QUATTRO PROFILI D'EMIGRANTI

Emigranti? Sì, qualunque italiano che, nel fiore della giovinezza, ha lasciato la patria per cercare fortuna nel vasto mondo è un emigrante, sia che abbia fatto il suo primo viaggio come passeggero di classe o come passeggero di coperta o magari come ospite clandestino nascosto nelle carbonaie. Sempre egli è stato spinto fuori delle frontiere dalla ristrettezza della sua patria ed ha obbedito ad una voce misteriosa che lo chiamava verso orizzonti più ampi e strade meno ingombre.

Emigrante! Titolo di nobiltà che prima dell'avvento del Fascismo non era quotato nell'araldica della nazione, ma che oggi è riconosciuto dalla nuova Italia la quale sente la grande tragedia della stirpe e mentre apprezza quelli che hanno saputo farsi largo in mezzo alle folle del mondo non misconosce gli altri che, meno fortunati o meno abili, sono rimasti schiacciati sotto il peso del loro triste destino d'emigrante.

Emigranti! Fratelli che son partiti per l'oltre mare nel fiore della vita col semplice patrimonio del loro coraggio e della loro speranza; che hanno sofferto la pena del distacco dalla casa e dalla mamma; che si sono strappati a tutte quelle cose care e dolci che formano il tiepido nido d'ogni essere che nasce; che hanno patito le torture lente ed atroci della nostalgia; che si sono sentiti soli ed abbandonati a sè stessi in mezzo a gente straniera di cui non parlavano la lingua e di cui sovente non concepivano neppure le abitudini; che hanno incominciato in genere l'esistenza dagli ultimi gradini, in una atmosfera di dramma, tra difficoltà e sacrifizi, tra ostilità ed indifferenze, incalzati dalla necessità, malmenati dalla concorrenza, ostacolati dal favoritismo, spesso insultati per la loro stessa nobile miseria, quasi sempre sfruttati per la loro condizione di stranieri bisognosi di pane e di lavoro.

Erano i figli senza madre. 1 bastardi dell'internazionalismo. I cavalieri della Miseria. I Krumiri del proletariato. I cinesi della razza bianca.

La patria li lasciava andar via. Se a volte la nazione palpitava per la loro sorte, si trattava dell'emozione di un istante. Il flotto continuava a travasare ogni anno ed il paese pareva abituato a lasciarsi svenare. S'aveva quasi l'impressione che l'Italia ignorasse questa sua formidabile piaga. La Madre vedeva andar via i suoi figli ad occhi asciutti. La letteratura che spulciava le tende dei salotti, non cercava i personaggi dei suoi romanzi e dei suoi drammi in mezzo ai cenci dell'emigrazione, quasi che quegli stracci non facessero parte dello scenario della nazione. La politica che rifuggiva dai problemi formidabili ignorava questa massa che espatriandosi non pesava nei ludi elettorali. Gli emigranti italiani non erano solo i paria dell'Argentina, del Brasile, dell'Australia, degli Stati Uniti. Erano i paria dell'Italia medesima. Solo l'Italia fascista ha sentito la tragedia ed ha detto: Basta!

E gli emigranti non si sono dimenticati della patria lontana! Ed hanno continuato ad amarla! Ed hanno partecipato con dolore alle sue pene, con gioia alle sue fortune! Ed hanno risposto col sangue dei loro figli e con l'oro dei loro risparmi al richiamo della Madre! Emigrante! Nobile e santa figura d'italiano alla quale la patria erige un grande altare nel cuore delle nuove generazioni. Oggi l'emigrazione italiana si è costituita in America e negli altri paesi una piattaforma di patrimoni e di interessi che assicura alla massa degli emigranti una dignità sociale ed un valore economico d'importanza considerevole, ma venticinque, trent'anni fa gli emigranti italiani erano solo un gregge che andava per le vie del mondo. In mezzo a questo gregge d'allora scelgo quattro profili che hanno per sfondo la regina delle Antille.

Oreste Ferrara. È uno dei tanti emigranti d'Italia. Frequentava l'università di Napoli in quell'epoca nella quale la gioventù borghese della vecchia capitale partenopea affollava le aule universitarie per ambizione di un titolo accademico che schiudesse le porte dell'avvenire. Era una generazione piena di intelligenza vulcanica per la quale il respiro politico-economico della patria da poco costituita e governata da piccoli uomini di provincia era troppo angusto. Non c'era posto per tutti. E la forza rigogliosa della natalità aumentava i concorrenti. Le sirene d'oltremare invitavano i più animosi. Oreste Ferrara fu fra quelli.

