IN MEZZO AGLI ITALIANI DI PORT-AU-PRINCE

Imbocco una strada della capitale della repubblica di Haiti, la più larga e la più bella della città. Case d'un sol piano, metà in legno e metà in muratura, tutte con la caratteristica verandetta e col tipico portico tropicale, fiancheggiano questa arteria cittadina sulla quale s'aprono i maggiori negozi di Port-au-Prince. Sono bazar provinciali con qualche tentativo di vetrina di lusso.

Grandi scritte indicano i nomi dei proprietari e la più parte dei cognomi è così tipicamente italiana che si ha l'impressione di essere precipitati di punto in bianco in una borgata d'Italia, invasa magicamente da una popolazione di eritrei o di somali.

Lo sguardo passa da un Vitiello a caratteri d'oro ad un cubitale De Matteis in letteroni rossi, da un Martino ad un Salvera, da un Sepe ad un Cianciulli, da uno Scognamiglio ad un Bertolini. Mi diverto a passare accanto ai negozi ed a guardare dentro i padroni ed i venditori riconoscendo i tipi classici dei nostri meridionali. Impossibile sbagliarsi! Hanno il passaporto della Campania e della Basilicata sui volti bruni, nelle pose coreografiche, nei gesti espressivi, nel modo stesso fra l'interessato ed il canzonatorio con cui squadrano questo biondo straniero che invece di guardare la vetrine fissa gli occhi in faccia ai bottegai.

In un negozio di scarpe riconosco il sosia di innumerevoli altri maestri della calzatura che ornano le botteghe di Chiaia e di Toledo con le loro pancette ben portanti e le loro faccie rasate di canonici secolari. Dietro un bancone, fra due file di pezze di tessuti, un vecchietto con gli occhiali, che minaccia con un enorme paio di forbici un neretto apprendista, mi ricorda il sarto di quand'ero studente a Castellamare di Stabia, Don Pasquale Mele, eminente nell'estrarre da un cappotto paterno un completo for ever per l'erede.

Ho bisogno di rinnovare il mio cappello di paglia bruciato dal sole della Giamaica ed entro nel negozio di un tal Marano a far l'acquisto. M'offre per quattro dollari una paglia «autentica» di Firenze col nastro alla Lindbergh, poi scopre dal mio accento che sono italiano, s'informa chi sono, indovina il mio nome ed il giornale perchè pare che qui già mi aspettino, mi toglie di mano la paglia «autentica» di Firenze e la sostituisce con una bella paglietta ariosa e simpatica che fu fabbricata da mani italianissime in quel di Pisa e mi restituisce... un dollaro e cinquanta. Evidentemente non vuole imbrogliare un connazionale!

Saluti, stretta di mano affettuosa, due chiacchiere sulla bella Italia, uno spruzzo di nostalgia, altra stretta di mano lunga, cordiale, fraterna, poi io riprendo il mio vagabondaggio dinanzi alle vetrine di Port-au-Prince, ma il divertimento dura poco. Da negozio Marano la notizia del mio arrivo passa a negozio Vitiello, sgattaiola nella bottega di Don Pasquale, sguiscia nel magazzino di calzature del cav. Sepe, arriva nei magazzini generali del comm. De Matteis. In un battibaleno gli italiani sono alla ricerca del connazionale, lo individuano dinanzi ad una vetrina di cravatte, lo circondano, lo stringono, lo abbracciano... Mi trovo improvvisamente fra le braccia poderose del console De Matteis, mentre all'intorno trenta visi sorridenti parlano con gli occhi e trenta mani cordiali cercano la mia. Ho per un istante la sensazione dei príncipi che viaggiano in incognito e che sono scoperti, poi sento gorgogliarmi in cuore una commozione profonda che si scioglie dolcemente nell'espansione del fratello che ritrova i fratelli.

