TRA CIABATTINI ED OREFICI

— Scarpe! Chi ha scarpe! Scarpeeee!

Ogni mattina quando esco dalla mia casa del Vedado per gironzolare un po' tra le villette e le palme dell'aristocratico quartiere, incontro immancabilmente qualcuno con un paio di scarpe in mano e un sacco sulle spalle che fa la medesima mia strada punteggiando il suo andare con la cantilena:

— Scarpe! Chi ha scarpe! Scarpeeee!

Mi sono così abituato a quest'incontro che quando per caso una mattina il mio uomo non c'è, mi pare che mi manchi qualche cosa. Fa parte del paesaggio. Ma, meno la domenica, l'uomo c'è sempre e, quando meno me l'aspetto, sento il suo ritornello che sveglia i silenzi dei giardini pieni di sole e lo vedo spuntare da una via traversa o escire da un cancello accompagnato da una servetta.

— Allora dopodomani! – dice la servetta.

— Dopodomani! – risponde l'uomo. Caccia giù nel suo sacco un paio di scarpette femminili o di scarponi maschili e riprende la sua strada.

A quell'ora le strade del Vedado sono quasi deserte. Le palme cocco stagliano sui marciapiedi assolati i loro fusti e l'ombra raccorciata dei loro ventagli. Qualche automobile aspetta dinanzi al cancello di una villa. Qualche giardiniere nero inaffia le aiuole di un giardino. Qualche serva mulatta sprimaccia col battipanni un materasso fuori da un balcone. Il sole formidabile di Cuba imprigiona la gente nelle case e i soli passanti sono i cinesini col loro carretto da fruttivendolo che si fermano di porta in porta a vendere banane ed ananas od il camion del ghiaccio che scarica enormi parallelepipedi di cristallo dinanzi agli usci e per un momento empie gli occhi del viandante di lucentezze polari che fanno più opprimente la canicola cubana.

L'uomo delle scarpe non è sempre lo stesso. Cambia anzi spesso, ma è sempre un bel tipo di uomo giovane, bruno, bassotto, con gli occhi neri e la pelle ulivigna, un po' rustico, ma simpatico, con un non so che d'arabo nel taglio degli occhi e nella linea della bocca. Una mattina che m'ero seduto sopra una panca a veder passare il funerale di un prelato cubano, ho domandato ad un conoscente occasionale chi fosse l'uomo delle scarpe. Un rigattiere ambulante? Un raccoglitore di scarpacce?

— No, mi ha risposto, è il ciabattino che va in giro a raccogliere le scarpe rotte e le riporta dopo uno o due giorni risolate e messe a nuovo.

Mi sono detto dentro di me che i cubani sono proprio gente comoda. Non solamente hanno il fornaio, il lattaio, il macellaio, il pizzicagnolo, l'acquaiolo, il giornalaio, lo stiratore, il lavandaio, il farmacista che li servono a domicilio, senza che le fantesche di questo paese debbano pensare al mercato ed alle altre commissioni domestiche, ma hanno perfino il ciabattino che va di casa in casa a ritirare le suole sberciate. Due giorni dopo le mie scarpe di giramondo perdettero un tacco in una rotaia tramviaria – un tacco asiatico, rimbullettato in Africa e finito ingloriosamente in America! Quasi quasi n'ebbi piacere per il mio ciabattino. Feci il mio bravo involto ed al mattino seguente aspettai l'uomo.

— Scarpe! Chi ha scarpe! Scarpeeee!

— Eccogliene un paio, hombre, che hanno bisogno della clinica.

Sciolse l'involto, esaminò con occhio conoscitore la bacatura:

— Ottanta centavos! – fu la diagnosi.

— Quando saranno pronte?

— Dopodomani.

— Non me le potrebbe dare domani sera?

— Bisognerebbe che venisse a prendersele in Amargura 17.

Fu così che feci conoscenza con la nobile corporazione dei ciabattini italiani di Cuba.

Il numero 17 in Amargura è una bottega di apparenza rigidamente nord-americana con una scritta cubitale «Al Presidente Wilson» tra le fascie e le stelle della bandiera federale. Le pareti sono tappezzate con grosse pubblicità di lucidi da scarpe i quali si contendono il favore del pubblico a colpi di soli fiammeggianti, di lune, mezzelune, stelle, comete ed altre meteore. In una scansia sono in mostra le pile delle scatolette, bianche, nere, giallo tabacco, nocciuola, caffè, in mezzo alle quali qualche bottiglia di lucido liquido sta come un individuo dell'aristocrazia tra la plebe. Uno scaffaletto è riservato ai callicìdi ed alle specialità ortopediche per piedi dolci. Tre matassoni di lacci per scarpe, uno bianco, uno nero ed uno giallo, formano un triangolo simbolico contro un altro scaffalone, zeppo questo di scarpe, scarpini, scarponi, stivali e stivaletti, ognuno col suo bravo cartellino che indica nome, cognome e domicilio del relativo proprietario, nonché il numero di centavos che deve snocciolare per rientrare in possesso della propria calzatura.

