LA PIAZZA DELLE FRITTELLE

Esco da una festa del Casino Spagnuolo, una festa parigino-andalusa, nella quale le bellezze creole dell'alta società ispano-cubana, svestite dalla moda di Parigi, s'ammantavano in pesanti scialli di Manila carichi di fiori e ricchi di sogno. Le ginnastiche danze nord-americane s'alternavano coi lenti tango del Rio de la Plata e col sensuale danzón delle Antille.

Mentre i miei occhi seguivano quella carne muliebre, florida e profumata, ambrata dal sole, smaltata dalle ciprie e dai rossetti, che ardeva languidamente nel flirt tropicale, le mie orecchie ascoltavano i discorsi degli uomini che stilizzati negli smokings bianchi impastavano politica a piene mani, mescolando microscopici interessi locali con grandi princípi di filosofia e di umanità.

L'atmosfera delle sale aveva la fragranza indefinibile di certi cocktails nei quali potenti rhums e formidabili cognacs sono mescolati con rosoli caramellati e dolcissimi in una strana mistura cui si aggiunge poi una goccia di aceto o un pizzico di senapa. Camerieri sudati fino all'indecenza, circolavano continuamente con grandi vassoi carichi di gelati multicolori e di complicate bevande cubane dalla tinta sgargiante e dal sapore voluttuoso.

Accanto a me un giornalista antillano mi snocciolava i peccati delle più belle signore e dei più ricchi finanzieri che dominavano la festa con la loro grazia e la loro opulenza. Con snervante lentezza sgranava scandali su scandali che illuminavano d'un lampo l'uomo o la donna che passava e l'avvolgevano in un alone di fantasmagoria. Le parole denudavano le donne, svestivano gli uomini, inchiodavano alla gogna un potente dell'isola, richiamavano improvvisamente intorno al volto grave di un politico o di un banchiere spettrali fantasmi di morti e rovine o l'ombra tragica del capestro. I gelati dai colori violenti si liquefacevano nei vassoi blasonati con le armi di Spagna e di Cuba. Grossi colaticci verdi od amaranto rigavano i calici di cristallo, scintillavano sotto la luce dei doppieri come fantastiche liquidezze di gemme, poi finivano sui fondi d'argento in una broda incolore nella quale si maceravano avanzi di paste e mozziconi di sigari.

Ad un tratto ho sentito il bisogno fisico e spirituale di uscire da quella tiepida serra di piante umane e mi sono trovato in istrada dinanzi al grande arco del golfo.

La notte è calda e senza luna. Grandi nubi velano le stelle. Non un alito di vento sommuove l'atmosfera pesante, carica di elettricità, satura di umido, faticosa al respiro ma soave alla pelle come una permanente carezza. Il mare è una grande distesa nera, senza forma, senza rumore, senza confini. La luce del faro scorrazza su questa immensità buia senza estrarne nè una barca nè uno scoglio. L'orecchio si tende per percepire i brividi dell'acqua ma la calma tropicale non ha un soffio. L'organismo è invaso da una grande stanchezza interiore che anestetizza la volontà e dà all'indolenza una dolcezza straordinaria. La strada è una lunghissima sfilata di globi elettrici che sprofonda nelle lontananze rettilinee del Vedado e che inghiotte perennemente automobili. La gente che non ha coraggio d'andare a dormire con questo caldo si riversa su migliaia di macchine verso i quartieri extra-urbani nell'illusione di trovarvi una bava di vento. Intorno ad ogni lampada elettrica impazzano mulinelli di farfalle, di zanzare e d'insetti.

Anch'io mi lascio sedurre dal grande corridoio luminoso: un'automobile mi trasporta velocemente tra le ville addormentate e le palme immobili, verso Miramare. Sento d'essere in istato di grazia, di trovarmi cioè in uno di quei momenti fisico-spirituali che permettono d'entrare in comunicazione diretta con un paese ed i suoi abitanti, attraverso una misteriosa corrispondenza di natura indefinibile, nella quale i suoni e gli odori, il chiasso ed il silenzio parlano all'anima, così che essa sente magicamente la poesia di una terra e delle sue genti dopo averla invano cercata per settimane e per mesi nelle piazze e nelle biblioteche, negli sfoghi dei poveri e nelle interviste con gli uomini illustri.

La mia automobile si ferma come tutte le altre a Miramare, in una specie di grande spiazzo irregolare e disadorno nel quale muoiono gli aristocratici vialoni delle passeggiate. Qui la gente di Avana ha creato un luogo di riunione notturna e lo ha voluto lontano dalla città per farsela di proprio gusto, senza preoccupazioni di civiltà, senza smanie di modernismo nè pudori di noblesse oblige. Cento baracche di legno, fiammeggianti di luce, danno alla piazza l'aspetto di una fiera provinciale durante la festa del patrono. A quest'ora i caffè del centro hanno chiuso le porte per mancanza di clienti ed i cabarets pariginissimi della città s'alimentano magramente con qualche coppia di turisti americani. Qui invece la grande piazza campestre rigurgita ogni notte di una folla che l'empie della sua gioia e del suo formicolio.

