IL VII CONGRESSO DELLA STAMPA LATINA

Guidata dal nuovo Petronio, Maurice De Waleffe – che ha approfittato dell'occasione per far varcare l'Oceano ai suoi pantaloni corti – la carovana dei sessanta giornalisti latini di Europa si è incontrata all'Avana con la carovana dei sessanta giornalisti latini di America e le due carovane hanno chiassosamente messo in piedi quella escursione Cook che è chiamata VII Congresso della Stampa Latina.

Nuovo a questo genere di Congressi vi ho preso parte con l'ingenua buona volontà dei neofiti che credono nei pastori perchè hanno fede nel Verbo. Dopo l'Italia non ho personalmente altro ideale che la Latinità, per cui credevo che un Congresso il quale ostenta la rappresentanza latina del mondo fosse una cosa seria. Ed oggi ancora, dopo aver constatato tutto il vuoto del Congresso, domando sinceramente a me stesso se questi Congressi della Stampa Latina non siano nonostante tutto una cosa seria, assai seria, terribilmente seria, precisamente per l'esistenza di questo enorme colossale vuoto dietro il paravento splendente della Latinità!

Esistono a Parigi un cassetto ed un uomo. Il cassetto contiene gli scartafacci di sette Congressi. L'uomo possiede la direzione di un servizio di turismo giornalistico. Il cassetto pieno di carte e l'uomo Cook formano la «Association de la Presse Latine». Il Journal che ha l'uomo al suo stipendio non fa pagare affitto al cassetto, per cui il Journal è benemerito della Latinità.

Quando la «Association de la Presse Latine» trova un governo mecenate disposto a pagare le spese di un Congresso, lo organizza e lo annunzia al mondo latino. Il mondo latino crede ad una concentrazione delle sue migliori forze giornalistiche, cioè ad una sagra della latinità ed immagina chissà quale fervore di preparazione, chissà quale blocco di buone volontà, chissà quale lavoro di propaganda e di realizzazione! Il Congresso si riunisce in mezzo ad uno sfarfallìo di bandiere. Banchetta lungamente. Chiacchiera ancora di più. Consuma tempo e denaro. Fa lavorare i telegrafi ed i cavi sottomarini. Poi si scioglie. L'uomo di Cook ritorna alla sua Parigi. Le scartoffie del Congresso passano in posizione ausiliaria nel famoso cassetto. I banchetti sono finiti. Il Congresso è morto. Un nuovo mecenate è ricercato negli avvisi economici della Latinità.

L'unico – assolutamente unico – risultato pratico di questi Congressi è rappresentato dagli articoli che i Congressisti scrivono (se non altro per gratitudine dello stomaco) a favore del paese che li ha fatti banchettare e che i direttori dei giornali pubblicano se credono di doverlo fare, o se non hanno altro di meglio da pubblicare.

Io non discuto l'iniziativa di De Waleffe che ha il merito di provocare una serie di articoli latini sui giornali latini intorno ora a questo ora a quel paese della latinità, ma mi domando perchè si debba battezzare «Association de la Presse Latine» ciò che altro non è se non un «Bureau touristique du journalisme franco-latin»? Perchè far credere alla Latinità che esiste una solenne organizzazione della stampa latina del mondo, quando in realtà non v'è neppur l'ombra di tale organizzazione che sarebbe pur tanto utile ed è forse necessaria?

Carovana turistica di giornalisti europei in viaggio alla... scoperta di Cuba, il VII Congresso della Stampa Latina è giunto in Avana sul piroscafo Espagne battente bandiera francese e ne è ripartito dieci giorni dopo col medesimo vapore. Il Congresso è stato un vero tour de force di pranzi, colazioni, cerimonie, tè danzanti, gite, escursioni scarrozzate, discorsi (molti discorsi), banchetti (molti banchetti), chiacchiere (molte chiacchiere). Quanto ai lavori del Congresso essi furono solamente nominali. Incorniciate fra una agape succulenta ed un ballo brillante le disgraziate Commissioni incominciavano tardissimo e finivano rapidamente per esaurimento di quorum, quando non erano interrotte d'ufficio per visitare una fabbrica di sigari o per deporre una corona ai piedi di questo o quel monumento. Di risultati pratici non è neppure il caso di parlare!

