Rigido sull'attenti Roberto Namura ascoltava il suo generale:
— La vostra bella condotta al fuoco durante i combattimenti sulla frontiera del Yunàm, l'alto ascendente che avete sulle truppe di colore ai vostri comandi, la facilità con cui avete appreso l'annamita, tutti i vostri precedenti di carriera hanno indotto il Ministero a promuovervi capitano per meriti eccezionali ed a designarvi per l'importante posto di addetto militare a Pechino. Sia il vostro colonnello che io, interpellati in questo senso dal Ministero, abbiamo dato in proposito parere nettamente favorevole. Benché personalmente mi dispiaccia di privarmi di un ufficiale serio e valoroso come voi che sarebbe stato assai utile in colonia, sono contento di sapere che la Francia avrà a Pechino, in un posto importante di osservazione e di controllo, un ufficiale francese sul quale può fare pieno assegnamento. Mia moglie vi prega di venire a pranzo da noi stasera, se non avete altri impegni. Sarò cosí lieto di stringervi ancora una volta la mano. Capitano Namura, vi rinnovo le mie congratulazioni ed i miei auguri! A che ora parte, domani, il piroscafo per Sciangai?
— Alle undici, signor generale.
Ed il capitano Namura era uscito raggiante dall'ufficio del comandante del Corpo di Armata di Saigòn.
Terminata la cena in casa del generale, Roberto non era tornato direttamente all'albergo ma aveva disceso la via Catinat, a quell'ora quasi deserta, e aveva preso per il molo del Belgio verso il grande porto fluviale. Voleva dare un piccolo addio intimo alla città. Tra la stagione delle piogge e la stagione dei calori Saigòn attraversava un mese di clima mite. La notte era tiepida e profumata. Un soffio lieve di vento agitava le foglie delle palme-cocco allineate con grazia disordinata lungo le sponde del Mekong. Nel silenzio si udiva lo sciacquio contro riva dell'ampio fiume che feconda col suo corso l'intera Cocincina. Il vento portava alle nari di Roberto un odore torbido e dolce: odore di fiori, di foglie, di spezie, d'oppio, di infinite cose vegetali ed animali che marcivano blandamente nell'immensa umidità della notte asiatica. Lungo una sponda del fiume stavano all'àncora i vapori d'Occidente: sull'altra sponda erano raggruppate le giunche indigene, quasi tutte cinesi. I vapori dormivano accanto ai moli ed alle boe, con le loro grandi sagome silenziose schiarate dai fanali regolamentari. Sulla prua di un vapore da carico olandese un cane latrava contro la luna che, smisuratamente ingrandita dall'umidità atmosferica, enorme, rossastra, pagliaccesca, bizzarramente dissimile dalla luna d'Occidente, ascendeva pigramente l'orizzonte. Qualche grido lamentoso di uccello notturno vagava per l'aria insieme a impercettibili brividi di canti e di violini annamiti. La Saigòn indigena covava nel silenzio delle capanne di paglia la sua insonnia febbrile. Sulle giunche pullulava la consueta animazione notturna di tutte le agglomerazioni cinesi. Il cinese ama star sveglio la notte. Quasi si direbbe che il sonno notturno gli faccia paura. Preferisce dormire di giorno, aiutato in questa sua maniera di vivere dalla sua capacità di dormire in qualunque momento, in qualsiasi posizione, in mezzo a qualsiasi chiasso. Le giunche affastellate a centinaia sull'acqua, l'una a ridosso dell'altra, vi formavano una specie di grande città galleggiante, caotica ed informe, schiarata fiocamente da poche luci rossastre. In mezzo alle alberature ed alle vele si vedevano andare e venire con agilità di scoiattoli e con furtività di giaguari innumerevoli forme bianche. La città galleggiante aveva una misteriosa vita notturna – fatta di commerci clandestini, di amori viziosi, di droghe proibite, di intrighi ovattati, di litigi felpati, di infinite combinazioni commerciali, di interminabili riti domestici – la quale si svolgeva tra i casseretti e le prue cornute, chiusa alla Polizia, equivoca, sorniona, formidabile, sovente al bando delle leggi ma sfuggente ad ogni legge. Lo sguardo di Roberto ne seguiva le vicende sull'acqua invisibile, tra le piccole luci fioche dei fanali fissi e dei lampioni vaganti... E ad osservare quell'attività incerta, nascosta, scivolosa, inafferrabile, priva di consistenza, priva di rumori, provava la curiosa impressione già risentita altre volte nell'alto Tonchino di indovinare il ritmo recondito, di capirne