CAPITOLO XXIII.

DEGLI entimemi confermativi un luogo è da contrarii; perciocchè bisogna considerare, se il contrario cade nel contrario, cioè, che chi riprova consideri se non vi cade, e chi prova se vi cade. Diciamo per esempio: che la temperanza è bene, perchè l'intemperanza è male. Come anco si dice nella Messiniaca. Se la guerra è stata cagione di questi mali, bisogna che la pace sia cagion d'emendarli. E come questo:

Che se dritto non è, ch'altri s'adire

D'offesa altrui, se non ci offende in prova;

Non si dee giovamento anco gradire

Di chi malgrado suo talor ne giova;

e quest'altro:

Che se 'l falso tra noi s'acquista fede,

Può ben esser un ver che non si crede.

L'altro luogo è da simili casi, o vero conjugati, cioè, dalle cadenze delle voci, come sono: giustizia, giusto, giustamente; perciocchè bisogna che il medesimo cada parimente in tutte queste voci. Come se si dicesse, che ogni cosa giusta è buona, perchè sarebbe anco bene quel che giustamente si fa. Il che non è sempre; perchè giustamente morire non si piglia per bene. L'altro è da correlativi; perciocchè se sarà che l'uno abbia fatto bene, e giustamente una cosa; sarà medesimamente che l'altro bene, e giustamente l'abbia patita. E se sarà stato lecito di comandarla, sarà anco stato lecito di farla. Come disse Diomedonte dell'entrate pubbliche, delle quali egli era appaltatore. Se non è vergogna a voi di venderle, manco è vergogna a noi di comprarle, e se sarà bene, e giustamente incontrato a quelli che hanno ricevuto, sarà bene, e giustamente incontrato a quelli che hanno dato; e se a quelli che hanno dato, ancora a quelli che hanno ricevuto. Ma talvolta in questa è nascosta la fallacia; perciocchè se giustamente è stato morto uno, sarà ben giustamente fatto morire: ma non sarà forse giusto che sia stato ammazzato da te. Imperò bisogna considerar partitamente, se colui che ha patito meritava di patire. E se colui che ha fatto lo dovea fare. E poi servirci di qual d'essi ci torna bene; perciocchè talvolta questi termini discordano fra loro. E non repugna in cosa alcuna che non possa essere: come si vede nell'Almeone di Teodetto, dove essendogli detto:

O, non era tua madre in odio al mondo?

Rispose di si. Ma che bisognava considerar la distinzione che ci si fa. E domandando Alfesibea: qual distinzione? soggiunge, dicendo:

Giudicata fu ben degna di morte,

Ma non degna però ch'io l'uccidessi.

E come fu il giudizio che si fece di Demostene e degli ucciditori di Nicanore; perciocchè essendo giudicato che giustamente l'uccidessero: fu anco tenuto che giustamente morisse. E come quell'altro di Timolao, che fu morto a Tebe, del quale fu comandato che si giudicasse, se meritava d'esser morto; come se volesse inferire, che non fosse contra giustizia d'uccidere uno che fosse degno d'essere ucciso. Un altro luogo è dal più, e dal meno, come a dire, se gli Dei non sanno tutte le cose, tanto meno le sapranno gli uomini; e questo è fondato sopra quella proposizione che dice: se dove più dovrebbe esser non è, nè anco sarà dove dovrebbe esser meno. Quest'altro poi, che maggiormente batterà il vicino chi batte anco il padre, vien da quell'altra regola, che quando sia quel che dovrebbe esser meno, sarà anco quel che dovrebbe esser più. E secondo questo luogo possiamo provare quel che più ci torna a proposito; o che sia la cosa, o che non sia. Evvi ancora un altro luogo dal pari, quando è qualche cosa nè più nè meno. E secondo questo è quel detto:

Orbo de' figli suoi

Sarà tuo padre misero, ed Eneo

Misero non sarà, che 'l suo perdeo,

Ch'era la gloria, e 'l fior de' Greci Eroi?

