CAPITOLO XVII.

LE prove bisogna che siano dimostrative. E nascendo la questione sopra quattro cose, colui che dimostra si deve distendere sopra quella dove consiste il punto, come dire se consistesse in non l'aver fatto, sopra questo, io non l'ho fatto, venendosi al giudizio, si deve voltare tutta la forza del provare. E così sopra l'altre tre cose che sono: Io non ho nociuto; Non l'ho fatto ingiustamente; Non ho fatto tanto quanto mi si imputa. E il medesimo s'osserva se il punto consiste in averlo fatto. Ed è da sapere che in questa sola controversia dell'aver fatto, o non fatto, necessariamente una delle parti convien che dica la bugia, e che pecchi per malignità, perchè non si può in questo scusar d'ignoranza, come quando si disputa del giusto e dell'ingiusto. E però ci abbiamo a fermare in questo articolo lungamente e negli altri no. Nel genere dimostrativo, presupponendosi che le cose si credano, la più parte della confermazione si farà con l'amplificare, che le cose siano onorevoli ed utili. Perchè rade volte occorre che si venga alla dimostrazione. E questo quando le cose non sono credibili, o che un altro ne sia stato cagione. Nel deliberativo viene in considerazione, o che la cosa non sarà, o che non sarà giusta, o che non sarà utile, o non tanto. E si deve avvertire se l'avversario non dice il vero in qualche cosa fuor della causa, perchè parrà che sia segno evidente che mentisca ancora nell'altre cose. Gli esempi sono proprissimi al deliberativo. E gli entimemi sono più proprj al giudiziale che agli altri generi, perciocchè nelle deliberazioni si tratta delle cose che hanno a venire; delle quali (perchè ancora non sono) è necessario che si parli per esempi del passato. Ed i giudizj si fanno circa l'essere, o non essere; dove interviene maggiormente la dimostrazione e la necessità, perciocchè la cosa fatta bisogna che necessariamente sia. Non è bene che gli entimemi siano radunati tutti in un luogo, ma bisogna mescolarli, altramente per la moltitudine s'impediscono infra loro; perciocchè ancora la quantità ha il suo termine di quanta deve essere, come si cava da quel luogo d'Omero:

Caro figliuol poscia c'hai tante cose

Dette, quante un uom saggio ne direbbe;