il senso nascosto, di penetrarne l'essenza intima, quasi che il suo spirito possedesse in proposito una speciale capacità di percezione. Era, del resto, quel suo misterioso senso della folla asiatica che aveva fatto la sua fama di ufficiale nei reggimenti annamiti ai quali era stato aggregato in colonia. Anche i suoi piccoli soldati dell'Annam avevano, come i barcaiuoli cinesi delle giunche, quello stesso indefinibile potere di adattamento agli spazi ristretti ed ai movimenti contratti. Potevano vivere in cento dove i soldati bianchi avrebbero vissuto a malapena in venti. Sentivano rumori che nessun altro riusciva a percepire. Sapevano mille cose che non si sapeva come giungessero fino a loro. E nell'apparente uniformità schematica della vita militare, ordinata ora per ora, regolata minutamente da squilli di tromba, avevano una loro intima esistenza collettiva che sfuggiva a qualsiasi controllo. Di notte, durante le campagne, i loro attendamenti finivano per formare una città sotterranea di aspetto equivoco. Varie volte, sul principio, Roberto aveva cercato di sorprendere i suoi uomini per vedere che diavolo stessero facendo sotto le tende, ma al suo avvicinarsi quell'attività sinuosa ed ambigua s'immobilizzava automaticamente quasi fosse congelata dal passo estraneo che s'accostava. L'ufficiale trovava tutto in ordine, tutto regolare, tutto a posto. Solamente gli uomini erano sempre svegli. I loro enigmatici occhietti obliqui accompagnavano i passi ed i gesti del tenente. Se provava a domandare a qualcuno perché non dormisse, ne riceveva risposte vaghe e senza senso oppure l'individuo si irrigidiva nella posizione regolamentare di rispetto senza aprir bocca. A poco a poco si abituò a lasciarli fare, e rispettare quella loro vita intima, facendo però sentire che la percepiva. Sapeva di essere amato dai suoi soldati annamiti piú degli altri ufficiali. Poteva far fare loro ciò che voleva. Egli stesso non sapeva spiegarsene il perché e lo attribuiva al fatto che si interessava delle loro cose, che cercava piú che possibile di comprenderne gli usi ed i sentimenti, che interpretava i regolamenti sullo sfondo della mentalità indigena...
Seduto sopra una delle panche del molo, Roberto rievocava la sua vita di guarnigione e di frontiera nell'alto Tonchino...
Un senso piacevole di pigrizia gli invadeva l'anima ed il corpo. Avrebbe voluto andarsene e tornare all'albergo per dormirvi qualche ora prima dell'imbarco, ma una forza indefinibile lo teneva sulla panca... Rimaneva lí, indolente, senza volontà, senza pensieri precisi, offrendo la fronte, il volto, le mani, le membra alla carezza tiepida della notte. Aveva l'impressione di respirare nell'aria qualche cosa di dolciastro e di oppiato che gli inzuccherava il sangue. L'Asia gli ravviava i capelli col suo soffio tiepido ed egli si abbandonava a quella carezza gradevole rilasciando sotto il tocco soave i muscoli, distendendo i nervi. A poco a poco, senza accorgersene, si addormentò sulla panca...
Nel sonno il suo corpo andò assumendo progressivamente quella bizzarra posa di abbandono raccolto che hanno gli asiatici quando dormono. Chi lo avesse osservato in quel momento, si sarebbe accorto che nel sonno il suo viso prendeva una fisonomia diversa da quella che aveva da sveglio. Le linee del volto si allentavano, si appiattivano, si scomponevano, si ricomponevano in un piano nuovo nel quale il naso aveva l'aria di ammorbidirsi, le palpebre di obliquarsi, i pomelli di venire in fuori e su tutto il viso affiorava un pò della fisonomia stilizzata di Budda.
Un indigeno che passava si fermò un istante a guardarlo. I suoi passi non facevano rumore. La sua ombra bianca sparí fra i tronchi dei grandi alberi... La Saigòn francese dormiva. La Saigòn annamita e la Saigòn cinese vegliavano silenziosamente. L'orologio del Palazzo del Governo batteva le ore......
Roberto si svegliò di soprassalto, tutto in sudore, il cuore un po’ ansante, con la piacevole e nello stesso tempo spiacevole impressione di essere stato baciato in quel momento da una bocca calda e sugosa che aveva sapienti le labbra e forte il fiato. Si guardò intorno. Nessuno! Sotto i grandi alberi nulla si muoveva. Nell'approssimarsi dell'alba anche la corrente del fiume s'era quetata. Tutte le foglie erano immobili. Il silenzio era torbido, pesante, immenso...
