CAPITOLO VII. OBJEZIONI E RISPOSTE.

Non creda pertanto il lettore che i teologi siansi dichiarati vinti davanti ai fatti cumulativamente offerti dalla paleontologia, dalla zoologia e anatomia comparata, dall’embriologia e dalla storia. Ben altro! Battuti sopra un terreno, hanno dato e danno battaglia in un altro, poi in un altro ancora e via, e tutto questo senza mai concedere agli avversarî la soddisfazione di una parola che suoni onesto riconoscimento dei loro argomenti, se non – chè la dogmatica lo vieta – delle loro conclusioni. Bisogna conoscere per prova sin dove arrivi e che cosa sia la petulanza dello spirito teologico per farsene un’idea.

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Dicono i teologi: siano pure vere tutte le analogie e tutte le osservazioni embriologiche onde i darwiniani sono tratti alla conclusione che l’uomo discende dagli animali inferiori, ma in nome di Dio, dove pongono i darwiniani i molti e molti contrassegni caratteristici dell’uomo, quali ad esempio la vita famigliare e sociale, il pudore, la religiosità, l’industria, l’uso del fuoco, delle vesti, il suicidio, ecc., ecc.?

Dove pongono insomma le divine facoltà intellettuali e morali dell’uomo?

Dove il linguaggio articolato?

Proponendo al darwinismo questi e altri punti interrogativi, le teologie, tra protestanti e cattoliche, supposero di ridurlo al silenzio.

Vana-speranza!

Infatti i quesiti sopra formulati e contro i quali come contro scogli granitici doveva frangersi nell’imaginazione dei teologi l’onda vigorosa del darwinismo, hanno dato esca a nuovi studî, e quest’ultimi, lungi dall’infirmare alcuna delle proposizioni darwiniane, vi hanno anzi portato nuovo contributo di attendibilità.

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E cominciando dalla pretesa pseudo-divina intelligenza umana, nessuno oramai ignora come v’hanno nel pianeta uomini e razze appena più intelligenti degli animali...

Citerò fra le altre le razze oceaniche e africane, gli Australiani, i Neo-Olandesi, i Negri dell’oceano Pacifico, ecc. Essi sono affatto digiuni di qualunque idea generale e astratta. Si cercherebbero invano nelle loro rozze favelle parole per esprimere i concetti di Dio, di giustizia, di religione, ecc.

Parlando degli Australiani l’etnologo Hale si esprime così:

«... Gli argomenti impiegati dai coloni per convincerli sono abitualmente quelli che si usano coi fanciulli e cogli idioti.»

Sappiamo degli stessi Australiani «che vivono nudi coi loro cani entro capanne di fogliame, sopportano apaticamente la fame, la sete, il freddo, la umidità; mangiano di tutto, insetti, serpenti, vermi, ecc. Le relazioni sessuali sono sregolatissime: l’infanticidio generalmente praticato; i vecchî messi a morte... Intellettualmente sono veri fanciulli; le sole buffonate, le scene comiche e puerili possono divertirli... La loro completa estinzione non è ormai che questione di tempo...»

Chi ignora d’altra parte come la vita famigliare, il matrimonio, sia sconosciuto a molte razze? Ne feci già cenno al capitolo precedente: soggiungerò qui come presso molte tribù dell’Australia, dell’Africa e dell’Asia, la famiglia è talmente sconosciuta, che spesso i vincoli che uniscono gli animali fra loro e alla prole sono moralmente preferibili.

Pel negro del Sudan l’amore non esiste: la donna non è che una bestia da soma, e nell’Australia, secondo ne riferisce il Duboc, la madre ha cura del figlio solo pei primi tempi della vita, poi lo lascia per sempre.

Gli insulari di Borneo «non hanno eredità, matrimonio e famiglia; ma vivono in promiscuità come gli animali».