Nel locale c'era un giovanotto bruno nel quale mi parve di riconoscere uno dei miei amici canterini del Vedado. Una parete a vetri divideva la bottega dal retrobottega nel quale una ventina di ciabattini era occupata a lavorare, quattro per deschetto, intorno ad una lampadina elettrica col paralume verde. Uno pestava, l'altro imbullettava; uno impeciava, l'altro tirava la lesina; uno batteva, l'altro trinciava. Grossi rotoli di cuoio erano appoggiati alle pareti. Una tomaia marciva in una catinella. L'ambiente aveva quel caratteristico odore di suola bagnata, di cera e di vernice che è proprio delle cappelle di San Crispino.

Il mio famoso tacco era ancora sul banco operatorio e l'attesa mi ha valso una interessante conversazione col giovane della bottega, dal quale ho saputo che non solo tutti i lavoranti erano italiani ma che tutti i ciabattini d'Avana sono per tradizione italiani.

— I ciabattini per bene! – ha precisato il mio interlocutore. – Siamo trecentocinquanta. Tutti italiani, anzi tutti calabresi, anzi tutti di un sol paese delle Calabrie, di Castrovillari.

— Tutti di Castrovillari?

— Tutti. Si viene quaggiù di padre in figlio, dopo il servizio militare; ci si sta in media dai cinque ai sei anni; poi si torna al paese e ci si sposa. E vien giù un altro, un fratello minore, un cugino od un altro parente. Con le economie che ognuno realizza durante la sua permanenza a Cuba mette su casa e contribuisce anche ad un fondo di previdenza.

— Ma ci sono molti calzolai a Castrovillari?

— Veramente noi a Castrovillari non siamo in genere calzolai ma contadini e quando si torna al paese si ritorna alla terra. Questa delle suole è una parentesi cubana. Una tradizione! Incominciò col venir giù uno di Castrovillari e fece il ciabattino. Mise su bottega e fece buoni affari. Lo chiamavano «l'italiano». Dopo di lui ne vennero altri e poi altri ancora ed ora siamo in media dai trecento ai quattrocento, secondo le annate.

— Già quando l'annata è buona venite in più.

— Al contrario quando l'annata dello zucchero è buona veniamo in meno perchè la gente butta via con maggior facilità le scarpe rotte. Quando l'annata dello zucchero è cattiva, è buona invece per noi.

— E quanto riuscite ad economizzare in questi cinque o sei anni?

— Dipende! Ma un quattro o cinquemila dollari si raccapezzano. E sono sufficienti per un tocchetto di terra al paese. Pian pianino sgretoliamo così il latifondo del circondario.

— E nessuno resta qui?

— Nessuno. Abbiamo una specie di regolamento. Dopo sei anni tocca ad un altro. E guai a chi non si porta bene! Lo rimbarchiamo subito. Abbiamo un nome e ce lo vogliamo conservare. Lavoro accurato e consegna puntuale. Soprattutto onestà. La gente ci dà le sue scarpe senza conoscerci e senza ricevuta perchè da venticinque anni riceve regolarmente indietro le scarpe accomodate senza un caso di mancanza. Gli anziani controllano i più giovani e questi debbono obbedienza a quelli. Viviamo decorosamente nel quartiere Pavoloni. Ogni dieci una casetta. Uno per turno fa la cucina per i compagni. La sera a letto presto. Il sabato sera cinematografo ed un po' di chitarra. A Natale ed a San Bruno una festicciuola. Ognuno ha la fidanzata ed i genitori che lo aspettano al paese e cerca di non far avere a Castrovillari cattive notizie sulla sua condotta.

I bravi ciabattini mi hanno invitato a visitare una domenica una delle loro casette e mi hanno anzi offerto una colazione calabrese in piena regola. Ho riassaggiato così dopo molti anni il pecorino col pepe di Cosenza, ho fatto onore ad un cestello di fichi secchi di Cotrone coi semini di finocchio ed abbiamo brindato alla patria lontana con un autentico «rosso di Sant'Eufemia», generoso come un cavallo da corsa.

Modesti ciabattini erano i miei compagni di tavola, ma la fraternità italiana non ha differenza di professione e alla tavola di questi laboriosi e bravi ragazzi delle Calabrie io mi sentivo in mezzo a buoni italiani che hanno le sane qualità fondamentali della razza ed hanno costantemente in cuore l'immagine della patria. La modesta economia di cinque o seicento dollari che ognuno di essi realizza in capo ad un anno, estesa a trecento cinquanta persone, si traduce ogni anno in alcuni milioni che entrano in Italia, senza che questo ingresso di denaro comporti una perdita di linfe per la razza, perchè i bravi ciabattini tornano regolarmente a Castrovillari a far famiglia ed a fabbricar altri piccoli italiani, i quali non è detto siano destinati anch'essi a risuolare le scarpe dei cubani, soprattutto ora che l'Italia fascista ha affrontato con abbondanza di mezzi e fermezza di propositi la valorizzazione economica della forte e fedele Calabria.