È inutile d'altra parte chiedere a questi cosidetti Congressi della stampa latina più di quello che possono dare. Se invece del pomposo nome di VII Congresso lo chiamassero VII Gita della stampa latina, tutto sarebbe in regola. Anche la morale! Non è difficile racimolare cento giornalisti che abbiano voglia di fare un bel viaggio, soprattutto quando si trova un tizio che paga le spese e quando il programma è una vera collezione di festeggiamenti. Nel caso di questo VII Congresso c'era in più l'attrattiva di una traversata oceanica in piena regola che, coi prezzi odierni delle Compagnie di Navigazione, non è un regalo da poco. E v'era il piccante esotico delle Antille che era come lo zafferano sopra un buon risotto.

La carovana s'è imbarcata con grande entusiasmo a St. Nazare. Tutti amiconi a bordo, qualunque fosse la nazionalità, il colore politico del rispettivo giornale ed il funzionamento della propria vescichetta biliare. Prima tappa la Spagna. Entusiasmo. Lirismi. Nessuna corrida. Poi l'Espagne puntò verso il Centro America. Lungo viaggio, senza soste e senza diversivi, cullato da lunghe onde di mare morto. Nacquero i crocchi ed i gruppetti. La maldicenza fece capolino fra una sedia a sdraio ed una cabina socchiusa. Germogliarono i pettegolezzi... Sessanta giornalisti a spasso cercavano il fatto di cronaca e lo trovavano. Lo trovavano e lo ricamavano. Il mal di mare solleticava gli stomaci ed i nervi. La lentezza del vapore che sfiatava da una elica aggravava il tedio dei gitanti. I poeti facevano crocchio da soli, i romanzieri, i critici e gli innamorati altrettanto. Il fratello Tharaud frugava nelle cabine e nelle caldaie in cerca d'un nuovo ebreo da descrivere, ma nessun figlio di Gerusalemme aveva scelto l'Espagne, nome che non alletta la razza. Jean Louis Voudoyer preparava in ispirito Les Délices de Cuba, mentre Paul Reboux, socialista-gastronomo, vedeva arrivare con tristezza l'ora dei déjeuners e dei diners. I calzoni corti di Maurice De Waleffe erano lo spasso dei mozzi e dei nostromi. Chauvelot, genero di Léon Daudet, cercava camelots du Roi fra i fuochisti ed i giovanotti di carbonaia.

Quando già i francesi incominciavano da buoni francesi a rimpiangere «notre Paris» e le «mouches» della Senna, quando già il poeta cubista Asturias aveva esaurito gli argomenti di tutte le sue ballate, quando già le toilettes di Teresa La Parra e di madame Reboux principiavano ad urtare il sistema nervoso delle altre signore, Cuba offrì alla carovana assetata di terra ferma il miraggio di Tombuctù, sullo sfondo di un'alba tropicale irrorata di miele e screziata di zucchero cotto. Oh! Les Antilles! Le Antille! Las Antillas! Chi può indovinare i pensieri ed i sentimenti di un poeta come Gregh che tocca per la prima volta i paesi di sogno di Pierre Loti e di Claude Farrère? Chi può immaginare i castelli in aria, le frenetiche fantasie di un «inviato speciale» che dinanzi ad una terra sconosciuta punteggiata di palme-cocco sente ribollirsi in petto tutta la zolfatara della celebrità?

Il vapore, aspettato alle due del pomeriggio, arrivò invece all'alba, per cui la banda municipale che doveva ricevere trionfalmente gli araldi latini dormiva ancora e quel che è peggio dormivano ancora i turisti nord-americani che occupavano le camere destinate agli ambasciatori della latinità. Inde irae!

Latinità?! Vi sono due modi di comprendere la latinità: come etichetta e come ideale. Come etichetta essa era incollata sui bauli e le valigie dei congressisti. Come ideale doveva trovarsi nell'anima di ognuno dei gitanti. Se veramente vi fosse nessuno può dirlo! Posso però garantire che i bauli erano in regola col padre Romolo.