Anche l’organizzazione sociale ripete la sua origine da un progressivo sviluppo, determinandosi cioè per gradi dalla primitiva, incoerente orda selvaggia. Nè vi ha chi ignori quanto, altresì entro la cerchia animale, si trovi sviluppato il principio di associazioni, presso animali come ad esempio le api, le formiche, i castori, le termiti, i cani delle praterie nord-americane, ecc.

Dire in particolare del pudore, dopo le cose dette in questo e nel precedente capitolo, è per lo meno superfluo. Ricorderò tuttavia gli Australiani, la cui nudità lascia perfettamente scoperti gli organi genitali; fra le civiltà antiche basterà menzionare l’Egitto, la Fenicia, la Grecia e Roma, presso le quali il pudore, nel senso etico-cristiano, diremo così, della parola, si può asserire non attecchì. E del resto si può chiedere: sono forse dotati di pudore i nostri fanciulli? Negli adulti questo sentimento non patisce forse delle alterazioni e anche delle vere e proprie sospensioni a norma dei casi?

Lo stesso si dica della religiosità di cui ho pure – benchè incidentalmente – fatto parola addietro; v’hanno moltissimi esempî di popoli selvaggi mancanti d’ogni credenza in Dio, specie, come nota il Pouchet, nell’Africa Centrale, nell’Australia e nelle regioni polari.

Secondo Latham gli Australiani non sono pervenuti mai neppure ai primi rudimenti di una religione; la stessa cosa riferisce L. W. Baker dei Lutukas abitanti verso le sorgenti del Nilo.

Che dire, d’altra parte, dell’uso di utensili, invocato come qualche cosa di affatto speciale all’uomo?

Esso non costituisce per nulla quel contrassegno caratteristico che vorrebbero farne, in buona compagnia coi teologi, i sociologi pseudo-positivisti.

Nel suo libro Undici anni a Ceylan, Forbes ha osservato che gli elefanti selvaggi recidono i tronchi d’albero per farne schermo contro le mosche. È pure noto che le scimie si difendono con bastoni e che introducono pietre fra le conchiglie aperte dei molluschi, onde impedire che si chiudano. Narrano i viaggiatori, di scimie le quali rompono le ostriche coi sassi.

Al loro confronto gli abitanti delle isole di Andaman (Bengala) che non hanno abitazione, nè ascie e ignorano l’uso del fuoco, sono meno progrediti.

Anche dell’uso del fuoco, come dissi, si volle fare una specialità affatto umana.

Pure quanti popoli lo ignorano completamente! Senza fermarci ai degradatissimi Andaminiti o ai Dokos, chi ignora oggi essere stato l’uso del fuoco sconosciuto un tempo alle stesse razze più incivilite, agli Egiziani, ai Cinesi, ai Fenici, ai Greci?

Io rischierei senza dubbio di oltrepassare i limiti concessimi dalle esigenze tipografiche, se ad una ad una mi lasciassi tentare dal desiderio di ribattere tutte le objezioni, che sul terreno dei così detti caratteri essenziali e particolari dell’uomo, spiritualisti e teologi fanno al darwinismo.

Soggiungerò ancora nondimeno alcune poche osservazioni su quegli ulteriori caratteri, l’amore, il raziocinio, il sentimento del bello, l’agricoltura, il linguaggio, ne’ quali la critica teologica vede per avventura i simboli più spiccati del presunto abisso che, a suo parere, separa l’uomo dagli animali.

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Nelle opere di Darwin gli esempî abbondano. Parlando dell’amor materno presso gli animali, riferisce l’osservazione di Reugger che vide (fra le altre) una scimia americana nell’atto in cui stava scacciando con ogni cura le mosche che infastidivano la sua creatura. Durancel parla di una scimia da lui veduta nell’atto di lavare il muso del suo neonato in un ruscello.

Che il cane e le scimie sentano la gelosia, è cosa nota. «La scimia burlata si offende. Il cane soffre la noia... Molti animali sono curiosi e tutti sentono meraviglia.»

