LA REPUBBLICA NERA DI HAITI

È facile fare dello spirito sulla Repubblica nera di Haiti che offre il suo colore e la sua messa in scena ai giornalisti di passaggio, venienti dal nord, dal sud e dal centro dell'America, bisognosi di un pezzo allegro per rompere la monotonia del troppo grande degli Stati Uniti o del troppo lirico dell'America latina.

La potente Repubblica stellata tiene nella sua ombra Cuba e Portorico: l'impero inglese protegge la Giamaica. Non vi sono di disponibili in tutte le Antille che San Domingo ed Haiti: bianca quella, nera questa. Dagli dunque ad Haiti!

Accade così che Haiti ha in genere cattiva stampa e serve da numero di varietà fra un articolo sulla strapotenza economica degli Stati Uniti, tutto irto di miliardi, ed un carme sui destini della latinità d'America. Anche i miei colleghi imbarcati sulla nave Italia che toccarono anni fa Port-au-Prince non seppero resistere al pezzo di colore sulla repubblica dei macacchi e forse non s'immaginano che ancora oggi gli haitiani rinfacciano all'italiano che passa quella prosa poco benevola che li ferì nel loro amor proprio dopo le festose accoglienze fatte a Giuriati ed al tricolore di Roma.

Anch'io ho cominciato col sorridere quando per fare entrare nella repubblica la mia fedele macchina da scrivere – cara compagna di viaggi e di lavoro – ho dato di picchio contro la prosopopea d'un funzionario doganale color nero antracite, ingabbiato in un solino di celluloide, peggiorato da un paio d'occhiali alla Harold Lloyd, che fraseggiava in bello stile francese, mescolando articoli del regolamento doganale con citazioni di Bossuet e con frasi fatte di gazzetta provinciale. E risi addirittura nel salire le scricchiolanti scalette del pomposo Hôtel de France al quale m'aveva destinato con una magniloquente raccomandazione il console di Haiti in Giamaica. Diversi burattini neri rallegrarono coi loro lazzi la mia prima cena di Haiti, predisponendomi all'articolo brillante che è di prammatica su Porto Principe, come, per chi viaggi nel Nord-america, in Ispagna e in Italia, l'articolo sui grattacieli di Nuova York, sulle gitane pidocchiose di Siviglia e sui maccheronai di Napoli. La sera, nel rincasare verso le undici, l'albergo m'offrì il divertente spettacolo della servitù dei due sessi schierata in deshabillé notturno sul pavimento del corridoio, il quale serve anche da dormitorio sbrigativo ai cuochi, agli sguatteri, ai camerieri, al portiere, al maître d'hôtel ed ai fattorini!

Ho avuto però il merito di aspettare l'indomani ed ancora qualche giorno prima di riassumere le mie impressioni. Ho visto la folla umile della città nelle sue strade e nel suo mercato, occupata a guadagnarsi miseramente il pane come tutte le folle che hanno più fame che lavoro. E l'ho osservata con attenzione. Ho visto nei campi gli uomini curvi intorno alla canna di zucchero ed al cacao, nelle aziende le donne sfiancate a stacciare e ad insaccare il caffè, nelle scuole i ragazzi piegati sulle grammatiche ed i dizionari latini. Ho ascoltato gli italiani da lunghi anni residenti nel paese che conoscono l'indigeno nelle sue qualità e nei suoi difetti. Ho parlato con la gente delle classi più colte e più fini che hanno fatto i loro studi nelle università di Francia e che personificano le possibilità della razza. Ho intuito le difficoltà di questo paese nero, isolato per il suo colore e per la sua lingua dal resto dell'America, costretto per ragioni di vita ad improvvisare una vetrina di Stato occidentale, prima di avere compiuto la sua evoluzione interna, combattuto fra il timore paradossale di non parere abbastanza nero ai propri occhi e nello stesso tempo di sembrare troppo nero agli occhi degli altri, schiavo di un destino implacabile che lo obbliga a percorrere con velocità affannosa quel cammino che altri popoli hanno percorso con lentezza nel volgere dei secoli.

Poi ho visto i soldati degli Stati Uniti accampati nelle città e nelle campagne, i funzionari degli Stati Uniti istallati nelle dogane e nei ministeri, il Commissario degli Stati Uniti spadroneggiante nel palazzo presidenziale.

