ISOLA DI CUBANACAN

Nell'azzurro del cielo cubano l'alba sboccia come un grande fiore mentre l'yacht presidenziale lascia il porto di Avana. Ospite del Presidente della Repubblica parto per un lungo giro di circumnavigazione della più grande delle Antille: fantastico viaggio di sogno sul mar dei Caraibi, durante il quale andremo vagando in mezzo ai mille isolotti coralliferi che formano una specie di vezzo intorno alla perla del Tropico.

La nave si fermerà in luoghi dallo strano nome esotico che dormono in fondo a grandi baie e che sono rimasti tali e quali erano tre secoli or sono, incapsulati entro le loro foreste di mogano e di cedro che la mano dell'uomo non ha ancora abbattuto, cristallizzati nella loro vita di colonie creole di altre epoche, veri angoli dimenticati che riservano al poeta e al pittore l'incanto dei tempi che furono. Privi ancora di ferrovie ed alcuni sinanche di strade, sono luoghi che gli stessi isolani appena conoscono. Su centomila cubani forse solo uno o due hanno avuto occasione di ammirare quel meraviglioso gioiello della Natura che è la baia di Sagua de Tánamo, di vagabondeggiare in mezzo alle insenature ed agli isolicchi della immensa baia di Nipes – una fra le più grandi del mondo – o di fermarsi su quella costa di Baracoa che nel 1492 offerse a Cristoforo Colombo il suo arco superbo di scogli e di faraglioni, cintato di montagne e di selve.

Ogni tanto il Presidente della Repubblica interrompe le sue occupazioni di capo dello Stato per una crociera intorno alle coste dell'isola. Il gran Dio dei viaggi che mi protegge già da parecchi anni, ha voluto che io fossi della partita e che potessi così aggiungere alla mia collezione anche questi angoli reconditi delle Antille che non sono toccati dai vapori e che non hanno neppure vie terrestri di accesso, a meno di non andarvi a dorso di mulo attraverso la macchia.

L'alba sboccia come un immenso fiore e si spampana soavemente in una pioggia di petali rosa che sfioccano nell'azzurro. I cannoni del forte e degli incrociatori che salutano la nave presidenziale sconvolgono con le loro salve la dolcissima soavità del mattino e chi guarda ha l'impressione penosa di un barbaro che stia violentando una tenue verginità di carne rosa e di capelli biondi.

Poi i cannoni tacciono. Gli incrociatori di scorta – il Cuba ed il Patria – prendono posto ai fianchi della nave. I picchetti di onore si scompongono. La musica della marina si acqueta. E mentre l'isola sgomitola lentamente il suo perimetro azzurrino, incomincia la grande musica del mare e del vento, melodia sublime dell'Infinito!

Viaggiano a bordo del Guantánamo il Presidente ed il vice-presidente della Repubblica, i presidenti del Senato e della Camera, i leaders dei partiti politici, i capi dell'esercito e della marina, ministri, sottosegretari, senatori, deputati. È un interessantissimo insieme che mi permette di osservare da vicino un mondo politico del centro America.

Due ore dopo la partenza ognuno ha lasciato nella propria cabina insieme col colletto e con la giacca, il sussiego della sua funzione. I pigiama tropicali, con maniche corte od addirittura senza maniche, semplificano l'aspetto esteriore degli uomini, però la consuetudine politica resta attaccata alla pelle. Le parole tradiscono le cariche. Ho dinanzi agli occhi una pellicola cinematografica della democrazia e del parlamentarismo, con i loro sistemi e le loro macchiette, con gli strateghi, i maneggioni, i chimici della combinazione, i virtuosi del ricatto, i pupazzi ed i burattinai del suffragio universale. Il quadro è piccolo ma è anche vicinissimo. Non ho che da ingrandire un po' gli uomini e le cose per immaginarmi un Guantánamo dell'Italia pre-fascista, in crociera sulle coste della Sardegna, con a bordo Giolitti ed i suoi cari Peano! Mi par di riconoscere Giuffrida, l'eccellente Facta, il prefetto Lusignani ed il gran maestro delle Poste, duca di Cesarò!