L'inaugurazione del Congresso ebbe luogo nel salone medesimo nel quale Coolidge aveva inaugurata la VI Conferenza Pan-americana di buona memoria. C'era anche questa volta il presidente della Repubblica di Cuba ma non v'era il presidente degli Stati Uniti. Il suo posto era occupato dal franco-belga-latino Maurice De Waleffe che sfoggiava per l'occasione pantaloni corti di seta nera e calze trasparenti made in Paris. Gli olimpici palchi che un mese prima avevano ascoltato il sermone nicaraguense di Calvin Coolidge ricevettero senza scomporsi le odi pindariche dei latini. Invece dei due discorsi della Pan-americana ne avemmo cinque, in omaggio alla fecondità latina ed invece delle ventun bandiere del pan -americanismo brillavano i ventun vessilli del pan-latinismo. Non si parlò di America, ma di latinità, cioè di Parigi. E di scoperta del Nuovo Mondo, cioè di Madrid. Ma un italiano gridò forte, fuori programma, in lingua italiana, il grande nome di Roma ed i latino-americani applaudirono ed applaudirono, più di quanto non avessero acclamato la Torre Eiffel ed il Manzanares. Quel giorno come i giorni successivi Roma, madre augusta di tutte le genti latine, dominò il Congresso con la sua maternità e la sua gloria, nonostante non avesse inviato grandi ambascerie. Ogni qualvolta una voce qualsiasi inneggiava alla Latinità, era sempre il grande volto di Roma che si vedeva. Di Roma Eterna, che ha dato ai Latini i Fori ed i Cristi, le Aquile ed i Fasci. Glorie di ieri. Realtà d'oggi. Speranze di domani.

Cuba, tutta fresca ancora del bagno pan-americano, si è tuffata con giovanile baldanza nella vasca pan-latina. S'è mostrata bella, sorridente, affettuosa, pazzerellona, fiera di presentare agli argonauti di Europa la sua Avana monumentale, il suo zucchero, i suoi sigari, le sue creole, i suoi fiori ed i suoi ananas. La tradizionale ospitalità cubana è stata per i pan-latini altrettanto generosa che per i pan-americani; ma, senza volerlo, Cuba ha aperto maggiormente ai primi le sue case ed il suo cuore. Se ai pan-americani ha fatto vedere soprattutto i suoi ministeri, i suoi asfalti, i suoi pompieri, il suo comfort moderno ed i suoi servizi aerei, ha tenuto a mostrare ai pan-latini piuttosto le sue danze, i suoi giardini, le sue donne, il suo cielo, il suo mare, il suo sorriso. Coloro i quali non vedono al mondo altro che «Paris» hanno forse arricciato il naso di fronte a certe ingenuità esotiche. Noi italiani, più latini, più mediterranei e più universali, abbiamo trovato che anche Cuba ha le sue grazie e le sue bellezze, che anche a Cuba v'è come dappertutto qualche cosa da imparare, che anche la vita cubana ha lati interessanti e simpatici come la vita di ogni gente e di ogni terra.