Migliaia di automobili vi trasportano l'aristocrazia politica e finanziaria di San Cristóbal, la quale dimentica per qualche ora Parigi e Nuova York per essere solamente cubana ed un po' andalusa, mentre i trams e le popolari gaguá riversano a torrenti la gente minuta della Vibora e di San Giovanni, i mulatti, i neri, i cinesi, i garzoni, le serve, i facchini, i teppisti. Tutte le classi e tutte le razze dell'Avana sono rappresentate tra le baracche luminose di Miramare. Qui i signori ed i pezzenti trovano le vivande tipiche dell'isola; quelle che gli antenati conquistatori portarono dalla Spagna ispano-moresca di Isabella la Cattolica o che appresero dagli indios e dai Saboives contemporanei di Colombo; quelle che gli schiavi del golfo di Guinea e del Senegal recarono dall'Africa originaria o che i pirati internazionali delle Antille rapirono insieme con le donne dai più lontani paesi del mondo.

Le grandi padelle d'olio bollente friggono polpette di mais tritato, condite con spezie tropicali, indorate dallo zafferano, rese piccanti dal pepe di Caienna. Ogni baracca urla a squarciagola la bontà del suo prodotto caldo bruciante che cuochi neri e mulatti preparano coram populo e che i garzoni servono dentro le automobili e sugli imperiali dei trams. Gridano i padroni, gridano i servi, grida la claque. Ogni tanto un cuoco, colto da un improvviso attacco di epilessia, inizia con la padella un esercizio d'acrobazia che consiste nel far saltare le polpette più in alto che sia possibile e nell'accompagnare il giuoco con grida da sala da scherma sempre più forti. L'attacco si propaga agli altri cuochi. I padroni delle baracche rapiti nell'entusiasmo martellano coi pugni i banconi. Gli inservienti suonano la carica sui vassoi. I monelli gridano a perfidiato. Le orchestre attaccano alla disperata il danzón e la habanera. Il pubblico applaude, ordina piatti di polpette, «giri» di rhum e ripetizioni di birra.

— Brucia! Brucia! – urlano gli strilloni presentando dentro le limousines piramidi di polpette piccantissime che sembrano fatte con gas lacrimogeni. Le dame eleganti dalle dita inanellate si deliziano a sgranocchiar frittelle. Ed il politicastro che sbraitava al circolo contro la dittatura del Presidente o la demagogia dell'avversario provinciale dimentica teorie ed ambizioni per occuparsi dell'odorante frittura nazionale che l'invita a più semplici e riempitive occupazioni.

Riconosco le piccole falaffie care ai fellah del Sudan e la magà-magò di cui sono tanto ghiotte le nerette del Gabon. In altre padelle cigolano le banane fritte, quelle gialle e quelle verdi, tagliate o pestate: in altre ancora i boniatos e le patate dolci dell'Africa: tutta una serie di fritture grasse e dolcigne che empiono lo stomaco, impiastrano le gengive, ungono le mani, mettono la sete in gola e l'allegria in cuore. Molti amori nascono nell'ardore di una polpetta pepata e con la complicità delle dita bisunte si stringono nodi che durano tutta la vita.

— Fresca! Fresca! – gridano i garzoni che saettano fra le auto con le guantiere colme di birra e di aranciate. Accanto al curiosissimo pane dell'isola – un pane pieno d'aria che si sbriciola in bocca e, quasi si direbbe, si volatilizza in una sbuffata – ogni baracca sfoggia in bell'ordine i salumi grassi e pepati di Spagna, le salsiccie rosse e nerognole di Andalusia, il chorizo, il tajado e tutti gli altri embutidos di Asturia e Catalogna a base di lardo e peperoni. I forti rhums delle Antille sono rappresentati da eserciti di bottiglie che ostentano le armi di Santiago, di Haiti, di Giamaica, di Santo Domingo, della Martinica. Bibite e gelati, sorbetti e granite, insalate di aucat e di ananas, pasticci agro-dolci di anón e di guayabo offrono allo straniero in vena di emozioni salti mortali nel gran mondo dei gusti e dei sapori dell'umanità. Bimbetti mulatti che paiono Pinocchini meccanici di terracotta s'intrufolano in tutti i buchi per offrire cornetti ripieni di noccioline americane tostate. Calde e buone! Calde e buone!

Suonatori ambulanti s'offrono ai pedoni ed alle automobili per accompagnare con un pizzico di chitarra e con un dito di canzone la polpetta ed il refresco. Sono in genere poeti estemporanei, a corto di voce e di orecchio, che complimentano la bellezza della dama e la generosità del caballero. Hanno canzoni uniformi ed un po' tristi che evocano visioni lontane di moschee e di tam-tam. Sono vecchie canzoni di schiavi, nate nelle piantagioni coloniali di canna, che arrivano direttamente all'anima dei neri e dei meticci e ricordano ai creoli i ritmi lontani con cui le balie cullavano i bimbi dei conquistatori e le donne addolcivano le sieste dei negrieri.