In un angolo la Delegazione cubana reduce da Ginevra giuoca a scacchi coi grandi paesi del mondo; in un altro angolo gli elettori delle provincie fanno la ruota intorno al Presidente delle Repubblica e si beccano come tacchini, sbirciando i giornalisti perchè raccolgano le loro parole. Penso che il generale-presidente deve avere una nostalgia terribile della dittatura. Ogni tanto uno schiamazzo di voci e di applausi attira i gitanti verso un punto del ponte. Che cosa è successo? Una pesca miracolosa? No, semplicemente un senatore o un deputato il quale, dimenticando di essere in vacanza, si lascia trascinare dalla consuetudine oratoria a uno squarcio di eloquenza e provoca l'esplosione di innumerevoli altri Ciceroni allo stato latente.

Dinanzi all'immensità del mare ed all'immensità del cielo tutti questi personaggi in cerca di autore sono di una fatuità indescrivibile...

Nella solitudine del mare affiora una minuscola piattaforma di roccia, lunga cento metri, larga cinquanta, elevata sull'acqua sì e no un metro. È come un terrazzino messo lì dalla natura: una cosina estremamente grande. Non è un'isola, non è uno scoglio, non è una secca. Semplicemente un balcone sull'oceano. Forse la tribuna di un poeta.

Quel vassoio di terra non ha senso. Ma gli uomini glielo hanno dato. L'Inghilterra, grande regina dei mari, vi ha eretto uno dei tanti monumenti della sua potenza marittima. Un faro drizza in mezzo ai due infiniti del mare e del cielo il suo minareto a fascie nere e bianche. Accanto al faro c'è un pennone con la bandiera dell'Impero.

Il Guantánamo passa quasi rasente a Scoglio Lupo. Tre casette lillipuziane, due antenne radiotelegrafiche e cinque palme tengono compagnia al faro ed ai suoi guardiani. Vien fatto di chiedersi se per caso quegli uomini – due o tre – che vivono soli sul terrazzino dell'oceano in perpetuo contatto con l'immensità siano più felici o più infelici degli altri; di noi che viviamo in mezzo a milioni di nostri simili?

Le secche delle isole Bahamas spingono quasi sulla rotta del Guantánamo i loro banchi coralliferi che sono un gran mondo sottomarino in formazione, destinato ad emergere pian piano dall'acqua con millenaria lentezza. Le onde coprono ancora interamente le terre di domani, ma le secche ne tradiscono la presenza con grandi chiazze verdose che spiccano nel turchino cupo degli abissi.

Nella formidabile luminosità del Tropico il mare è uno straordinario zaffiro, intarsiato di smeraldi chiari. Dove la terra già sfiora la superficie, guizzi di spuma incrinano la lucentezza degli smeraldi e pare che fantastici rigurgiti di perle vengano su dalle voragini a frangersi al sole.

Ad oltre mille chilometri dall'Avana, nel vertice estremo dell'isola di Cuba, in quel punto dell'arcipelago caraibico nel quale la Natura si è divertita ad incastonare una conca d'azzurro marino fra le quattro isole di Cuba, di Haiti, di Giamaica e di Inagua, Cristoforo Colombo, proveniente da San Salvador, attraverso uno stretto canale conosciuto dalla Provvidenza, pose piede per la prima volta in una grande terra d'America. Pochi anni dopo sorgeva in quei paraggi Baracoa che fu la prima capitale di Cuba. Il destino ha voluto che più tardi i cubani dimenticassero Baracoa in mezzo alle sue montagne di cedro, lasciandola senza strade e senza ferrovie nel suo angolo storico, così che chi oggi vi arriva ritrova a poche centinaia di metri dall'abitato quello stesso quadro di acque e di monti, di palme e di foreste, di grotte e di scogli che fece dire al Grande Ammiraglio: – Qui doveva essere il Paradiso terrestre!

