MA poichè l'adirarsi è l'opposto dell'esser mansueto, e l'ira il contrario della mansuetudine; bisogna dichiarare come son fatti quelli che son disposti ad esser mansueti; con chi ci portiamo mansuetamente; e le cose per le quali veniamo a mansuetudine. Diciamo adunque che il tornare a mansuetudine sia il temperamento e l'acquetamento dell'ira. E se gli uomini s'adirano con quelli che li dispregiano, e se il dispregio è cosa volontaria; è manifesto che con quelli che non ci fanno dispregio alcuno, o non ce lo fanno volontariamente; o con quelli che ci pajon tali, saremo mansueti; e così con quelli che vogliono il contrario di quel che hanno fatto, e con quelli che contra loro stessi fanno il medesimo; perciocchè nissuno par che sia dispregiator di sè stesso. E con quelli che confessano e si pentono d'averlo fatto; perchè quel dolor che n'hanno ci mitiga l'ira, come se già n'avessero patita la pena. La qual cosa si vede nel castigo de' servi. Conciossiachè negando e contraddicendo li castighiamo più severamente. E confessando d'esser giustamente puniti restiamo d'adirarci. E la ragione di questo è, che il negar quel ch'è manifesto è sfacciataggine, e gli sfacciati dispregiano e stimano poco; perciocchè di quelli non ci vergogniamo de' quali poco ci curiamo; e con quelli che ci si umiliano e non contraddicono, perchè mostrano di confessare che sono inferiori, e gl'inferiori temono, e niun che tema dispregia. E che che l'umiltà plachi l'ira, lo dimostrano ancora i cani, i quali non mordon quelli che si gittano per terra. E con quelli che studiosamente attendono a quel che noi diciamo, o facciamo con istudio; perciocchè ci pare che siano studiosi delle cose nostre, e che non si curino poco di noi. E con quelli che ci hanno fatti maggior piaceri che dispiaceri; e con quelli che pregano e che si scusano, perciocchè s'umiliano; e con quelli che non sono oltraggiosi, nè beffatori, nè dispregiatori, o di una persona, o de' buoni, o de' simili a noi. Ed universalmente bisogna considerare le cose che recano a mansuetudine da' contrarj loro; e con quelli siamo piacevoli, de' quali abbiamo paura; e con quelli di chi ci vergogniamo; perchè in quel mentre che siamo così disposti, non ci adiriamo, per esser impossibile che in un medesimo tempo ci possiamo adirare e temere; e con quelli che l'hanno fatto per collera, o non ci adiriamo o ci adiriamo meno; perchè mostrano che non l'abbiano fatto per dispregio. E la ragione è, che nissuno adirato dispregia, essendo che il dispregio sia senza passione, e l'ira con passione. Nè manco ci adiriamo con quelli che si vergognano di noi. Quelli che sono in disposizione contraria all'adirarsi, è manifesto che son disposti a mansuetudine; cioè che si ritrovano in giuochi, in risi, in feste, in successi prosperi, in compimenti de' lor desiderj, e nella pienezza di tutti i lor bisogni. In somma in una vita piacevole, senza affanno loro, senza ingiuria d'altri e con onesta speranza. E quelli sono placabili che lungo tempo sono stati adirati, e de' quali l'ira non è fresca; perciocchè il tempo la mitiga. E se siamo adirati con due, cessa l'ira che abbiamo con quello che ci ha maggiormente offesi, quando ci siamo prima vendicati con quell'altro. E però Filocrate, quando il popolo era adirato seco, essendo domandato perchè non faceva la sua difesa; rispose saviamente che non era ancor tempo. Ed essendogli replicato: questo tempo quando sarà egli? soggiunse, quando vedrò prima accusato un altro; e la ragione è questa, che sfogata che abbiamo l'ira con uno, diventiamo più mansueti con un altro; come avvenne nel caso d'Ergofilo, col quale gli Ateniesi erano più fortemente crucciati che con Callistene, e nondimeno l'assolverono per avere il giorno avanti condannato Callistene a morte. Ci plachiamo ancora quando colui con chi siamo adirati, sia già stato convinto in giudizio. E quando ha patito più male che non gli avremmo fatto noi; perciocchè ne par quasi d'esser vendicati. Soffriamo ancora mansuetamente quando pensiamo d'aver mal fatto, e per questo non patire a torto; perchè l'ira non si risente in vendetta dell'offese ragionevoli, non ci concorrendo l'opinion più d'essere offesi indegnamente. Il che dianzi determinammo che fosse l'ira. E per questo bisognerebbe prima usare il castigo delle parole; perchè fino i servi così castigati sopportano più pazientemente. Cessa ancor l'ira che abbiamo quando pensiamo che la persona contra la quale ci vogliamo vendicare, non sia per sentire, nè per sapere che il mal che li facciamo sia per ricompensa dell'ingiuria ricevuta; perciocchè l'ira consiste ne' particolari, come si fa chiaro per la sua diffinizione. E però fu consideratamente poetato:
Dì, mi fe' cieco
Ulisse, che fece Ilio anco dolente.
Volendo fare che non si tenesse ancora vendicato se Polifemo non sapeva da chi, e per qual cagione era stato accecato. E per questo anco non ci adiriamo con altri, che in altro modo non sentono; nè con coloro che sono già morti, come quelli che hanno di già sofferto l'estremo di tutti i mali, e non possono più né dolersi, nè sentire; la qual cosa è quella che gli adirati desiderano. Onde ben dice il Poeta nel caso d'Ettore, volendo ritrarre Achille dall'adirarsi contra il suo corpo morto:
Foll'ira che procura
Oltraggio a tal, ch'è terra e più non sente.
È dunque manifesto che a quelli che vogliono placare altrui, fa mestiero di servirsi di questi lochi, cercando di recar gli auditori alla disposizion de' mansueti; e mostrar che quelli co' quali sono adirati sieno degni d'esser temuti o riveriti, o che abbiano fatto loro qualche benefizio, o che loro intenzione non fosse d'offenderli, o che si dolgono d'averli offesi.