Era una sirena rivoluzionaria che chiamava a raccolta i giovani d'ardimento sui campi di battaglia dell'indipendenza greca. Il giovane avvocato napoletano iniziò la sua carriera come garibaldino dell'insurrezione di Candia. Poi, deposto il moschetto del volontario, partì per Nuova York che offriva allora ai contadini d'Europa le praterie del Far West e le miniere della California. Il neo avvocato poteva partire come tanti altri per le zone ancora incolte degli Stati Uniti, dove avrebbe potuto trovare la morte per inedia o diventare magari grande fabbricante di carne in scatola. La causa di Cuba che lottava allora per la sua indipendenza lo attrasse. Fu ancora una volta garibaldino. Sbarcato con pochi compagni nelle foreste della grande Antilla si distinse per intrepidità nel pericolo, impeto nei combattimenti, resistenza fisica alla fatica, soprattutto per il fascino che esercitava sugli altri e per l'intelligenza con cui conduceva a termine le missioni più difficili.

Uno dei capi della rivoluzione cubana, il Gómez, lo volle presso di sè e dopo il trionfo della rivoluzione gli affidò un incarico di fiducia nella provincia di Santa Clara. Si sviluppò così la carriera romanzesca di questo napoletano. Deputato al parlamento cubano, sovrasta tutti i colleghi per grandezza d'ingegno, splendore d'eloquenza, solidità di cultura, fermezza di carattere, slancio ed abilità nel dominare la lotta politica. Eletto presidente della Camera ne dirige i lavori per dodici anni consecutivi acquistando nel paese tale popolarità che avrebbe potuto essere eletto per acclamazione di popolo Presidente della Repubblica se l'essere nato a Napoli non gli interdicesse, per un articolo della Costituzione, la suprema magistratura.

Avvocato principe, grande finanziere, professore universitario di diritto pubblico, giornalista, scrittore, tribuno, rappresentante della Repubblica all'Aia ed a Ginevra, possessore di una fortuna personale valutata in diversi milioni di dollari sulla quale anche gli avversari politici non hanno nulla da dire, Oreste Ferrara occupa oggi uno dei posti più delicati della politica cubana, quello di ambasciatore a Washington, cioè di rappresentante e difensore della sovranità di Cuba presso la grande Repubblica che minaccia col suo imperialismo tutti i paesi del Centro America e che ha già sull'isola una ipoteca diplomatico-economica di notevole gravità.

Oreste Ferrara non è fascista e non si può fargliene un aggravio, trattandosi di un uomo politico e di un ambasciatore di Stato straniero. Beneficiario di una legge che riconosce la nazionalità cubana ai rivoluzionari della guerra d'indipendenza, Oreste Ferrara non ha mai rinunziato ufficialmente alla nazionalità italiana. Qualsiasi iniziativa italiana lo ha trovato sempre pronto a rispondere con animo generoso. Innumerevoli italiani sono stati aiutati da lui. Massone della massoneria americana, liberale del liberalismo americano, leader anzi per lungo tempo del partito liberale cubano, egli non ha rinunziato a tutto il suo passato dottrinario e politico, però non ha mai voluto entrare nelle schiere antifasciste che hanno più volte sollecitato il suo appoggio. Ufficialmente egli dichiara di considerare il governo fascista il governo legale dell'Italia, accettato dalla nazione, ratificato dalle Camere, prescelto dalla Corona ed a questo concetto ispira la sua condotta. Di fatto egli ha troppa sensibilità e troppo ingegno per non rendere omaggio all'Uomo ed alla dottrina che hanno salvato l'Italia dal baratro e l'hanno avviata verso la grandezza. Il magistrale discorso che questo principe dell'eloquenza pronunziò a bordo della nave Italia, alla presenza dell'ambasciatore fascista S. E. Giuriati, fu un gran grido d'italianità che commosse quanti l'ascoltarono. L'eco non ne è ancora svanita nel cielo luminoso di Cuba.

La situazione di Oreste Ferrara di fronte all'Italia è quella di un buon italiano che è fiero della sua patria ed onora all'estero la sua razza. I vari Salvemini non sono riusciti a rimorchiare quest'uomo di grande ingegno sul quale Nitti aveva fondato chissà quante speranze!

Aldo Baroni. Emiliano. Studente universitario anche lui partecipò alle lotte politiche dell'Emilia contro i socialisti dell'onorevole Berenini. Implicato in vicende di sapore squadrista e soffocato dalla concorrenza professionale nel Parmense, emigrò nel Venezuela, poi a Cuba e per ultimo nel Messico dove, entrato nel giornalismo, si distinse ben presto fra i polemisti più battaglieri. La rivoluzione di Carranza lo trova capo di Stato Maggiore dell'esercito rivoluzionario, ma gli orrori della lotta politica disgustano la sua anima italiana che anche nella contesa di parte vuole un certo stile ed il rispetto delle leggi elementari di umanità.

Ritornato a Cuba si getta a capofitto nella battaglia giornalistica. Espulso dall'Isola per una campagna violentissima contro la corruzione della vita amministrativa, ritorna in Avana dopo la caduta del governo avversario e vi si afferma giornalista di raro valore. Dopo aver fondato l'Heraldo dirige oggi uno dei più grandi quotidiani della Repubblica, El Pais.

