CAPITOLO XVIII.

VENIAMO ora all'interrogare. Il tempo principalmente di far l'interrogazione è quando avendo l'avversario detto una parte, con una nostra domanda appresso lo facciamo cadere in qualche inconveniente. Come Pericle interrogando Lamione delle cerimonie che si facevano ne' sagrifizj della Dea servatrice, ed essendogli risposto da lui, che chi non era entro messo non le poteva sapere; egli domandò lui se le sapesse; e rispondendo di sì: Come è possibile (gli disse) se tu non ci sei entrato? Nel secondo modo si fa quando una cosa è chiara; e l'altra colui che interroga pensa che se gli debba concedere; dove fatta che sia l'una domanda, senza più domandar quel ch'è già noto, bisogna subito conchiudere, come fece Socrate che imputato da Mileto di non creder che gli Dii si trovassero, gli disse: Pensi tu ch'io creda che si trovino i demoni? E rispondendo di sì; allora gli domandò: I demoni non procedono dagli Dii, o non sono eglino qualche cosa divina? E rispondendo pur di sì. Adunque può (diss'egli) che uno creda che si trovino i figliuoli degli Dii, e gli Dii no? Nel terzo modo si fa quando si può mostrare, o che l'avversario si contraddice, o che dice cose fuor dell'opinion d'ognuno. Nel quarto, quando crediamo che non avendo con che risolver la nostra domanda, non possa risponder se non sofisticamente; perchè rispondendo come dire, può essere e non essere; ed essere in parte, ed in parte non essere; e talvolta si, talvolta no; gli auditori come confusi, si perturbano. Ed in altro modo che in questi, non bisogna tentar l'avversario con l'interrogazioni; perchè rispondendo con qualche istanza, par che chi domanda, resti convinto; essendo che rispetto alla debolezza degli ascoltanti non si possono far domande sopra domande. E per questo è bene che ancor gli entimemi vadino serrati il più che si può. La risposta alle interrogazioni, se le cose son dubbie, bisogna che si facciano distinguendo, e con parlare alla distesa e non concisamente. E nelle cose, che par che ci possino venir contra, si deve con la risposta subito inferir la risoluzione, avanti che di nuovo interrogando, o concludendo, l'avversario proceda più oltre. Perciocchè si può facilmente antivedere dove egli fonda la sua ragione, e sopra quali fondamenti si concluda. Or come le conclusioni si risolvono, s'è fatto noto nella Topica. Quando l'avversario conclude, e con la medesima conclusione interroga, dobbiamo rispondendo allegar la cagione perchè, come fece Sofocle domandato da Pisandro: Sei tu stato del medesimo parere che gli altri elettori in crear il reggimento dei quattrocento uomini? Si: sono stato, gli rispose. O come (gli replicò) non ti parve questa cosa malfatta? Malfatta (disse) mi parve. Dunque (soggiunse Pisandro) tu hai fatto questo male alla Repubblica. Sì (disse egli) perchè non avea da farle meglio. E quel Lacedemoniese, che stando a sindicato del magistrato degli Efori, fu domandato se gli pareva che gli altri suoi compagni condannati della vita fossero ben condannati, rispose di si. Gli fu replicato: Non sei tu stato insieme con loro a decretar queste cose? Sì: sono stato, diss'egli. Dunque ancora tu (gli fu detto) meriti di morire. Questo no, rispose egli: perchè costoro l'hanno fatto per denari, ed io non l'ho fatto per questo, ma perchè così mi pareva di dover fare. E però dopo la conclusione non bisogna interrogare, nè anco interrogar la conclusione: se già non contenesse in sè molto del vero. E perchè pare che le facezie e i motti ancora siano di qualche uso nelle contese del parlare; e bisognando (come dice Gorgia) quando l'avversario si reca in su 'l saldo, smaccarlo col farsene beffe; e quando egli beffeggia col saldo e col vero fermarlo; di questo abbiamo parlato nella Poetica, e detto quante sono le spezie delle facezie, delle quali, parte si convengono a gentiluomini, e parte no. Quindi piglierà dunque ciascuno quelle che sono appropriate a lui. L'ironia ha più del gentile, che la buffoneria; perchè l'ironico motteggia per conto suo, e il buffone per conto d'altri.

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