CAPITOLO VI. LE PROVE STORICHE.

Io non so sino a qual punto i teologi intransigenti e gli ultra-cattolici in genere tengano conto dei fatti e delle considerazioni brevemente riassunte nel corso delle precedenti pagine. Molta importanza senza dubbio debbono attribuirvi, benchè in camera charitatis, salvo a sconfessarli nelle pubbliche concioni e negli scritti. Non è solo da jeri che le conquiste della scienza hanno forzato il clero a una specie di curiosa ubiquità intellettuale, la quale mal riesce a nascondersi sotto il velame di contorte espressioni...

Come del resto umanamente pretendere che della gente la quale fa atto di adesione all’infantile racconto biblico; che della gente la quale, almeno in apparenza, giura sulle castronerie zoologiche, geologiche e fisiche della Genesi, sia disposta a sottoscrivere al darwinismo? Ed ecco come si spiega la guerra dai pergami e dalle riviste cattoliche, bandita alla teoria dell’origine animalesca dell’uomo... E sovra tutto, ecco in qual modo si spiega come e perchè gli avversarî cattolici, esulando dall’infido terreno dei fatti palpabili, od ostentando per essi la più petulante noncuranza, amano portare la questione sopra un terreno vago, sul terreno, diremo così, metafisico e morale, che più dell’altro, almeno a prima vista, sembra prestarsi alle risorse della lora strategìa.

Per quanto ce lo permette lo spazio, noi li seguiremo su questo terreno nel presente e nel successivo capitolo.

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Dicono i teologi: l’uomo non è una scimia perfezionata, come il darwinismo pretende, ma un angelo decaduto...

Fa d’uopo convenire che la trovata non è del tutto infelice.

E dicono anche: essendo impossibile che l’uomo abbia appreso da sè, senza l’ajuto diretto o indiretto di alcuno, i costumi e le arti del vivere civile, fa d’uopo ammettere che i primitivi uomini fossero civilissimi e che poscia, decadenti e corrotti, abbiano trasmesso in eredità ad altri uomini, di essi più degni, i doni di cui erano forniti. Da questo punto di vista gli attuali selvaggi sarebbero i discendenti degenerati di quei semi-perfetti uomini primitivi... Ciò che vantiamo noi in fatto di civiltà non sarebbe per ciò, nel pensiero dei teologi, che un pallido riflesso della immensa luce projettata dalla primitiva umanità.

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Che cosa risponde la scienza ad argomenti tratti da una logica così categorica?

Non alla logica essa affida l’incarico di confutarli, ma ai fatti.

E, in vero, delle due una: o i fatti concordano con l’ipotesi teologica, e allora fa d’uopo ammetterla ovvero, come si verifica, i fatti vi contraddicono, e allora la si nega decisamente abbandonandola alla sorte di tutti gli assurdi...

Vediamo.

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Nel suo brillante studio «sull’Origine dell’Incivilimento e la primitiva condizione dell’uomo», pubblicato la prima volta l’anno 1868 dallo Stefanoni nel Libero Pensiero, l’illustre etnologo sir John Lubbock, polemizzando con l’arcivescovo anglicano Whately appunto sull’attendibilità della teoria della degradazione proposta dai teologi, riferisce alcuni fatti che non credo superfluo riassumere. Lo faccio naturalmente sulla traduzione italiana di detto articolo, quale si legge nella raccolta del Libero Pensiero.

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In primo luogo, scrive Lubbock, urge rilevare come altresì tra i selvaggi notansi indizî di progresso. In seconda linea devesi osservare come tra le nazioni incivilite vi sono delle traccie della originaria barbarie.

Noi sappiamo infatti, continua l’A., che gli Australiani, del pari che gli Americani del Nord e del Sud, furono scoperti in uno stato di completa rozzezza.

Che dire, d’altra parte, della condizione mentale dei selvaggi? «Non solo, scrive Lubbock, le religioni delle razze inferiori sembrano essere indigene, ma, secondo la testimonianza quasi universale, quella dei mercanti, dei filosofi, degli uomini di mare e anche dei missionari, vi sono molte razze di uomini che non hanno religioni di sorta... Ebbene! io non so indurmi a credere che un popolo qualunque, che una volta ebbe una religione, possa mai perderla interamente. Dove dunque noi troviamo una razza che ora non conosce religione, non possiamo a meno dal presumere che sia sempre vissuta in siffatta ignoranza.»