dove s'ha da notare, che dice tante, e non tali. Non si deve cercare ancora di provare ogni cosa per entimemi, perchè non avvenga come a certi filosofi, che provano le cose più note e più credibili, che quelle donde cavano le prove. E quando tu muovi l'affetto non usar l'entimema; altramente o che l'affetto si torrebbe via, o che l'entimema sarebbe vano. Conciossiachè accozzati insieme più motti, l'uno l'altro opprimendosi, o si spengono in tutto, o diventano più deboli. Così quando si esprime il costume, non fa mestiero nel medesimo tempo usar l'entimema, perchè la dimostrazione non può stare nè col costume, nè con l'elezione. Le sentenze s'usano così nel narrare come nel provare, perchè fanno l'orazion costumata, come dire: Io glie ne detti con tutto che sapessi che non è bene a fidarsi d'ognuno. Ma con affetto si dirà, come per esempio: Non me ne pento ancora che sia stato maltrattato; perchè il guadagno sarà per lui, e la giustizia per me. Il dir nelle consulte è più difficile che il dir ne' giudizj; e ragionevolmente, perchè quivi si disputa dell'avvenire, e qui del passato, il quale si può sapere anco per infino dagl'indovini, come dice Epimenide Cretese; perciocchè egli non indovinava del futuro, ma del passato che fosse occulto. Oltre di questo nei giudizj abbiamo per fondamento le leggi; sopra del qual principio può chi l'ha, trovar facilmente la dimostrazione. Di poi nelle consulte non sono molti divertimenti, come l'infamar l'avversario; dir ben di sè stesso; muover gli affetti, e cotali cose. Le quali accadono manco in questo genere che in tutti gli altri, se non quando esce dell'offizio suo. Bisogna che si faccia adunque per un ricovero, come usano gli oratori Ateniesi, e spezialmente Isocrate; perciocchè consultando ancora suole accusare, come accusò i Lacedemoni nel panegirico; e Carete nell'orazione de' compagni. Nel genere dimostrativo si deve riempiere l'orazione di laudi, come fa Isocrate che lauda sempre qualcuno di fuora via. E questo è quello che diceva Gorgia, che non gli mancherebbe mai che dire. Perciocchè parlando d'Achille lauda Peleo, dipoi Eaco, dipoi Giove. Così lauda medesimamente la fortezza, dicendo che faccia o queste cose, o quell'altre, o che ella sia tale. Quando abbiamo ragioni da poter dimostrare, dobbiamo valerci delle dimostrazioni e de' costumi. Ma quando non abbiamo entimemi, tutto il nostro fondamento sarà ne' costumi; e più si fa per un uomo da bene di parer buono esso, che di saper dire accuratamente le ragioni della sua causa. Degli entimemi quelli che confutano sono più approvati di quelli che affermano. E questo perchè il ridarguire stringe più che l'affermare; perchè due contrarj posto l'uno accanto all'altro si scorgono meglio. Quelli nondimeno che si fanno per confutare non sono d'altra spezie che quelli che si fanno per confermare. Anzi sono del numero delle prove: perciocchè una parte della confermazione si fa solvendo con l'istanza, l'altra col sillogismo. Nella deliberazione e nel giudizio bisogna che chi comincia a dir prima metta innanzi le ragion sue, dipoi risolvere ed estenuare quelle che posson fare contra di lui. Ma se le contrarietà fanno assai rumore, allora dobbiamo cominciare da quelle che ci fanno contra, come fece Callistrato nella congregazion Messeniaca, dove risolute prima le opposizioni che gli potevano esser fatte da altri, soggiunse di poi quel che fa per lui. Ma quando ci tocca a dir poi, abbiamo a rispondere prima a quel ch'è stato detto dall'avversario, risolvendo ed argomentando contra lui. E massimamente quando le sue ragioni fossero approvate; perciocchè siccome l'animo abborrisce una persona notata d'infamia, così abborrisce ancora il suo parlare quando pare che l'avversario abbia ben detto. Bisogna adunque procurar d'aver luogo nell'animo dell'auditore per quel che abbiamo da dire. E questo si farà col distruggere il detto dell'avversario, dal quale era stato occupato. Imperò combattuto che abbiamo o contra tutte le opposizioni che ci son fatte dell'avversario, o contra le più potenti, o contra le approvate, o almeno contra quelle che più facilmente si possono confutare, allora attenderemo a proporre e corroborar le cose nostre. Euripide in questo luogo:

Prendendo de le Dee prima difesa,

Mostrerò di costei l'iniquitate,

Perch'io Giunone,

ed in quel che segue fa che Ecuba risponda alla più leggiera cosa che avesse detto Elena per sua scusa. E quanto alle prove s'è detto abbastanza.

Nella parte de' costumi, perchè il dir bene di noi medesimi o partorisce invidia, o porta lunghezza, o non è senza replica; e il dir mal d'altri è cosa ingiuriosa, o veramente villania; bisogna indur un altro che parli, come fa Sofocle nel Filippo, e nell'Antidosi; e come Archiloco vitupera la figliuola di Licambe, perciocchè induce il padre dir contra la figliuola in quei jambi:

Che non si può sperar? Che si puote anco

Giurando assecurar, ch'esser non debba?

e Caronte fabbro in quegli altri jambi, che cominciano:

Io non curo di Gigi il gran tesoro;

e come fa Sofocle che induce Emone a parlare al padre per Antigone in persona d'altri. E bisogna talvolta convertir gli entimemi in sentenze in questo modo. Quelli che son savi debbono cercar di riconciliarsi quando sono in prosperità, perciocchè allora n'hanno miglior partito. Dove in forma d'entimema si direbbe: se allora dobbiamo cercare di riconciliarci quando possiamo avere più utili, e più larghi partiti; ci abbiamo dunque a riconciliare quando siamo posti in felicità.

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