La dignitosa povertà degli intellettuali rallegrata solo dalle gioie della conversazione e della lettura, il tormento dei patriotti che sognano ingenuamente una grande patria nera assisa alla mensa delle nazioni, i ripieghi tragicomici dei professionisti della politica che fanno gli acrobati fra il romanticismo ed i dollari, sopra uno sfondo di bohême negra o mulatta sulla quale s'aprono con frequenza le porte della prigione, il contrasto fra i cenacoli che s'ispirano a Nietzsche od a Rousseau e le umili feste africane nelle quali si danza la marimba al ritmo dei tam-tam, la rassegnata felicità dell'ignorante che si contenta della sua capanna d'Africa fra una palma ed una femmina e la rivolta impotente dell'uomo istruito che ha respirato l'aria del Quartiere Latino e della Sorbonne e che si sente soffocare nel cerchio troppo angusto di Jeremiah o di Limbé, le cene miserabili a base di banane fritte e la frequenza con cui s'ostenta la redingote, le galline che razzolano fra i libri di scienza e gli scienziati che allevano galline per sbarcare il lunario, tutte le cose buffe e le cose tragiche che formano la vita haitiana, m'hanno fatto intravedere il dramma del popolo e mi hanno fatto dimenticare la farsa dei coristi.

Italiano, appartenente cioè ad un popolo che non ha pregiudizi nè di colore nè d'altro genere, per aver perso tutti i pregiudizi nel corso della sua storia millenaria, ho finito per non vedere più nell'haitiano un nero che scimmiotta la vita occidentale, ma un essere umano che difende la propria personalità, la libertà del suo paese, il diritto alla vita della sua razza.

Certi gesti e certe frasi che m'avrebbero fatto ridere a Dakar mi hanno lasciato pensoso a Port-au-Prince!

Di tutti i neri dell'America centrale solamente questi di Haiti hanno rifiutato la servitù dorata del lacchè ed hanno avuto il coraggio di presentare ai nipoti dei negrieri il conto dei loro antenati. Ora vogliono essere qualcuno. I mezzi di cui si servono sono a volte puerili, ma è forse colpa loro se i bianchi rispettano solamente i popoli che ostentano un esecutivo in frac, un legislativo con la laurea di giurisprudenza, un ordinamento municipale ed un corpo di diplomatici?

Più che dal comico di certi individui e di certe situazioni, sono rimasto colpito ad Haiti dallo sforzo tragico del popolo di cercare nelle esteriorità il rispetto al quale pretende aver diritto. Nelle strade di Port-au-Prince non ho pensato nè a Nuova York nè a Parigi, ma all'Africa originaria dei feticci e delle foreste vergini dalla quale questi uomini sono venuti, legati agli anelli delle stive negriere, condannati ad essere bestie da soma e da mercato. Il cammino che hanno percorso è innegabile. Se la razza non ha avuto il tempo materiale di evolvere in tutti i suoi strati sociali, ha già fatto suoi gli elementi fondamentali del vivere civile, possiede già una classe dirigente che traduce Heine, che scrive romanzi, che pratica l'avvocatura e la medicina, che sa applicare i metodi dell'ingegneria e della scienza, che non farebbe cattiva figura in una qualsiasi assemblea parlamentare moderna a suffragio universale.

È ancora piccola questa élite, ma sta a dimostrare la funzione potenziale del nero nel Tropico americano, dove trova lo stesso clima e la stessa vegetazione dell'Africa originaria. La cosidetta africanizzazione del Tropico americano che è uno dei massimi problemi avvenire del Nuovo Mondo, può avere in Haiti il suo piccolo Piemonte, il quale ha già tre milioni di abitanti e sgretola le frontiere della vicina repubblica di Santo Domingo. A me pare che il problema sia troppo serio per vedere in Haiti solo uno spettacolo di operetta!

Presentato dal console d'Italia cav. De Matteis sono stato ricevuto in udienza dal Presidente della Repubblica Louis Borno, uomo assai discusso dagli haitiani, considerato dagli uni un eccellente amministratore del paese, dagli altri uno strumento al servizio degli Stati Uniti.

È facile dimostrare che il presidente Borno è stato aiutato dai nord-americani a scalare la presidenza e che obbedisce agli ordini dell'Alto Commissario Russel. È altrettanto facile dimostrare che qualsiasi altro Presidente avrebbe dovuto egualmente contare sull'appoggio degli americani e dovrebbe egualmente obbedire alla volontà onnipotente del signor Russel. Come fare altrimenti?

La storia di Haiti non è che una delle tante edizioni della politica degli Stati Uniti nei Caraibi. Cambia la forma e mutano i personaggi, ma la sostanza è sempre quella. Tutti i paesi dell'America centrale che interessano da vicino gli Stati Uniti per ragioni strategiche od economiche, sono immancabilmente colti da una crisi di rivoluzioni a getto continuo che sa di epilessia e che termina miracolosamente appena sbarcano i famosi soldati della fanteria di marina. Diventa allora Presidente una persona grata, la qual cosa non esclude che egli possa fare anche gli interessi del suo paese, nel limite delle sue possibilità. La dichiarazione fatta dalla Delegazione di Haiti alla VI Conferenza Pan-americana contro la politica nord-americana dell'intervento – dichiarazione categorica e ripetuta solennemente in tre sedute diverse senza riserve e senza tentennamenti – dimostra che il servilismo del Presidente Borno non ha niente a che vedere con quello del Presidente Diaz del Nicaragua ed è in ogni modo assai meno assoluto di quanto vorrebbero far credere i suoi avversari.