e così, se Teseo non fece male a rapire Elena, non fece anco male a rapirla Alessandro. E se Castore e Polluce non fecero ingiuria a Leucippo a tôr le sue figliuole, nè anco Alessandro ingiuriò loro a tôr la sorella. E se Ettore uccise giustamente Patroclo, anche Alessandro fece il dovere ad uccidere Achille. E se non son vili gli altri artefici; nè anco debbono esser vili i filosofi; e se l'esser spesse volte vinti non è vergogna ai Capitani, nè anco deve esser vergogna ai Sofisti; e se i privati hanno a tener conto della riputazion vostra, e voi dovete tener conto di quella de' Greci. L'altro è dalla considerazion del tempo; del quale si valse Ificrate nella sua orazione contra Armodio, quando disse: se avanti al fatto domandandovi io che voi m'onoraste d'una statua, in caso che il facessi me l'avreste concesso; ora che il fatto è seguito non me la concederete? Non vogliate dunque, aspettando il benefizio, promettere, ed avendolo ricevuto, dinegare. Con questo medesimo luogo si persuaderebbe ai Tebani che lasciassero passar Filippo nell'Ateniese, così dicendo: se quando avevate bisogno del suo ajuto contra i Focensi, egli avanti che il mandasse vi avesse richiesto di questo passo, non glie n'avreste voi promesso? disdicevol cosa è adunque, che per aver trascurato di mandarlo, e confidato di ottenerlo, ora non lo lasciate passare. L'altro luogo è, di rivolger quel che si dice di noi contra al medesimo che il dice. E questo modo è di molta forza, e ne abbiamo esempio nel Teucro. Di questo si servì Ificrate contra Aristofonte che l'accusava d'aver tradite le navi per danari. Egli rivolgendosi a lui: faresti tu (disse) un tal tradimento? e rispondendogli di no, soggiunse: tu dunque, che sei Aristofonte no 'l faresti, e l'avrò fatto io che sono Ificrate? Bisogna però che colui che accusa sia tenuto più per uomo da far quel male, che l'accusato, perchè altramente sarebbe cosa da ridere: come se ciò si dicesse contra Aristide, quando egli fosse l'accusatore. Ma quando l'accusatore non è creduto, allora si deve usare, perchè ordinariamente chi accusa, deve esser miglior di colui che si difende. Onde che questo bisogna sempre che l'accusato riprovi, cioè, che l'accusatore sia miglior di lui. Ed universalmente grande impertinenza fa colui che riprende gli altri, di quel che egli fa, o di quel che farebbe; o quel che non fa, o non farebbe, egli esorta che facciano gli altri. Evvi un altro luogo, dalla diffinizione; come a dire: che il Demonio non è altro che, o veramente Dio, od opera di Dio, e chi crede che sia opera di Dio, è necessario che creda ancora che Dio si trovi; e come fu quello d'Ificrate difendendosi da Armodio, che lo tacciava di viltà di sangue. Nobile (diss'egli) si deve chiamar colui, il quale è buono: perciocchè l'altro Armodio autore della tua nobiltà, ed Aristogitone suo compagno nulla aveano di nobile avanti che nobilmente operassero, ed io son loro più parente che non sei tu; perchè le mie azioni hanno più stretto parentato con quelle di Armodio e d'Aristogitone, che le tue. Di questa sorte ancora fu quello che si legge in difension d'Alessandro, che egli non dovea esser riputato incontinente poichè s'era contentato d'Elena sola. Conciossiachè incontinenti da tutti sarebbon chiamati coloro che non si contentano d'aver per godimento un corpo solo. E qui venne ancora il detto di Socrate, il quale chiamato e invitato con molti premj da Archelao, rifiutò sempre d'andarvi; e domandato dagli amici perchè lo facesse? perchè (disse) si resta ingiuriato a non poter rendere il cambio del bene, così come a non potersi vendicar del male. Perciocchè tutti questi, diffinito che gli hanno la cosa, valendosi della forza della diffinizione, concludono quello che vogliono dire. L'altro luogo è, quando si mostra in quanti modi s'intenda una cosa, come abbiamo detto nella Topica, di questa parola Drittamente. L' altro consiste nella divisione; come