Il capitano si stropicciò gli occhi e rise nervosamente. Il vinetto della generalessa – pensò – era piú solido di quanto paresse! Vinelli del Reno! Leggeri e traditori come le donne di Strasburgo!
Era invece l'Asia che aveva baciato sulla bocca il bastardo tornato alle fonti della razza. Bacio incestuoso di donna: di madre, di femmina! Era un bacio che veniva dalla terra, dall'aria, dalle acque, dai campi, dai cimiteri, dalle gemme, dalle putredini e dai sudori del continente immenso... da tutto l'infinito imponderabile che è nell'atmosfera dei luoghi...
Pechino l'abbagliò.
La Legazione di Francia ebbe nel capitano Roberto Namura un addetto militare attivo e capace che nell'assolvimento del suo compito andava anche piú in là del suo dovere. Pechino ebbe nei suoi templi e nelle sue strade un innamorato il quale ricercava nelle lacche e nelle porcellane l'essenza della civiltà che le aveva plasmate. Il suo spirito interrogava gli edifizi imperiali, e gli edifizi imperiali gli rispondevano col linguaggio muto ma potente delle vecchie cose. La sua abitazione si riempí di lacche, di bronzi; di avori, di giade, di agate, di legni intagliati, di cuoi dipinti, di tutti quei piccoli oggetti d'Estremo Oriente nei quali i millenari figli di Han perpetuano i gusti e le forme dei secoli morti. Nella società frivola e corrotta delle Legazioni Roberto era uno studioso ed era un puro. I suoi colleghi lo consideravano un originale che prendeva sul serio la Cina ed i cinesi. Il suo ministro gli affidò vari incarichi delicati i quali valsero a mettere in luce la sua non comune qualità di conoscitore dell'Estremo Oriente e le sue brillanti doti di ufficiale colto e volenteroso.
Pechino col suo triplice cerchio monumentale di muraglie, con la sua imponente «Città proibita» dagli edifizi pieni di maestà e di armonia, con le sue Ville imperiali nelle quali le Dinastie hanno stilizzato la loro raffinatezza artistica e la loro concezione filosofica dell'esistenza, coi suoi innumerevoli templi di Budda e di Confucio che documentano le altezze speculative raggiunte dalla razza nelle sue epoche splendide, coi suoi magnifici giardini costruiti per la gioia degli occhi e per il godimento dello spirito, diverte l'occidentale distratto ma impressiona profondamente i temperamenti sensibili. L'orgoglio bianco è obbligato a riconoscere che lontano da Atene, da Roma, da Madrid, da Firenze, da Venezia, da Parigi, da Berlino, da Vienna, da Londra, da New York è fiorita nei secoli, su binari diversi dai nostri, una grandissima civiltà di essenza artistica, filosofica e politica la quale, per essere dissimile dalla nostra o almeno da essa immensamente lontana, non fu per questo meno eccelsa né è meno degna di rispetto. Per Roberto, educato nella casa materna e nel cerchio nazionalista delle Scuole militari francesi ad una visione ristretta e spesso miope dello sviluppo civile del mondo, Pechino fu una rivelazione. Il giovane capitano ringraziò il Caso di avergli permesso di contemplare da vicino questo altro aspetto dell'evoluzione umana. Attraverso Pechino l'Asia gli apparve completamente diversa da come l'aveva immaginata fino allora. Dalla contemplazione delle opere d'arte e dei templi passò all'osservazione della folla minuta nelle strade e nelle case, e s'accorse che in mezzo al generale disfacimento della vita cinese, sopra un grande fondo ripulsivo di sporcizia fisica e di dissolvimento morale sopravvivevano – intatti – principi etici di grande ampiezza, ordinamenti sociali straordinariamente elastici, sensibilità artistiche infinitamente delicate, tutto un complesso di valori spirituali immarcescibili nel tempo che sostanzialmente perpetuavano l'essenza dell'antica civiltà cinese nell'apparente caos di tutte le tradizioni e di tutte le energie. Vari dei rapporti del capitano Roberto Namura trasmessi a Parigi dal ministro di Francia richiamarono l'attenzione degli alti funzionari del Quai d'Orsay sulle idee originali e spesso ardite dell'addetto militare a Pechino. Secondo Roberto Namura, la Cina attraversava un semplice processo simultaneo di disintegrazione e di ricostruzione dal quale non sarebbe venuta fuori una nuova Cina, ma un complesso di nuovi Stati asiatici abitati da gente di razza cinese i quali, polarizzati intorno a Canton, a Nanchino, a Pechino, a Mukden, al Tibet, alla Mongolia, al Sikiang, magari a Tsingtao ed a Cion-king, si sarebbero sviluppati ognuno per