CAPITOLO IX.

ORA diciamo della virtù e del vizio, e dell'onesto e del brutto; perciocchè questi sono i segni ai quali drizzano le loro intenzioni quelli che lodano e quelli che biasimano. E avverrà, che dicendo di queste cose, chiariremo insieme quell'altre, per le quali siamo tenuti d'una qualche condizione in quanto al costume. Il che dicevamo dianzi, ch'era la seconda spezie di prova; perciocchè per una medesima via possiamo far degni di fede così noi come gli altri, in quanto alla parte d'esser virtuosi e da bene. Ma perchè suole avvenire d'avere spesse volte a lodare così studiosamente come senza studio, non solo un uomo, o un Dio, ma le cose inanimate, e degli altri animali qualunque si sia, bisogna ancora in queste cose pigliar le proposizioni nel medesimo modo che abbiamo fatto nel genere deliberativo. Sicchè diciamo ancora d'esse qualche cosa per modo d'esempio.

L'onesto adunque è quello, ch'essendo per sè stesso eliggibile, è anco degno di lode; o vero quello, ch'essendo bene, è anco dilettevole, perchè è bene. E se l'onesto è cosi fatto, di necessità segue che la virtù sia tale, perciocchè essendo bene, è laudabile. E la virtù (come credono alcuni) è una certa facoltà di produrre, e di conservar le cose buone, e di far molti e gran beni, anzi ogni bene in ogni cosa.

Parti della virtù sono giustizia, fortezza, temperanza, magnificenza, magnanimità, liberalità, mansuetudine, prudenza e sapienza. Ora è necessario che quelle virtù siano maggiori di tutte, che più sono utili agli altri; già che s'è diffinito, che la virtù è una facoltà di far benefizio; per questa cagione sopra tutti i virtuosi s'onorano quelli che son giusti e quelli che son forti; perchè la fortezza nella guerra e la giustizia ancor nella pace è utile agli uomini. Dopo questi sono onorati i liberali, perchè donano largamente, e non contendono del danaro, il quale è dagli altri sommamente appetito. E la giustizia è quella virtù per la quale ciascuno ha quel ch'è suo, e secondo la legge. E l'ingiustizia è quella per la quale usurpano le cose d'altri, non come comanda la legge. La fortezza è quella per la quale siamo abituati ne' pericoli a far opere valorose, come la legge comanda, e per la quale siamo ministri e difensori della legge. E la timidità è il suo contrario. La temperanza quella per la quale ci regoliamo ne' piaceri del corpo, come la legge comanda; e l'intemperanza il suo contrario. La liberalità quella di sovvenir coi danari, e la scarsezza il suo contrario. La magnanimità s'intende quella che fa gran benefizj, e la magnificenza quella che fa grandi spese. E gli oppositi loro sono la meschinità e la grettezza. La prudenza è quella virtù della ragione per la quale ci possiamo rettamente consigliare circa quei beni e quei mali, che di sopra si son detti, che appartengono alla felicità. E della virtù e del vizio e delle lor parti s'è detto universalmente abbastanza, per quanto si richiede alla presente materia. L'altre cose oneste non sono difficili a sapere. Essendo chiaro, che di necessità le cose che fanno virtù sono oneste: perciocchè a virtù sono ordinate; ed ancora quelle che dalla virtù son fatte; e queste sono così i segni come l'opere d'esse. E poichè i segni e gli altri tali effetti o passioni che procedano dal bene sono onesti; qualunque sono le operazioni della fortezza, o i segni della fortezza, o le cose che fortemente sono operate, è necessario che siano medesimamente oneste. Così quelle cose che son giuste, o giustamente fatte, sono ancor esse oneste; ma non sono già similmente oneste le passioni che procedono dalla giustizia; perchè in questa sola virtù non è sempre onesto quel che giustamente si patisce; anzi ai condannati è più vituperio di patir giustamente, che di patire a torto. E nell'altre virtù s'intende onesto ogni cosa, nel modo che s'è detto della fortezza. E quelle cose sono oneste che hanno per premio l'onore; e quelle che hanno per premio più tosto l'onore che il danaro. E delle cose che si eleggono a fare, quelle sono oneste, che si fanno per interesse proprio. E quelle che assolutamente son buone, come quelle che si fanno per la patria, non curando l'utilità di sè medesimo. E quelle che son buone naturalmente. E le buone non a sè particolarmente; perchè le buone a sè stesso par che si facciano per proprio interesse. E quelle che si sogliono accomodar più tosto ai morti che ai vivi; perchè quelle che s'accomodano ai vivi paiono più per nostro conto; e l'opere fatte da noi per conto d'altri; perchè hanno manco dell'interesse proprio. E il procurar bene l'altrui cose senza nostro profitto. E quel che s'adopera in benefizio de' benefattori; perciocchè è atto di giustizia a riconoscerli; e tutti i benefizj è la fine; perciocchè non sono per nostro conto. E le cose contrarie a quelle, delle quali ci vergogniamo, sono oneste; perciocchè ci sogliamo vergognare dicendo, o facendo, o volendo anco dire o fare cose brutte; come poetò Saffo, che dicendole Alceo:

Io te 'l direi ma per vergogna il taccio,

le rispose:

Sozzo pensier convien che il cor ti tocchi,

Poich'a mostrarlo fuor vergogna e tema

Ti son freno a la lingua, e velo a gli occhi.