per esempio: se tutti gli uomini fanno ingiuria per tre cose; o per questa, o per quella, o per quell'altra; per le due prime è impossibile ch'io mi sia mosso, per la terza gli avversarj medesimi non lo dicono. L'altro viene dall'induzione, come è quello della Peparizia. Che le donne nel riconoscere i figliuoli per tutto sogliono determinare il vero; perciocchè in Atene dubitando Manzia oratore del suo figliuolo, la madre ne l'accertò. In Tebe stando in dubbio Ismenio e Stilbone, di qual di loro fosse figliuolo Tettalisco, la madre Dodone dichiarò che fosse d'Ismenio, e per tale fu sempre chiamato. Un altro tale esempio si cava dalla legge di Teodetto. Se a coloro (dice egli) che hanno cattiva cura dei cavalli d'altri, non diamo i nostri, nè le nostre navi a quelli che sconquassano l'altrui; e se questo medesimo s'osserva finalmente in ogni cosa, ancora noi, di quelli che sono stati mali guardiani altre volte della salute degli altri, non ci dobbiamo servir per guardia della nostra. Alcidamante con questo modo prova che tutte le nazioni onorano gli uomini savi. I Parj (dicendo) onorano Archiloco, ancora che fosse maldicente. I Chii Omero, con tutto che non fosse lor cittadino. I Mitilenei Saffo, per benchè fosse femmina. I Lacedemonj fecero Chilone del lor consiglio, quantunque si dilettassero molto poco degli studj. Gl'Italiani Pittagora. I Lampsaceni, Anassagora per forastiero che fosse onorarono di sepoltura, ed anco oggi l'hanno in venerazione. Con la medesima induzione si prova che tutte le repubbliche governate da' sapienti, sono state felici; perciocchè felici furono gli Ateniesi finchè usarono le leggi di Solone; felici furono i Lacedemonj, mentre vissero sotto quelle di Licurgo. E beata fu la città de' Tebani tosto che i filosofi cominciarono a governare. L'altro luogo è, da quello che s'è giudicato da altri, o d'una cosa medesima, o d'una simile, o d'una contraria. E massimamente quando sia così giudicato da tutti, e sempre: se non, almeno dalla più parte, o da' più savj; e di questi o da tutti, o da' più, o da' migliori; o che così sia stata giudicata altre volte, o da' medesimi giudici, o da quelli che sono approvati da loro. O da quelli contra al parer de' quali non si può giudicare, come i padroni. O da quelli a chi non possiamo onestamente contraddire, come sono gli Dei, il padre, i maestri; come contra Missedemide disse Autocle: Se le furie che son Dee, non si son gravate di comparire in giudicio avanti all'Ariopago, se ne graverà Missedemide, il quale è un uomo? O come disse Saffo, che il morire è una mala cosa, perchè così hanno giudicato gli Dei; che se ciò non fosse, morrebbero ancor essi. O come Aristippo contra Platone, il quale (secondo lui) asseverava non so che molto risolutamente: Oh quel nostro compagno non disse mai tal cosa, volendo dir di Socrate. Ed Egisippo servendosi dell'oracolo ha avuto prima negli Olimpj da Giove, comandò Apolline in Delfo. Se egli fosse del medesimo parer che il padre, come quello che giudicava, che fosse vergogna al figliuolo dir contrario di quel che il padre avesse detto. E come Isocrate scrisse d'Elena; ch'ella era da bene, poichè Teseo l'avea così giudicata. E come disse d'Alessandro, che dovesse esser sufficiente giudice delle bellezze; poichè per tale era stato innanzi a tutti eletto dalle Dee. E come d'Enagora disse il medesimo Isocrate, ch'era degno uomo, perchè Conone nella sua cattiva fortuna lasciando tutti gli altri, ricorse solamente a lui. L'altro si cava dalle parti, come nella Topica: se l'anima è moto, che moto è ella; questo, o quest'altro? Questo esempio è nel Socrate di Teodetto. Qual tempio ha egli violato? qual degli Iddii non ha adorato di quelli che la città tien per Iddii? L'altro da quel che ne seguita; perchè nella maggior parte delle cose accade, che da loro ne segue qualche bene e qualche male; e da questo bene e da questo male si piglierà materia di