proprio conto, con forme politiche e sociali differenti, alcuni nell'orbita del Giappone, altri nell'orbita dell'Occidente; e piú tardi, a evoluzione interna terminata, si sarebbero riattratti l'uno verso l'altro ed avrebbero finito per riunirsi in una grande confederazione di Stati cinesi semi-autonomi, orientata in senso nazionalista e imperialista tanto contro l'Occidente quanto contro il Giappone. I rapporti del capitano Namura esorbitando sovente dal campo militare sconfinavano nel terreno politico e diplomatico, documentando in chi li scriveva, accanto ad una costante preoccupazione degli interessi fondamentali della Francia, una sensibilità fuori del comune nel percepire e nel vagliare le situazioni dell'Estremo Oriente. I rapporti del giovane capitano insistevano sopratutto sui profondi rapporti politico-sociali esistenti fra la trasformazione incipiente della Cina e la trasformazione potenziale dell'India e quindi sulla particolare importanza politica delle regioni cinesi e indiane di frontiera tra la Cina e l'India come il Tibet, il Turchestan ed il Sikiang. In tutti i suoi rapporti il capitano era sempre piuttosto severo per il Giappone ed era considerato dal Quai d'Orsay tendenzialmente nippofobo. L'invasione della Manciuria da parte del Giappone fece sentire a Parigi l'opportunità di ringiovanire e di rinforzare tutta la sua organizzazione diplomatica d'Estremo Oriente. Da una seduta del Gabinetto venne fuori un cambiamento dell'intero personale diplomatico e consolare d'Asia. Il decreto relativo conteneva anche la nomina del capitano Roberto Namura ad addetto militare a Tokio.
La notizia giunse a Bordeaux come un colpo di fulmine sconvolgendo in pieno la vita tranquilla e ormai serena di Bianca che, l'anima cicatrizzata dal tempo, seguiva con amorosa fiducia la brillante carriera diplomatico-militare del figlio del quale era sempre piú orgogliosa. Un breve congedo concesso al nuovo addetto militare permise alla madre ed al figlio di trascorrere insieme un mese nella quiete della loro casetta di Bordeaux.
Durante trenta giorni Bianca ebbe Roberto accanto a sé, tutto per lei, come quando era bambino. Dopo cena, madre e figlio trascorrevano assieme la serata. Spesso Bianca si metteva al piano e suonava per quel suo figliolone adorato, che l'ascoltava religiosamente fumando sigarette su sigarette oppure era lui che raccontava alla madre le sue storie di caserma e di colonia e lei pendeva dalle sue labbra, felice di ascoltarlo, felice di sentirselo accanto, felice di potergli accarezzare maternamente i bei capelli neri, lucidi e fini. In quelle affettuose conversazioni tra madre e figlio, accanto al fuoco, mentre fuori fioccava la neve e rombavano i venti dell'Oceano in collera, si udiva ogni tanto pronunziata da Roberto la parola «Giappone» e ogni volta la madre ne risentiva un piccolo colpo al cuore. Qualche cosa di terribilmente vago le faceva presentire che il Giappone non avrebbe portato fortuna al suo Roberto, ma nascondeva la sua ansia perché sentiva che non avrebbe potuto affrontare l'argomento senza turbare la serenità del figlio. Nelle sue lunghe notti pressoché insonni, rimuginando dolorosamente quel suo pensiero fisso, Bianca aveva esaminato la situazione in tutti i versi ed aveva finito per concludere che qualsiasi allusione fatta all'idea che la tormentava, avrebbe potuto diventare nel cervello di Roberto uno di quei tarli roditori che pian piano trapanano il cranio. No, meglio valeva che lo lasciasse partire tranquillo, forte, sereno e sorvegliarne lo stato d'animo attraverso le sue lettere, pronta a intervenire col suo immenso affetto di mamma al piú piccolo segno di smarrimento. Non v'era altro da fare! Per incoraggiarsi, si faceva ripetere da lui quelle sue storie di caserma e di colonia nelle quali il suo temperamento di soldato e di francese si affermava nitido, vigoroso, tagliente, senza che nessuna ombra morbida ne appannasse la purezza.
Venne cosí l'ultima sera. Madre e figlio la trascorsero insieme nel vecchio salotto che li aveva visti uniti durante tanti anni. Seduti sopra quel loro divano turchino che ora incominciava ad impallidire per l'uso, madre e figlio si tenevano per la vita dicendosi le loro cose. Di tanto in tanto una pausa di silenzio interrompeva il loro conversare e si prolungava, triste, nella quiete della casa. Il vetusto orologio a pendolo della marchesa Bremont scandiva le mezz'ore e le ore...