I secoli e le guerre hanno distrutto interamente l'antica città che le cronache della Historia de las Indias descrivono forte ed opulenta. Le antiche case sono state sostituite da costruzioni di legno che s'aprono su grandi giardini tropicali. Disgraziatamente in occasione della visita presidenziale ogni proprietario ha pitturato a nuovo la sua casetta, scegliendo il colore del gelato di sua preferenza e per colmo di iattura tutte le strade sono inghirlandate con bandieruole di pezza e con fronzoli di carta. Grandi scritte di carattere elettorale contribuiscono a rendere ancora più meschino lo scenario. Lo straniero che s'aspettava una città coloniale del 1600, non si sente compensato neppure dai sorrisi delle belle mulatte che sulle soglie degli usci salutano con grazia tropicale il passante.

Ma basta arrampicarsi pochi metri sulla scarpata della montagna per ritrovare in un vecchio casermone di cavalleria la storica Baracoa di Diego Colombo. La città di legno scompare nella piega di due poggi. Restano solo i monti, il mare e le palme. Il cielo dolcissimo delle Antille è una fantastica miscela di zaffiro e di oro. Nei vasti cortili sono accampati i cavalli di un intero reggimento venuto apposta per il viaggio del Presidente. Stallieri neri e quasi nudi girano in mezzo ai quadrupedi, rastrellando le lettiere e governando le greppie. C'è un buon odore d'erba e di cavalli che pare un profumo di avventura. Vecchi mortai di bronzo restano al loro posto di gloria, con le bocche inutili ed un po' cariate puntate verso quelle profondità marine donde un tempo venivano i corsari inglesi e francesi, scandinavi e batavi; verso quei monti boscosi dove un tempo s'annidavano le tribù degli indios ribelli che facevano bestemmiare il fedele servitore della Chiesa Don Diego de Velázquez.

Migliaia di palme mareggiano per ogni dove. In formazioni serrate si slanciano all'assalto dei cocuzzoli e giunte sulle cime vi ballano il girotondo per poi precipitarsi pazzamente lungo il versante opposto in direzione del mare. Dovunque esse passano, la terra si veste di splendore e di allegria. Campicelli di banane e di caffè interrompono ogni tanto la distesa delle palme e si vedono affiorare sul verde i tipici tetti a punta della capanna antillana: il guayro degli indios. Chi bussa ad una di quelle porte per chiedere una tazza di caffè criollo può ritrovare i resti dei Saboyesi di Cubanacán nei lineamenti di una donna o nel profilo di un vecchio.

Mentre un gran banchetto campestre riunisce le «forze vive» di Baracoa intorno al Presidente della Repubblica e si accendono i fuochi di artifizio dell'oratoria tropicale, io chiedo ad una capanna l'ospitalità della sua ombra. Il sommesso tam-tam delle noci cocco che ciottolano al vento sotto gli ombrelli delle palme, accompagna le canzoni che per me creano le Antille. Due piccole mani meticcie mi fanno vento con un gran ventaglio di foglie. Una vecchia negra mi serve in un piatto di coccio il cucurucho di Baracoa, stranissimo dolce fatto con la poltiglia della canna di zucchero, con la scorza del cedro e col bianco del cocco.

Il pomeriggio tropicale si liquefa in una beatitudine lenta e sonnacchiosa che permette tutte le fantasie. Tra un boccone di cucurucho ed un sorso di caffè criollo, mi sorprendo a rievocare le pagine di un vecchio libricino che descriveva le gesta di Colombo e che dava meravigliose vertigini alla mia anima di scolaretto elementare. E mi par di vedere quegli uomini nudi «dipinti a fiorellini rossi e azzurri, che con un uccello in una mano ed una trombetta dorata nell'altra andarono incontro allo Straordinario Marinaio di Genova, facendo tintinnare i loro monili di pietruzze verdi e le loro collanette di ghiande d'oro...».

Allora, come ora, migliaia di palme pavesavano a festa le coste luminose dell'isola di Cubanacán... Ed affioravano sul verde i tetti a punta dei guayros degli indios... Ed il cielo era una meravigliosa miscela di zaffiro e d'oro... E le genti offrivano in piatti di coccio gli alimenti dell'isola agli uomini bianchi venuti dal mare!

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