Fascista e ricco d'italianità, Aldo Baroni contribuisce notevolmente con la sua opera quotidiana a controbattere la propaganda antifascista della stampa radicale ed a rendere sempre più amichevoli i rapporti italo-cubani. Rappresenta degnamente in Avana la nostra gente.

La lotta che questo connazionale – cresciuto ed educato in Italia – deve aver sostenuto non solamente per farsi strada in un paese straniero ma anche per acquistare una tale padronanza della lingua spagnuola da diventare una delle penne più brillanti e più mordaci del giornalismo centro-americano, questa lotta drammatica egli si compiace di riassumerla in qualche battuta di spirito. Ma chi lo ascolta la immagina. E stringe con vigore la mano del self made man che s'è fatto strada in terra straniera senza dimenticare la sua patria.

Ettore Avignone. Milanese. Frequentava la facoltà di medicina quando un amico residente a Buenos Aires lo invitò ad abbandonare il Naviglio per il Rio de la Plata. Erano quelli i tempi dell'emigrazione torrenziale verso l'Argentina. Lo studente Avignone riceve tra capo e collo una piccola eredità – sì e no quindicimila lire – che egli converte in chinino, cotone idrofilo ed altri medicinali e parte per l'Argentina. Durante otto anni batte le pampas come fornitore di prodotti farmaceutici e raggranella così una piccola fortuna con la quale ritorna a vedere el Domm.

Ma ormai l'oltremare ha sedotto l'ex studente e dopo un anno di soggiorno in Italia riparte per l'America. Si ferma questa volta alla Avana. Vi vive ormai da quarant'anni, durante i quali ha creato una forte Casa di commercio che è circondata dal rispetto generale per la sua serietà e correttezza. Possessore di una grossa fortuna, console onorario d'Italia da oltre dieci anni, uomo colto, distinto, stimatissimo in tutti i ceti sociali, l'Avignone è oggi un bel tipo di vecchio signore sull'ottantina ma ancora saldo in gamba che ostenta una testa fotogenica di senatore romano.

Eccellente italiano, egli incarna il tipo del vecchio lombardo laborioso che sa essere buon cittadino, buon commerciante, buon padre di famiglia.

Salvatore Peruso. Contadino siciliano partì da Catania cinquant'anni fa con un sacchetto sulle spalle ed un coltello in tasca. Era analfabeta. Oggi legge e scrive l'italiano, l'inglese e lo spagnuolo. Manovale in Tunisia, raccoglitore di gomma in Bolivia, cercatore di pozzi di petrolio nel Messico e cercatore d'oro in Alaska, il Peruso conosce i campi petroliferi messicani come la sua casa. Sa che cosa vuol dire dormire sulla nuda terra all'aria aperta, vagare per mesi e mesi in mezzo alle petraie sotto un sole ardente, in lotta perpetua contro gli indios ostili e contro i bandoleros bianchi più traditori e feroci degli indigeni. Sa il lungo tormento della fame in mezzo a sterminate solitudini e l'orrore della malattia quando si è soli sotto una tenda a migliaia di chilometri dalla patria. E la Morte sembra più terribile. Diverse Compagnie si sono arricchite coi pozzi che egli ha individuato. Il siciliano ha dovuto contentarsi delle briciole.

Le economie raggranellate durante venti anni di Messico gli hanno permesso di comperare sulla costa cubana una piccola piantagione che egli ha poi ingrandito. Vive lì patriarcalmente in mezzo ad un esercito di palme, insieme con la compagna della sua vita, una messinese figlia di un minatore morto per una esplosione di petrolio. Fervido fascista ha nell'atrio della sua casa un ritratto monumentale del Duce che deve essere il risultato di non so quanti ingrandimenti.

— Nel 1934, – m'ha detto testualmente il Peruso, mentre la vecchia moglie annuiva col capo – venderemo tutto e ci ritireremo in Italia.

— Perchè proprio nel 1934? – ho chiesto.

— Non ha detto il Duce che fra il 35 ed il 40 sarà un periodo di grandi avvenimenti? Mussolini non si sbaglia mai! Vogliamo essere per quell'epoca in patria.

E la buona moglie confermava col capo canuto le parole del compagno. Le sue mani rugose e tormentate avevano il blasone di un lungo lavoro.

— Non avete figli?

— Ne avevamo uno, ma è rimasto laggiù...

— Nel Messico.

— No, sul Carso.

Le pupille della vecchia madre italiana si stemperano improvvisamente in un tremor di lagrime.

— Abbiamo dato all'Italia ciò che avevamo di più caro, nostro figlio – aggiunse il vecchio – e se non c'era Lui il nostro sacrifizio sarebbe stato inutile.

Istintivamente guardai anch'io l'effigie pensosa del Duce che dominava la piccola casa dinanzi al grande azzurro del Mar dei Caraibi. E mi parve che una luce astrale illuminasse il volto dell'Uomo straordinario al quale milioni di italiani hanno eretto un altare nel loro cuore.

Le palme delle Antille sventagliavano la solennità della sera.

Share on Twitter Share on Facebook