Stringo tutte le mani, sorrido a tutti i volti ed a tutti gli occhi, mi lascio trascinare e quasi ammanettare... Sì, lo so, fratelli buoni di Port-au-Prince, non per me che non sono nulla, che sono solamente uno dei tanti italiani che vanno pel mondo, non per me sono tutte queste feste e tutta questa gioia, ma pel fratello che canta l'onesto e faticoso lavoro dell'emigrante italiano, per il giornalista che ha la fortuna di affidare la sua povera prosa al grande giornale storico donde partì la scintilla della risurrezione. Lo so, lo so, grazie, grazie, non per me che non c'entro, no, no, ma pel giornale grande e santo che ha organizzato e vinto la battaglia degli italiani per ridare agli italiani, a tutti gli italiani la fierezza della propria patria e la certezza del suo meraviglioso divenire...

Ritrovo la sera i connazionali nella bella sede del Fascio, illuminata dai due grandi occhi pensosi del Duce. Mi chiedono tante cose dell'Italia, di Mussolini, della lira-oro, della Libia, della direttissima Roma-Napoli, della grande Genova, della risurrezione economica del Mezzogiorno, dell'Albania, della battaglia del grano, di De Pinedo, di Nobile, di De Bernardi. Sono al corrente. Si vede che leggono i giornali della patria e credo che abbiano letto anche numeri più freschi e più recenti di quelli che ho potuto leggere io, ma vogliono sentir parlare il fratello italiano che scrive sul «giornale di Mussolini» immaginando magari che io ne sappia più di loro, mentre non so che quello che sanno loro, ma parlo lo stesso, parlo lungamente, sentendo che faccio bene a spiegare, a confermare, ad illustrare, a precisare, ad aggiungere il mio amore al loro immenso amore, a confondere la mia fede con la loro immensa fede, a sciogliere la mia passione nella loro immensa passione italiana. Deliziose ore d'Italia in una terra fuori mano, tanto lontana dalla patria!

Sono quasi tutti di una sola provincia d'Italia, Avellino. Sono venuti qui negli anni della gran fiumana proletaria, senza mezzi ed alcuni magari senza scarpe. Oggi, dopo venti o venticinque anni di onesto lavoro e di sudate economie, hanno tutti negozio e casa oltre a quaranta, cinquanta mila dollari in banca e non pochi hanno anche in quel di Avellino una villetta ed un campo che li aspettano. Il novanta per cento è iscritto al Fascio ed hanno anche la loro brava Camera di Commercio. Formano una bella e decorosa piccola colonia italiana che ha ritrovato nel Fascismo l'orgoglio della patria e che è circondata nella repubblica dalla generale simpatia degli haitiani e dalla considerazione del governo.

In mezzo a loro ho sentito, a tante migliaia di chilometri dalla terra natale, il dolce calore della casa italiana che la mia anima cerca con crescente nostalgia, quasi incominci ad essere stanca d'andare sempre errando pel mondo. Ho sentito qui ad Haiti che il giornalista italiano all'estero non assolve il suo compito studiando i luoghi e scrivendo articoli più o meno felici, ma che per forza di cose finisce per essere e per dover essere una specie di missionario in visita pastorale. Non importa che il missionario sia modesto, purchè sappia rispondere con slancio al trasporto dei fratelli e sappia loro gettare a larghe mani la semenza ideale della quale essi hanno sete.

Quante case di italiani non ho visitato a Port-au-Prince?! Linde e buone case nelle quali donne d'Italia vestite a festa mi ricevevano come fossi chissà chi e bei bimbi d'Italia cantavano per lo straniero Giovinezza o recitavano Si scopron le tombe... Ho stretto tante mani, bevuto a tanti bicchieri, risposto a tante domande eguali e se gli italiani di Port-au-Prince hanno creduto di tonificare il loro patriottismo al contatto della mia italianità, io mi sono temprato nella loro splendida fiamma. Reciproco vantaggio. Grande bene.

Gli italiani di Gonaive hanno voluto assolutamente avermi una giornata con loro. M'hanno mandato a prendere in automobile e ricondotto a notte alta a Port-au-Prince come si fa con gli amici di famiglia. Viaggio incantevole in mezzo ai campi di caffè ed ai coccheti della campagna tropicale, tra villaggetti di paglia annidati nei banani e piccole baie di smeraldo naufragate nell'oro del sole.