Oneste ancora sono quelle cose, per le quali ci affanniamo senza paura; perchè quei beni che sono indirizzati alla gloria sono di questa condizione. E le virtù e l'opere di quelli che sono più eccellenti di natura sono maggiormente oneste; come quelle dell'uomo più di quelle della donna. E quelle che sono di più godimento agli altri che a sè; e per questa cagione il giusto e la giustizia è cosa onesta; e vendicarsi de' nemici più tosto che riconciliarsi con loro; perciocchè dall'un canto lo ritribuire è cosa giusta; e quel ch'è giusto è anco onesto. Dall'altro il non patir d'essere vinto, è cosa da forte. E la vittoria e l'onore sono nel numero delle cose oneste. Che quantunque non ci siano di profitto, sono nondimeno eliggibili, e dimostrano eccellenza di virtù. E le cose che si fanno per celebrar le memorie degli uomini; e di queste quelle che son maggiori, sono maggiormente oneste. E quelle che ci seguono dopo la morte; e quelle che sono accompagnate dall'onore. E le cose deliziose, e quelle che sono in un solo, sono più oneste; perchè sono più memorabili. E quel che si possiede senza cavarne frutto; perchè sono più da liberali. E le cose che sono proprie a questi o a quelli; e quelle che son segni delle cose lodate appo ciascuno, come in Lacedemonia il nutrir de' capelli; perciocchè era segno di libertà; non essendo facile a niuno in capelli far opera servile e non esercitare alcun'arte meccanica; perciocchè il non vivere ad altri è cosa da uomo libero.

E volendo così laudare, come vituperare, ci abbiamo a servire ancor di quei nomi, che confinano coi vizj, o con le virtù, in vece di quelli che n'hanno la propria significazione; come d'un cauto, dir che sia timido; d'un animoso, che sia insidiatore. Quando sia sciocco, chiamarlo buona persona; quando stupido, dirlo mansueto. Pigliando il nome di ciascuno da quel che li segue appresso; e volendo laudare, sempre verso il meglio, come quando uno è stizzoso e furioso, nominarlo semplice e libero. E d'uno arrogante dir che abbia del grave e del grande. Dando ancora il nome della virtù a quelli che trapassano i termini d'essa; come sarebbe a nominar forte, uno che fosse audace; e liberale uno che fosse dissipatore; perchè questo è un parer quasi comune, e uno inganno ragionevole; conciossiachè se uno si mette a pericolo dove non bisogna, tanto più parrà che vi si debba mettere per le cose oneste. E se uno è largo con tutti, parrà che debba essere ancora con gli amici; perciocchè far bene a ognuno è soprabbondanza di virtù. Dobbiamo considerare ancora appresso di chi si loda; perciocchè (come soleva dir Socrate) non è difficile lodar gli Ateniesi, tra gli Ateniesi. Bisogna dunque, secondo che l'uomo si trova, o fra gli Sciti, o fra i Lacedemoni, o fra i filosofi, dir cose che appresso di loro siano tenute degne d'onore, come se veramente fossero. E in somma ridur l'onorevole all'onesto; poichè l'uno par che sia vicino all'altro. Oneste sono ancora quelle cose, che si fanno secondo che s'aspetta a chi le fa; come sarebbe cosa degna de' suoi antecessori, e degna de' fatti passati; perciocchè felice e bella cosa è, d'andarsi avanzando tuttavia negli onori. O veramente saranno oneste, se si fanno fuor di quel che s'aspetta; quando si va migliorando, e facendo cose più degne; come se uno posto in buona fortuna fosse modesto; o uno sfortunato magnanimo; o uno ringrandito fosse diventato migliore, e più benigno. Della qual sorte sono quegli esempi detti innanzi, come quel d'Ificrate:

Che fui, che sono,

e quello del vincitor degli Olimpici:

Dianzi un vil pescator, ec.

e quel di Simonide in commendazione della benignità d'Archedice,

Ancor ch'ella fosse

Di Tiranni sorella, e figlia, e sposa.

