulla tradisce l'yacht su coperta o sui ponti, dove ogni cosa è semplice, rozza, regolamentare, rigidamente marinara. Accanto alla ruota del timone o al mulinello dell'ancora il comandante può credersi assolutamente a bordo di un grande veliero in navigazione, di quelli che ancora traversano gli oceani tra il Mar del Nord ed il Rio de la Plata o fra il Cile e le isole Havai.

La fastosa opulenza dell'appartamento rispetta anche la camera da letto del commodoro nella quale egli ha fatto riprodurre esattamente, nei più minuti particolari, la sua ultima cabina di ammiraglio delle flotte di S. M. Attaccato ad un gancio c'è il berretto di commodoro. Sulla scrivania v'è l'ultimo ordine di servizio, quello che egli non potè firmare perchè dovette cedere posto e comando al suo successore.

Quando alla fine del giorno sir Guy Gant si ritira nella sua cabina, può ogni sera illudersi di essere ancora il commodoro della Quarta Squadra d'alto mare di S. M. Giorgio, imperatore e re. E così morrà un giorno, assistito dal suo primo e dal suo secondo col rude affetto degli uomini di mare, sopra una delle tante strade dell'oceano, con le vele della sua nave gonfiate da un maestrale tempestoso, in mezzo al canto sovrano delle onde, ai soffi formidabili del vento, agli immensi brividi dell'infinito. Gli uomini riuniti sul castelletto di babordo ne getteranno il cadavere negli abissi, secondo le disposizioni tassative del suo testamento. Lo vedranno sdrucciolare sullo scivolo, fare un tonfo nell'acqua, gorgogliare un po', sparire. Poi il gabbiere tornerà sulla coffa ed il fischio del nostromo ordinerà ai mozzi ed ai giovanotti di mollare i fiocchi di bompresso.

Ed il Four Winds farà allora vela per l'Inghilterra, con l'insegna ammiraglia a mezz'asta e andrà a mettersi a disposizione di qualche vecchio notaio.

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