confortare, o disconfortare, d'accusare, o di difendere; di lodare, o di biasimare, come per esempio: dalla dottrina ne seguita invidia, ch'è male, e ne seguita la sapienza, ch'è bene. Per questo si può dire, che non bisogna studiar di sapere, perchè non è bene d'esser invidiato; e dall'altro canto, che bisogna studiare, perchè è bene d'esser savio. Sopra questo loco è fondata tutta l'arte di Calippo; con l'aggiunta del possibile e dell'impossibile, e degli altri luoghi comuni, che si son detti di sopra. L'altro pur dal conseguente, è, quando di due cose, e quelle opposite ci convien confortare e disconfortare una d'esse: e nell'un caso e nell'altro usarlo nel modo che s'è detto di sopra. Ma c'è questa differenza, che quello è fondato in due quali si sieno oppositi, e questo in due contrarj. Come si dice di quella Sacerdotessa, la quale non volendo che il figliuolo si travagliasse di far parlamento al popolo, disse: se tu dirai cose giuste, verrai in odio degli uomini: se cose non giuste, in odio di Dio. Anzi (rispose un altro) bisogna che se ne travagli, perchè se dirà cose giuste, n'acquisterà la grazia di Dio, se non giuste, quella degli uomini. Questo è tutt'uno con quel proverbio che si dice: comprare il mel con le mosche. Questa via d'argomentare si può chiamar da noi Ripiego. Quando, dati due contrarj, di ciascuno d'essi ne seguita il bene e il male contrarj l'uno all'altro. E perchè scopertamente non si loda quel medesimo che nel segreto, ma in palese si lodano per lo più le cose giuste e le buone, e privatamente si desiderano più l'utili; sarà l'altro luogo, che ci sforziamo di conchiudere l'un di due; perchè di que' luoghi, che ci servono a dir contra la comune opinione, questo è più accomodato di tutti. L'altro è dal venirne il medesimo in proporzione; come disse Ificrate di coloro che volevano astringere il figliuolo alle gravezze pubbliche per esser grande di persona, ancora che fosse giovinetto di tempo. Se giudicano che i fanciulli grandi sieno uomini, giudicheranno ancora che gli uomini piccioli siano fanciulli. E Teodetto nella sua legge: se fate cittadini i soldati mercenarj, come Strabacca e Caridemo per essere uomini da bene; de' medesimi mercenarj, non caccerete della città quelli che han fatto degli inconvenienti? L'altro è quando di due cose ne risulta una medesima; perciocchè quelle donde la medesima risulta, possiamo dir che siano le medesime ancor esse. Una medesima empietà (disse Xenofane) è di coloro che dicono che gli Dei son nati, che di coloro che dicono che moriranno; perchè d'ambedue queste opinioni risulta che qualche volta gli Dei non siano. Ed in somma bisogna pigliare quell'accidente che risulta dell'una cosa e dell'altra, per una medesima sempre. Sì come in difension di Socrate dicendo ai giudici: voi dovete considerare che il giudizio che si fa di costumi non è della sua persona, ma della sua professione, se abbiamo da filosofare, o no. E come sarebbe ancora a mettere in considerazione; che dar la terra, l'acqua, è il medesimo che servire; e che participare della pace comune, è come tutt'uno col far quello che ci si comanda. Bisogna dunque delle due cose che ne risultano, attaccarci a quella che tornerà meglio al proposito nostro. L'altro è dal non voler i medesimi sempre la medesima cosa, o prima, o poi, ma diverse cose in diversi tempi, come questo entimema. Se quando eravamo banditi, combattevamo per ritornar nella patria; ora che siamo ritornati ce n'andremo per non combattere? dove si vede la diversità dell'elezione: una volta di combatter per ritornare in casa, l'altra d'uscirne per non combattere. L'altro è, quando si può pensare che una cosa, o si faccia, o sia stata fatta per un effetto; dir che per quell'effetto fosse o sia fatta, ancora che non fosse così veramente. Come se si desse a qualcuno qualche cosa, dir che le sia stata data per fargli dispiacere a ritorgliene. Onde viene anco quel detto:

Ch'a molti nel salir fortuna è presta

Non per porgere aita, o tôrre affanno,

Ma perchè se più d'alto a cader vanno

Sia la ruina lor più manifesta;

e quel che disse Antifonte nel Meleagro, che alla caccia di quel porco,

Le genti d'ogn'intorno eran venute

Non per disio di prede,

Ma per far ampia a tutta Grecia fede

De la sua gran vertute;

e quell'altro dell'Ajace di Teodetto: che Diomede voleva Ulisse per compagno, non per la stima che ne facesse, ma perchè chi il seguitava fosse inferiore a lui. Perciocchè se ben Diomede non lo faceva con questa intenzione, si può però pensare che lo facesse. L'altro comune a' litiganti ed ai consiglieri, è di considerar le cose che hanno forza di persuadere o dissuadere; e quelle per conto delle quali gli uomini fanno, o fuggono di fare una cosa. Perciocchè quando ci son di quelle che persuadono, allora bisogna dire, o che sia fatto, o che si debba fare; come quando la cosa è possibile, quando è facile, quando è utile, o a sè, o a' suoi amici; o quando è nociva e dannosa a' nemici, o quando la pena è minore che non è il comodo, e il contento di farlo; perciocchè con queste cose si persuade, e con le contrarie a queste si dissuade; e con le medesime ancora s'accusa e si difende. Si difende cioè con quelle che hanno forza di dissuadere, e s'accusa con quelle che hanno virtù di persuadere. E questo luogo è tutta l'arte di Panfilo e di Calippo. L'altro è dalle cose che non sono credibili, e tuttavolta par che si facciano; perciocchè non mostrerebbono d'esser fatte, se non fossero, o non si facessero con effetto, o non si avvicinassero a farsi, ed anco più che se fossero credibili, perciocchè s'accettano o le cose che veramente sono, o quelle che sono probabili. Dunque se una cosa non è credibile nè probabile, sarà vera; perchè questo parer che si possa fare, non viene nè dal credibile nè dal probabile; ma dall'esser così veramente. Androcle Pitteo, accusando una legge, e levandosi il grido contra di lui, perchè diceva che le leggi avevano bisogno d'un'altra legge che le correggesse, disse: che ancora i pesci aveano bisogno del sale, se ben non parea verisimile, nè probabile, che bisogna il sale a quelli che son nutriti nel salso. E che l'olive nella lor concia aveano anco bisogno dell'olio, ancora che non sia credibile, che donde l'olio si fa, abbia d'olio mancamento. L'altro luogo è buono a confutare, e viene dalla considerazion delle cose che ripugnano, da qualunque cosa la ripugnanza si cavi; discorrendo per tutti i tempi le azioni, e le parole, o solamente dell'avversario, come per esempio; egli dice d'amar la libertà vostra, e nondimeno ha congiurato con i trenta tiranni contra di voi; o solamente di sè stesso, come a dire: costui mi calunnia per uomo contenzioso, ma non ha però da dimostrare ch'io contendessi mai con persona, o di sè stesso, e dell'avversario insieme, come sarebbe: costui non prestò mai del suo niente a niuno, ed io del mio ho riscattati molti di voi. L'altro è quando qualche persona o qualche cosa è stata sospetta di qualche mancamento, il quale non caggia in loro: assegnar la cagione della sinistra opinione, perciocchè da qualche cosa il sospetto è proceduto. Come volendo una donna abbracciare e baciare il figliuolo, e per questo stringendosi con lui, fu sospettato che usasse con quel giovinetto; ma detta la cagione, cessò la calunnia; e nell'Ajace di Teodetto, Ulisse assegna contra d'Ajace la cagione, perchè essendo esso Ulisse più forte di lui, non fosse riputato per tale. L'altro è dalla cagione, dicendo quando la cagion c'è, che la cosa sia; e quando non c'è, che non sia. Perchè la cagione, e quello di cui è cagione vanno insieme. E senza cagione non è cosa alcuna. Come Leodamante difendendosi contra l'accusa di Trasibulo, il qual diceva che egli era già processato nella Rocca, ma che avea scancellato il processo quando regnavano i trenta tiranni. Non accadeva ch'io lo scancellassi (rispose egli); perchè trovandosi scritto che io fossi nemico del popolo, ne sarei stato in maggior credito con i trenta.