E conciossiachè la laude nasca dalle azioni, e che sia proprio del virtuoso operar con proponimento; si deve tentar di mostrare, che colui che laudiamo abbia operato di suo consiglio. E per far che ciò paia, giova a dire che l'abbia fatto più volte. Onde che le cose, che s'abbattono a essere, e che per fortuna ci riescono, s'hanno a mettere, come se noi l'avessimo fatte con proponimento di farle; perchè quando raccontiamo d'aver operato molte cose, e simili, par che facciamo segno d'aver operato per virtù, e con proponimento. È la lode un parlare, che dichiara la grandezza della virtù. Onde che volendo laudare, bisogna dimostrare che le azioni di quelli che son laudati siano grandemente virtuose. E l'encomio è la celebrazion dell'opere fatte. L'altre circostanze poi, che v'intervengono, come sarebbono la nobiltà, e la disciplina della persona lodata, ajutano a far credere, che le laudi che le si danno son vere; perchè verisimil cosa è, che da buoni padri e buoni maestri vengano buoni figliuoli e buoni discepoli. E per questo è, che usiamo di celebrar quelli che hanno operato; essendo che le opere siano segni degli abiti; perciocchè loderemmo ancora quelli che non avessero fatto cosa alcuna, se credessimo che fossero tali. Oltre al laudare, il quale è un ringrandir la virtù, e il celebrare, ch'è de' fatti che nascono da essa; ci sono il chiamare altrui felice, e lo riputar beato; che l'uno e l'altro sono una medesima cosa fra loro: ma diversa dal lodare e dal celebrare. Che sì come la felicità, o la beatitudine comprende la virtù; così colui che felice, o beato vien chiamato, s'intende che in un medesimo tempo sia lodato e celebrato. Ma la laude e il consiglio hanno una spezie comune in fra loro; perchè di quel che ci serviamo in un loco per consigliare; in un altro, variando il modo del parlare, ci possiamo valer per celebrare. Sicchè sapendo quali cose sono quelle che s'hanno a fare, e di che qualità gli uomini debbono essere; delle cose medesime mutando, e rivolgendo la maniera del dire, ci possiamo valer per consigliare; come se si dicesse: Bisogna compiacersi, non di quei beni che ci vengono dalla fortuna, ma che consistono in noi medesimi. Questo detto vale per consiglio. Se si dice poi: Costui si compiace non di quei beni che la fortuna li porge, ma di quelli che procedono da lui stesso; questo serve per laude. Onde che volendo laudare, abbiamo a considerar quel che consiglieremmo; e volendo consigliare, quel che lauderemmo. Ma queste due forme di dire, è necessario che siano contrarie infra loro; perchè l'una va con la proibizione, e l'altra no. Bisogna ancora in questa pratica del laudare usar molte di quelle circostanze che danno accrescimento alle cose; come sarebbe a dire, che qualcuno fosse stato a condurre una cosa, o solo, o primo, o con pochi, o esso principalmente; perciocchè tutte queste si portano con loro dignità; e raccontare ancora, in che tempo, e con quale occasione il facesse; perciocchè servono a mostrare, che il fatto fosse maggiore che non s'aspettava. E che molte volte abbia fatto il medesimo, e sempre bene; perciocchè questo fa parer la cosa grande, e mostra che non sia stata fatta a caso, ma per suo proprio consiglio. E così dir anco, se per conto di lui, o per riconoscimento del suo fatto si sarà trovato nuovamente, o instituito qualche cosa per incitare ed onorar gli altri che facciano il medesimo. O se sarà stato il primo ad esserne celebrato, come fu Ippoloco. E primamente onorato come furono Armodio e Aristogitone, ai quali furono poste le prime statue in corte. E così medesimamente dobbiamo fare ne' contrarj, volendo aggravare una cosa malfatta. E se quanto ai meriti di colui che si toglie a laudare, non avesse molto che dire; bisogna correre a compararlo con altri; come soleva fare Isocrate, per la pratica che avea nelle orazioni giudiziali. Ma la comparazione si deve fare a paragone di qualche persona famosa; perchè in questo consiste l'accrescimento e la dignità, che la persona laudata si faccia migliore di quelli che son virtuosi e da bene. E ragionevolmente questa amplificazione ritorna a laude, perchè è fondata nell'eccesso. E l'eccesso è tra le cose oneste. E per questo quando ben ci fosse da compararlo con persone famose; non si deve lasciar di far la comparazione con altri, poichè l'eccesso mostra di significar la virtù. In somma di queste forme comuni, che servono ad ogni sorte d'orazione, l'ampliazione è più appropriata al genere dimostrativo, perchè quelli che lodano, o biasimano, hanno per soggetto le operazioni che son chiare ed accettate da tutti. Onde che non accadendo provarle, non hanno dipoi bisogno, se non d'esser vestite ed ornate di grandezza e di bellezza. E come l'ampliazione al genere dimostrativo, così gli esempi sono appropriatissimi al deliberativo; perciocchè dalle cose passate pigliamo a giudicare quasi indovinando dell'avvenire. E gli entimemi sono più accomodati al genere giudiciale. Conciossiachè travagliandosi intorno al fatto, e dubitandosi della sua certezza, ha maggiormente bisogno, che se n'assegni la cagione, e si venga alla dimostrazione per provarlo. E fin qui abbiamo detto donde si cavano le lodi, e i biasimi quasi tutti; e a che dobbiamo mirare volendo lodare o biasimare. E donde si derivi il celebrare e il vituperare; perciocchè congiuntamente coi luoghi della laude, vengono dichiarati i suoi contrarj, e dai contrarj si cavano i vituperj.

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