Roberto ascoltava con commozione quella suoneria da cattedrale che gli rimescolava nell'anima i ricordi di infanzia... Era un vecchio orologio Impero di smalto giallo a fregi dorati, fabbricato a mano, stemmato dal blasone marchionale, sormontato da un giuoco di campane di bronzo che imitavano il suono dei Vespri all'«Ave Maria».
— Ho paura – diceva la madre – a vederti andare tanto lontano. Incomincio a invecchiare e vorrei saperti piú vicino. Sarei stata assai piú contenta se tu avessi rinunziato al posto di Tokio e fossi rientrato al tuo reggimento che fra tre mesi torna in Francia, destinato nientemeno che a Bordeaux. Che felicità sarebbe stata la mia averti qui durante tre lunghi anni, poter ricevere i tuoi amici, vivere un pò la tua vita di ufficiale. Che sogno per me! Un sogno troppo bello! Dio non ha voluto!
— Mammina, sai bene che rinunziare al posto di addetto militare, che è uno dei piú ricercati dagli ufficiali di tutte le Armi, sarebbe lo stesso che buttare a mare la mia carriera. Terminata la mia missione a Tokio ho la promozione a maggiore sicura ed il minimo che mi possono dare è il comando di un Battaglione coloniale in Cocincina o in Africa. Tu sei ancora giovane, mammina, e non ti mettere in capo idee nere. Del resto ti ho già promesso che l'anno prossimo ti farò venire in Giappone per tre, quattro mesi. Per te che ci sei già stata, deve essere interessante rivedere il paese e constatarne i cambiamenti. Le tue osservazioni ed il tuo giudizio potranno essermi molto utili. Anch'io sono curioso di vedere questo famoso Giappone del quale si parla tanto. Ho le mie idee in proposito ed ho il dubbio che ci sia una buona dose di bluff in quanto si scrive sulla sua potenza militare, sulla sua forza politica, sulla sua capacità industriale e sul suo potere fatale di espansione. In fondo i giapponesi mi sono piuttosto antipatici. E per quanto ciò possa sembrare strano in un discendente di giapponesi, sento cosí!
Il vecchio orologio Impero batteva l'ora. Il ritornello del suo carillon echeggiava mistico e sonoro nel silenzio della piccola stanza e si propagava attraverso i corridoi nel resto della casa oscura.
— Mamma, qual è la città del Giappone che ti piaceva di piú?
— Ma... forse Nara!
E la povera donna rivedeva Nara cosí come l'aveva vista trent'anni prima quando giovane sposa vi aveva trascorso un mese insieme al marito, donna innamorata e amata. Nara! Di Nara era il padre di Roberto. E forse a Nara doveva essere stato concepito Roberto stesso! A Nara od a Kioto. Nara! Kioto! Come suonavano amari per lei quei due nomi del suo passato di donna in quell'ultima sua sera di mamma!
— È bello, mamma, il Giappone?
— Sí! – rispose in un soffio la disgraziata, e improvvisamente un rigurgito di pianto le irruppe dall'anima, le arrivò con impeto agli occhi e prima che avesse potuto trattenerlo le sgorgò dalle ciglia...
Roberto prese la madre fra le braccia cullandola come una bambina... Le accarezzava i capelli, le asciugava le lagrime coi baci... E intanto, quei nomi lontani d'oltremare (Nara... Kioto...) gli solfeggiavano nell'anima... Nara! Kioto! Sentí, intenso, il desiderio di conoscere quelle lontane città d'Estremo Oriente nelle quali era vissuta sua madre... era vissuto suo padre... doveva essere vissuto anche lui nella misteriosa previta che ogni uomo ha nel profondo di coloro che dovranno concepirlo...
La notte era ben avanzata quando madre e figlio, esaurite dolcemente le loro effusioni, si ritirarono nelle rispettive stanze.
Erano tutti e due sotto le coltri in attesa del sonno: tranquillo il figlio, dolente la madre, quando il vecchio orologio sgranò il suo ritornello liturgico.
Ritmo di campane...
Piccola voce solenne nella quale era condensata la millenaria anima mistico-guerriera del vecchio Occidente glorioso...
Era per la madre la rassicurante parola del Dio cristiano... Era pel figlio un saluto dell'infanzia... Il figlio si addormentò con quella carezza nell'anima... A lungo, la madre tenne gli occhi aperti nel buio...