Del resto non è meno vero che un qualche progresso si è notato fra i selvaggi.

«Gli abitanti delle isole Adamane hanno recentemente introdotto delle manovre... I Bocapin quando furono visitati da Burchell avevano da poco cominciato a lavorare il ferro. Secondo il Burton i negri di Swajiji avevano di recente imparato a servirsi del rame, etc.»

Anche i grossolani abbozzi di scrittura, trovati presso i wampum degli Indiani Nord-Americani, debbono essere considerati come originarî di questi paesi. Lo stesso si dica della scrittura figurata, propria dei quipoi dell’America Centrale.

Passiamo ad altri fatti.

È possibile, dice Lubbock, supporre che una razza incivilita, la quale aveva imparato a contare oltre il dieci, abbia poi disimparato una così facile e pur così utile conoscenza? Eppure, a volersi attenere alla teoria della degradazione caldeggiata dai teologi, bisognerebbe ammetterlo.

«Nessuna lingua australiana, scrive l’insigne etnologo, ha dei nomi per qualche numero al di là del quattro; i Dammara e gli Aliponi non ne usano oltre il tre; alcune tribù brasiliane non sanno andare oltre il due...

«Se i numeri dei selvaggi fossero reliquie di una civiltà anteriore, oggetti salvati dalla generale distruzione, anche senza che noi potessimo aspettarci di rintracciarne i nomi in quella lingua originale che in tal caso deve aver esistito, non li troveremmo neppure tali e quali sono realmente».

Non meno notevole è la mancanza, o quanto meno la deficenza nelle lingue parlate dai selvaggi di parole come ad esempio «colore», «tono», «albero», ecc., esprimenti un’idea generale.

«Io posso, dice benissimo a tal riguardo il Lubbock, difficilmente figurarmi una nazione la quale perda tali parole se una volta le avesse possedute.»

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Che se dai selvaggi passiamo ai popoli civili, con non minore evidenza vi osserveremo le traccie della primitiva barbarie.

«Le traccie dell’epoca della pietra, così esordisce Lubbock, sono state scoperte non solo in Europa, non solo in Italia e in Grecia, ma anche nella stessa così detta culla della civiltà, nella Palestina, nella Siria, nell’Egitto e nell’India.»

Invero perchè mai i sacerdoti egiziani e israeliti si servivano di coltelli di pietra?

«Evidentemente perchè questi erano stati altra volta di un uso generale, ed un senso di rispetto rendeva i sacerdoti riluttanti ad usare della nuova sostanza nelle cerimonie religiose.»

Che pensare, d’altra parte, dell’assenza del pudore e del matrimonio presso i selvaggi? Chi ignora come presso molte tribù le mogli costituiscono una vera proprietà dei mariti, e come proprietà passano ai fratelli del marito in caso di morte? Chi non sa come fra molte tribù selvagge la consanguineità femminile è la sola riconosciuta? Ma d’altra parte chi oserebbe negare che un tale, o quanto meno un consimile stato di cose, esistette presso gli antichi Celti, i Greci, gli Ebrei, i Romani?

«Per quanto riguarda il matrimonio, scrive Lubbock, noi troviamo tanto fra i Greci, come fra i Romani dei costumi che ci riconducono ancora al tempo in cui quei popoli inciviliti erano essi stessi veri selvaggi.»

Che più?

«Anche fra noi, continua acutamente l’illustre autore, l’uomo davanti alla legge non ha alcun vincolo di parentela coi proprî figli, a meno che essi non siano nati durante il matrimonio.»

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La conclusione?

Essa suona necessariamente condanna della teoria teologica. Infatti risulta provato:

1.° Che i selvaggi esistenti non sono i discendenti di antenati inciviliti;

2.° Che la primitiva condizione dell’uomo era quella della più profonda barbarie;

3.° Che da questa condizione ogni razza è sortita da sè e indipendentemente da ogni intervento soprannaturale.

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