Siamo in piena stagione di raccolto del caffè e Petit Gonaive è in completo fermento. Vari vapori sono attaccati al piccolo molo coi boccaporti aperti ed i vinch in movimento. Per le strade è un viavai di neri seminudi che trasportano sacchi, di carrelli che vanno su e giù, di carri e di camions che caricano e scaricano il prezioso prodotto. Chicchi di caffè sono sparpagliati dappertutto ed il vento si diverte a raccoglierli a mucchietti negli angoli o contro i marciapiedi. Lo stridio rauco degli argani si confonde col canto cadenzato dei facchini neri che lavorano a catena. Qua e là un uomo pagato apposta ritma cantando il lavoro degli scaricatori. I portoni dei fondachi lasciano intravedere vasti cortili rigurgitanti di donne accoccolate che spiumano il caffè su tappetini di juta o che separano in grandi setacci le varie qualità. Varie donne hanno un poppante sul dorso, addormentato beatamente in una specie di sacco. Altre hanno intorno una nidiata di frugoletti neri che razzolano come galline in mezzo al caffè. La febbre delle banchine e l'animazione dei depositi contrastano stranamente con la flemma della gente disoccupata che prende il sole sulle soglie dei negozi e delle case. Sulle vaste dipendenze del connazionale Bombace sventola la bandiera della patria. I cortili hanno i muri interni pitturati in bianco rosso e verde con nel centro lo scudo dei Savoia e il Littorio. Cose che in Italia farebbero forse sorridere qui commuovono! Sono l'espressione di un amore e di una fede. Hanno la delicata soavità della schiettezza infantile. Toccano l'anima come la voce della madre. In mezzo ai colori ed agli stemmi d'Italia le donne haitiane cantano, lavorano, si grattano, sorridono.

Un gran banchetto ci riunisce alla vigilia della partenza in una spianata all'aperto accanto al mare. È una notte stellata delle Antille che ammalia l'anima. La luna inonda di platino fluido la baia di Port-au-Prince. Si sentono cantare i coccheti che fanno l'amore col mare nella pace delle spiaggie. Tutta la stampa di Haiti è con noi. La colonia ha tenuto a rendere omaggio al giornale che simboleggia la nuova Italia e benchè i banchetti non facciano parte dello stile fascista, sento che questo è nell'ombra del Littorio, giacchè è una specie di grande pranzo di famiglia come le riunioni di pasqua e di natale.

Molti hanno preso la parola e tutti hanno cantato l'Italia lontana. Ho visto occhi pieni di lagrime. Un vecchio che da trenta anni non vede la patria, piange silenziosamente nel piatto sulla sua parte di torta e mangia lentamente il dolce, condito con le sue lagrime. Io sentivo d'avere il cuore completamente aperto, come un fiore che s'apre tutto alla carezza del sole ed al bacio del vento. Sentivo che il grande Spirito della Patria era in mezzo a noi, con noi, dentro di noi. Le nostre anime, consapevoli della sua presenza, rabbrividivano ad ogni parola. Il pranzo italiano era mistico come una funzione religiosa. Perchè non v'era in quell'istante fra noi uno di coloro che negano la Patria? Perchè non ha ascoltato le parole degli umili e non ha visto gli occhi rossi dei forti? Perchè non ha udito il vecchio che s'alzò per parlare, che voleva dire chissà che e poi – grottesco e sublime – con la coppa tremante nelle mani scarne ruppe in un gran singhiozzo e si sedette di colpo ripetendo più volte come un sonnambulo: – Viva l'Italia! Viva Mussolini! Viva l'Italia! Viva Mussolini!

Io m'alzai da quella mensa come il sacerdote che ha detto la prima messa e che per la prima volta ha bevuto il sangue di Dio... Poche volte la patria mi ha mostrato così da vicino il suo volto! La colonia italiana di Haiti ha riempito di profumo la mia anima errante. Ed è un profumo di quelli che non svaniscono che dopo lungo, lungo tempo.

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