L'altro è di considerare se si poteva, o se si può fare altramente meglio di quello che ci s'oppone che noi consigliamo, o che facciamo, o che abbiamo fatto; perchè quando questo sia, si mostra che non abbiamo fatto. Conciossiachè nessuno di suo volere e di suo conoscimento s'appiglia alle cose cattive. Tuttavolta questo è falso, perchè molte volte si conosce di poi quel ch'era meglio che si facesse, che prima non si conosceva. L'altro è di considerare, se facendosi questa cosa insieme con quest'altra, si viene a fare il contrario. Come Xenofane, domandato dagli Eleati se sacrificando a Leucotea si dovea piangerla o no, dette per consiglio, che se l'aveano per Dea, non la piangessero, se per femmina, che non le sacrificassero. L'altro luogo è così accusando come difendendo, che ci fondiamo negli errori, come nella Medea di Carcino, dove essa vien accusata d'avere uccisi i figliuoli, visto che non si trovavano; perciocchè ella avea fatto l'errore di mandarli via; ma dall'imputazione d'averli fatti morire si difende dall'altro canto con dire, che non avrebbe uccisi loro, ma Giasone; perchè in questo avrebbe errato Medea di non ammazzar lui, avendo ammazzati i figliuoli. Ed in questo luogo, e in questa sorte d'argomentazione consisteva tutta l'arte vecchia di Teodoro. L'altro è dal nome, come disse Sofocle. Veramente sei tu Sidero, cioè Ferro, donde viene il tuo nome. E come usavano di dire in laude degli Dei, Giove perchè giova. E come Canone chiamava Trasibolo. Trasibolo, cioè d'audace consiglio; e come Erodico diceva il Trasimaco. Sempre tu sei Trasimaco: cioè audace nel combattere; e di Polo sempre Polo, che vuol dir polledro. E contra Dracone legislatore, che le sue leggi non erano d'un uomo, ma d'un Dracone; perciocchè erano troppo dure. E come Euripide nell'Ecuba contra Venere, chiamata Afroditi. Degnamente incomincia il nome tuo dal nome d'Afrosini, perciocchè significa pazzia; e Cheremone di Penteo, che derivando da Penthos, che vuol dir pianto, disse:

Che dal futuro pianto era nomato.

Degli entimemi i confutativi hanno più vivezza, o s'afferrano meglio che i confermativi; perchè l'entimema che confuta è una breve conclusione de' contrarj. I quali posti l'uno a canto all'altro, sono più chiari all'auditore; e di tutti i sillogismi così confutativi, come confermativi, commovono, e penetrano maggiormente quelli che si comprendono dal cominciare; ma non perchè siano in pelle; perciocchè gli auditori s'allegrano ancor essi d'averli compresi; ed anco quelli sono penetrativi, i quali se ben s'indugia a comprenderli, tosto però che son detti, sono intesi.

Share on Twitter Share on Facebook