In questi suoni e in questi odori il viaggiatore ritrova le Antille del sogno che la grande città di cemento maschera dietro grattacieli nord-americani e paraventi parigini. Orchestre nere appollaiate sui tetti delle baracche in una specie di teatrino, oppure accomodate alla meglio a ridosso delle gentole, empiono la piazza di strepiti e di canti, nei quali i tam-tam dell'Africa sono mescolati con le follie delle Canarie, con le saette di Triana e di Siviglia, con le chicas degli indios in una babele musicale che stordisce chi non abbia viaggiato abbastanza per riconoscere i ritmi caratteristici delle terre che fasciano l'Atlantico e delle loro genti che costituiscono il fondo etnico del popolo cubano.

Accanto alla chitarra ed al violino ogni orchestra ha i tamburri e le zucche sonore delle tribù africane, i silofoni e balofoni delle foreste vergini, i flauti di canna a cinque buchi degli uomini velati del Sahara, la marimba del Niger, il guiro del Congo. Tutti parlano, cantano e ridono. Risate grasse che gargarizzano lungamente e che si comunicano per contagio in mezzo al frastuono delle orchestre che scaricano tutte le musiche e le danze tipiche delle Antille, la criolla, la habanera, la rumba, il bembè, il guaranco, destinate un giorno o l'altro a varcare l'Atlantico ed a diventare i ritmi ed i balli dell'Europa, con la complicità di una qualsiasi Giuseppina Baker più o meno mulatta o di un qualsiasi ballerino che piaccia a Mistinguette.

La gente dell'Avana si gode così l'esistenza, in un'allegria sempliciona e primitiva ma schietta e saporosa, che mescola un tantino di romanticismo studentesco con una buona dose di sensualità orientale ed indora tutto di ottimismo, di fatalismo, di fiducia nel domani, di filosofia spicciola che invita a gustare l'attimo fuggente senza pensare al poi.

È questo l'unico luogo in tutta l'Avana nel quale la popolazione si spoglia della sua preoccupazione di popolo che vuol parere ultra-moderno ed ultra-civile per mostrarsi al passante così com'è, più andaluso che yankee e più orientale che andaluso, buon figliolo sensuale ed impulsivo che ama soprattutto la buona tavola e la bella femmina, che vuole guadagnare molto per poter spender molto, che considera la politica una merce e gli uomini politici commessi di negozio, che in moltissime cose guarda più all'apparenza che alla sostanza, che predilige le parole roboanti, le vivande grasse, le donne ben pasciute, i dolci smielati, le teorie universali, le musiche strepitose, tutto ciò che luccica, che fa chiasso e che splende.

Io che finora ho inutilmente cercato di entrare in contatto con l'anima di questo paese cercandola nelle cerimonie pubbliche e nelle confidenze dei personaggi, nelle aspirazioni politiche e nelle vicende economiche, nel tratto abituale dei suoi scrittori e pensatori, sento improvvisamente stasera nella malia di questa notte afosa dei tropici, dolce e pesante nel medesimo tempo – in mezzo alle esalazioni delle padelle, alla penetrante fragranza dei rhums, alla baraonda africana delle orchestre ed alla melanconia andalusa dei canti isolati, tra le espressioni tartarinesche degli uomini ed il languore levantino delle donne, tra la carne bianca e quella nera, tra quella mulatta e quella meticcia, in mezzo al gran profumo stordente degli ananas e delle toronjas, dei mango e dei guayabo – e sento finalmente la poesia di questa terra delle Antille che ha commosso nei secoli tanti poeti e fatto vibrare tanti cantori, che ha sedotto tanti naviganti, che ha effeminato tanti pirati, che ha smorzato negli incroci tanti uomini d'arme e di conquista.

Poesia dolce e sottile. Fascino voluttuoso ed un po' torbido. Amore della famiglia. Amore della donna. Amore della vita. E su questo triplice sfondo d'amore, guizzano tante fiammelle di ambizione e d'odio che rappresentano il retaggio lasciato nei cuori e nelle pupille dai grandi conquistatori che avevano l'anima di Pizarro, dai Capitani generali ed ammiragli delle Indie, dai formidabili pirati delle Antille che trafficavano la carne umana e si battevano per le bandiere dei monarchi e delle religioni di Europa, dai preti fanatici dell'Inquisizione, dagli innumerevoli Don Chisciotti e Baiardi dell'indipendenza cubana.

Il ritmo della marimba sposato con le note mediterranee della chitarra di Valencia e con lo strambo toc toc dei tamburi caraibici, esprime squisitamente l'anima meticcia di questa terra tropicale nella quale il destino ha fuso latini, africani ed indios, perchè formino la nuova razza bianca della zona torrida.

Nella piazza delle frittelle di Miramare c'è un po' di Mediterraneo, un po' d'Africa nera, un po' dell'India storica alla quale approdò la caravella del Grande Almirante.

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