Haiti è per i nord-americani il completamento di Cuba. La piazzaforte di Guantánamo ha bisogno dell'isola di Gonaive per essere perfetta. Le campagne haitiane possono offrire dividendi non meno grassi delle campagne cubane ai finanzieri di Nuova York. Nella formidabile morsa di Washington la piccola Haiti è una coserella di vetro che può andare come niente in frantumi. Fra coloro che vorrebbero una resistenza aperta, forse inutile, e coloro che preferiscono una tattica di adattamento in attesa del momento favorevole, l'osservatore spassionato resta francamente perplesso.

Un uomo intelligente e fine, uno sguardo che ora sfugge ed ora vi fissa, una parlantina frizzante, un fare disinvolto d'uomo abituato a Deauville ed a Montecarlo, un francese scorrevole e stilisticamente perfetto, un colore d'epidermide che tradisce l'incrocio col bianco: ecco l'impressione che ho avuto del presidente della Repubblica di Haiti!

Altri presidenti centro-americani di razza bianca danno forse al visitatore una impressione meno favorevole.

Delle molte cose interessanti che m'ha detto ricordo soprattutto un elogio vibrante della colonia italiana di Haiti che egli ha definito «la migliore colonia straniera della Repubblica, la più laboriosa e la più utile, l'unica che non ha mai dato grattacapi ai governi e che non si è mescolata mai agli intrighi politici dando esempio costante di serietà, d'onestà e di tenacia».

— Dobbiamo agli italiani – m'ha detto il Presidente – se molti haitiani hanno appreso un mestiere e se esistono oggi nel paese maestranze industriali. L'italiano fraternizza col benestante e col povero dando agli haitiani l'impressione di non essere un semplice sfruttatore di passaggio ma un prezioso collaboratore dello sviluppo economico e del miglioramento sociale del paese.

Il Presidente ha poi dichiarato di essere convinto che le relazioni commerciali fra l'Italia ed Haiti saranno assai avvantaggiate dal nuovo Trattato italo-haitiano. Il nuovo Trattato, basato sui reciproci interessi dei due paesi, facilita l'esportazione in Italia dei prodotti haitiani (caffè, cacao, cotone, campeggio, tartaruga, ecc.) e favorisce l'importazione in Haiti dei prodotti italiani (cotonate, tessuti, cappelli, vini, vermuth, gioielleria, scarpe, materiali da costruzione, ecc.).

Il mio distintivo fascista attrae l'attenzione del Presidente che chiede d'esaminarlo.

— Anch'io sono fascista – mi dice allora Borno – ed aspetto anzi dal Fascio di Porto Principe la tessera di aderente. Non solamente vedo nel Fascismo un regime di ordine, di disciplina, di pace sociale, di valorizzazione intensiva delle risorse nazionali, ma lo considero il prototipo di una nuova forma di governo che risponde alle esigenze universali del tempo attuale. Per quanto si riferisce all'America centrale, l'adozione d'un regime tipo fascista sarebbe sotto tutti i punti di vista la salvezza. Ho per Benito Mussolini l'ammirazione che merita il più grande uomo di Stato contemporaneo. Ho sempre considerato l'Italia uno dei paesi d'Europa di più sicuro avvenire, ma oggi col Fascismo la mia opinione è diventata certezza. E ne sono lieto per due motivi: primo, per quanto vi ho detto sulla colonia italiana di Haiti; secondo, perchè Haiti è un paese di coltura tipicamente latina che ha in Roma la sua grande madre storica così come ha in Parigi la sua madre spirituale.

— Che il soggiorno in Haiti vi sia gradito – m'ha detto per ultimo il Presidente. – Andate nell'interno: entrate nelle capanne degli umili e nelle case dei benestanti: interrogate, ascoltate, osservate: siate sincero nello scrivere di Haiti, ma non siate severo perchè questo è un popolo in formazione che deve combattere contro mille ed una difficoltà.

Appunto perchè sono andato nell'interno, perchè sono entrato nelle capanne dei poveri e nei salotti dei ricchi, perchè ho ascoltato con attenzione professori e facchini, commercianti e giornalisti, bianchi e neri, mulatti e quarteroni, bornisti ed antibornisti, rinunzio al capitolo brillante sulla repubblica nera di Haiti, preferendo una parola di simpatia verso questo popolo che ha la fierezza del suo colore e l'ambizione di mettersi alla pari con le altre genti civili della terra.

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