Il Presidente della Repubblica ha aperto ai congressisti le porte della sua casa di campagna e li ha ricevuti come vecchi amici coi quali non si fanno cerimonie. Cincinnato d'America ha tenuto a mostrare loro i suoi campi ben concimati, le sue vacche da latte grasse come maiali ed i suoi maiali decorati da cinquanta esposizioni. Poi in una capanna di perfetto stile creolo, sotto una tettoia deliziosa di foglie secche simile alle mille e mille tettoie che i congressisti vedevano nella campagna cubana, ha mostrato loro l'ospitalità fastosa e nello stesso tempo bonacciona dei grandi signori tropicali. Tutte le leccornie della cucina creola erano imbandite sopra una immensa tavola patriarcale. Re Davide doveva ricevere così i suoi ambasciatori di Egitto e di Fenicia! Ed i congressisti, molti dei quali non avevano mai messo il naso fuori del Bois de Boulogne e della Borboule, si sono trovati magicamente dinanzi ad un bel quadro del Tropico americano: quadro appetitoso ed odorante che solleticava la curiosità e stuzzicava l'appetito. V'erano i punches ghiacciati delle Antille, fatti di rhum e di ananas, di rhum e di arancio, di rhum e di cedro, di rhum e di limone, profumati alla menta selvaggia ed alle spezie, non combinati da un alchimista dei bar coi prodotti industriali di dieci bottiglie, ma trovati nel silenzio delle sieste dagli antichi conquistadores e negrieri dinanzi ai cocchi, ai cedri ed ai campi di canna e da loro tramandati ai nipoti e discendenti per la gioia dello stomaco e per il profumo della vita. V'erano uova ripiene di caviale, sedani cristallizzati nel fegato di tacchino, fritture dolci e insalate di banane, insalate di foglie di palma alla maionese, mandorle abbrustolite nel sale e nel pepe, dolci di guanabana che empiono le vene di fragranze, canditi di guayabo che inzuccherano il palato e nello stesso tempo mordono le gengive. Ognuno ha potuto credersi per un momento un Pizarro od un Surcouf! Le chitarre suonavano il danzón e la marimba. Voci smorzate d'uomo e di donna modulavano i ritmi mezzo andalusi mezzo africani delle Antille. Sotto la tettoia di foglie c'era un'ombra riposante che ricordava i chioschi mori dell'Alcázar. La campagna alitava i suoi soffi tiepidi. Parevano invisibili mani che carezzassero e carezzassero... Cento fiori e cento colori splendevano all'intorno. E svolazzavano le farfalle. E si sfarinavano i rami di buchenviglia. E ridevano le bocche ardenti delle creole. E fiammeggiavano i loro occhi. Le palpebre andavano e venivano sulle guancie accese dai punches e dai cocktails del Presidente...

Al gran banchetto di cento coperti offerto dal ministro d'Italia ai congressisti latino-americani, il rappresentante del nostro paese ha sceneggiato con mano maestra la famiglia latina ed il posto che in essa occupa l'Italia: l'Italia imperiale dei Cesari, l'Italia universale dei Papi, l'Italia dinamica delle Camicie Nere. Uguali nei diritti, primi nei doveri! Così il diplomatico ha precisato il posto degli italiani di fronte alla Latinità. Vogliamo grande l'Italia perchè deve essere grande il mondo latino! Tutti hanno sentito che la voce italiana scaturiva dalla più profonda sincerità della stirpe. Quando il ministro d'Italia ha definito la civiltà latino-americana un prodotto «romano-iberico-cattolico» iparigini hanno nicchiato, ma i latini di America hanno applaudito. Quando il ministro italiano ha presentato il Fascismo come un fenomeno storico di linea romana ed ha tratteggiato con quattro colpi di scalpello la figura romana del Duce, un soffio di esaltazione si è impadronito della sala nella quale erano rappresentati i giornali di ventotto paesi latini. E veramente sembrò che nell'oscurità diamantata della notte tropicale trasvolasse un nembo di aquile!

— Non siamo stati invitati per ascoltare il panegirico del Fascismo! commentava più tardi uno spagnuolo, catalanista ed anti-deriverista arrabbiato.

Pourquoi? gli ha risposto il radico-socialista Paul Reboux del Paris-Soir. Je suis venu exprès pour écouter un diplomate du Fascisme et j'ai admiré son style!

Ed i latino-americani telegrafarono a Benito Mussolini «grande romano moderno». Ed a Gabriele D'Annunzio «sommo poeta della latinità». Poi il Presidente del Congresso – un cubano – ha sciolto un inno alato a Roma ed al popolo italiano. E sulle chiacchiere e sui pettegolezzi del VII Congresso della Stampa Latina, s'erse il profilo solenne della Città Eterna che alle genti latine ha dato la Civiltà, la Religione, le Leggi. Ed al mondo latino ha dato nel 1915 e nel 1920 lo scudo di quaranta milioni di italiani contro il pangermanismo ed il bolscevismo. Ed oggi sta dando l'imperiale rinascita dell'Italia. Perchè il vecchio tronco millenario continui a fiorire di sempre nuove primavere ed a coronarsi di sempre nuove glorie! Perchè i nuovi lauri latini che nascono nel Nuovo Mondo s'uniscano e si confondano coi lauri sempre verdi del Mediterraneo ed i poeti possano continuare a cantare:

Salve, cara Deo, tellus sanctissima, salve!

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