I ciabattini mi hanno fatto conoscere un'altra tipica categoria di emigranti nostri: i venditori ambulanti di gioielleria ed oreficeria. Si tratta di un'altra istituzione! Questi in numero di circa trecento sono anch'essi tutti di un sol paese, di Padula, in provincia di Salerno. Vengono qui di padre in figlio per un certo numero di anni e si sono specializzati nella vendita a rate di orologi e gioielli ai contadini dell'interno, specialmente ai coltivatori di canna da zucchero, ai piccoli produttori di tabacco, ai bottegai dei villaggi.

Si tratta di un lavoro di fiducia che è basato sopra oltre un trentennio di onesta attività commerciale ed è un lavoro che richiede anche qualità non comuni, specialmente coraggio per avventurarsi con un carico prezioso in mezzo alle campagne dell'isola, avvedutezza nello scegliere con chi si ha da fare e una certa abilità per vincere la naturale taccagneria del contadino. Gran parte della merce che vendono è importata dall'Italia.

Ho conosciuto uno di questi girovaghi salernitani nelle campagne del Camagüey, in una zona lontana dalle ferrovie. M'ero fermato in una taverna criolla a far due dita di colazione e trovai il mio uomo dinanzi ad un rispettabile piatto di riso alla cubana, infiorato di banane fritte e di peperoni arrosto: una vera leccornia locale! Il mio orefice ambulante ha un cognome quasi storico. Si chiama infatti Nicòtera. Un bel tipo di meridionale, v'assicuro, ben piantato, baffi alla Caruso, cinque anelloni fiammeggianti ai due mignoli. Chiacchierava e pontificava che si sarebbe detto un pezzo grosso del luogo. L'oste ed i garzoni stavano a sentire l'oracolo a bocca aperta. Parlava di donne, di politica, di arte, di zucchero, di tabacco, di terreni, di speculazioni fondiarie. E tra un boccone e l'altro di riso trinciava giù sentenze, mentre con la forchetta ingemmata dal mignolo inanellato faceva saltare destramente nel piatto le banane fritte ed i peperoncini arrosto, in modo che ad ogni boccone di riso corrispondesse un toccherello di banana ed un quarto di peperoncino.

Quando fu al corrente della mia nazionalità piantò l'oste ed i garzoni per raccontarmi gli affari suoi, di Avana e di Padula. Si vedeva dalla sua maniera di parlare che era tutt'altro che un imbecille ed io pensavo dentro di me che le belle contadinotte del Camagüey debbono resistere con difficoltà alla parlantina affascinante del salernitano quando egli tenta la vanità della rustica Eva con un bel paio di orecchini d'oro filogranato, pagabili a un tanto al mese.

— In fondo, – mi diceva, – io sono un benefattore della provincia! Molti di questi bifolchi che si rosolano al sole tutto il giorno in mezzo alle canne ed alle foglie di tabacco debbono al sor Nicòtera se la sera tornando a casa sono accolti con dolci moine ed affettuose carezze dalle loro legittime consorti le quali hanno da strappare con le buone maniere il consenso maritale per l'acquisto di una catena col medaglione della Virgen del Cabro. Non le pare? Ognuno di noi ha la sua clientela ed è al corrente di tutto il movimento della provincia: nascite, battesimi, fidanzamenti, matrimoni, eredità, vincite alla lotteria, vendite, compere, buoni raccolti. Sappiamo chi ha soldi e chi non ne ha, chi vuole e non può, chi può e non vuole, chi ha l'amante e chi sta per farsela. Bisogna saper fare, saper parlare, sapere con chi si pratica, insomma conoscere i polli ed i pollai ed anche tener d'occhio la faina.

Chiacchierammo del più e del meno, poi il Nicòtera guardò l'orologio.

— Debbo essere alle cinque in una finca che è abbastanza lontana. A ben rivederla, signor giornalista, in qualche strada di Cuba od a Padula. Domandi di Nicotèra, il cubano! Mi conoscono anche i cani.

S'alzò, distribuì generosamente una dozzina di strette di mano con la signorile liberalità di un feudatario, raccomandò all'oste un rhum di Haiti – il migliore del mondo – ed a uno dei garzoni un orologio da polso – la migliore fabbrica del mondo – sciolse la mula, montò in sella e s'allontanò per lo stradone polveroso canterellando «la donna è mobile...».

Quando lui fu partito la taverna sprofondò in un silenzio sonnacchioso.

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