«È un fatto significante, scrive C. Darwin, che quanto più un naturalista studia i costumi di un dato animale, tanto più larga parte fa alla ragione e minore al semplice istinto...»

Molti sono i fatti che Darwin cita a giustificazione di tale asserto. Notevole fra gli altri questo dei cani del signor Hayes, i quali, come narra Darwin, in luogo di seguitare a trascinar le slitte riuniti in fascio compatto, si discostavano e si sparpagliavano allorchè giungevano su una superficie di ghiaccio più sottile, onde il loro peso fosse più equamente distribuito... Era questo spesse volte il primo avvertimento che ricevevano i viaggiatori dello assottigliarsi del ghiaccio...

Non meno curiosi sono i fatti riferiti da Reugger. La prima volta ch’egli diede uova alle sue scimie, queste le schiacciarono, perdendo per tal modo buona parte del contenuto; ma, avvertite dall’esperienza, ruppero in seguito con circospezione contro qualche corpo duro un poco del guscio, e con le dita ne tolsero poscia i pezzetti... «Sovente venivano loro dati pezzetti di zucchero ravvolti nella carta, e talvolta Reugger poneva una vespa viva dentro la carta, così che quando aprivano in fretta l’involtino, esse venivano punte; ma dopo che ciò fu fatto una volta, esse sempre accostavano l’involtino all’orecchio prima di svolgerlo, per assicurarsi che non v’era dentro nulla che si movesse.»

Si continua a dire dagli spiritualisti che il sentimento del bello è proprio esclusivo dell’uomo. Non è vero.

«Il sentimento del bello – osserva benissimo Darwin – è stato dichiarato particolare all’uomo; pure quando noi udiamo i maschî degli uccelli sfoggiare pomposamente le loro piume e gli splendidi colori agli occhî delle femmine, mentre altri uccelli meno adorni non le sfoggiano così, non è possibile mettere in dubbio che le femmine non ammirino le bellezze dei maschî loro compagni.»

Anche dell’agricoltura, come dicemmo, s’è voluto fare un carattere particolare dell’uomo. Ma a parte gli esempî offerti da centinaja di popoli selvaggi, i quali vivono colle sole produzioni spontanee della natura e colla caccia, a parte anche le tradizioni dei popoli più civili, attestanti la precedenza del periodo pastorale al periodo agricolo, nessuno ormai più ignora l’esistenza di animali coltivatori e agricoltori. Interessantissime a questo riguardo sono le osservazioni del dottor Linneaus sopra le formiche agricole del Texas da lui studiate durante ben dieci anni.

Intorno a un magazzino sotterraneo che queste industri formiche scavano in un terreno del sottosuolo pietroso, piantano una sorta di zolla erbosa che produce dei piccoli granuli bianchi. A suo tempo i granuli vengono raccolti, disseccati e accumulati nel magazzino.

Non di rado queste riserve di grani vengono tratte all’aria per essere meglio disseccate e ripulite. Ha ragione Büchner di considerare queste formiche superiori ai negri Kytches, i quali vivono dei naturali, spontanei prodotti del suolo, «non seminano, nè coltivano, e spesso muoiono di fame».

Passando finalmente a dire qualche cosa del linguaggio, quest’arca santa dei teologi, questa presunta rocca inespugnabile degli avversarî del trasformismo, non esitiamo a dichiarare che in questo campo gli argomenti in favore della tesi darwiniana sono, meglio ancora forse che altrove, numerosi e stringenti.

Invero il linguaggio altro non è che la risultante d’una serie di lunghi e faticosi progressi, tanto che presso molti popoli esso trovasi in uno stato di assoluta inferiorità.

Parlando del linguaggio dei Taus (Africa Occidentale) il Du Chaillu lo chiama una sequela di suoni gutturali affatto inintelligibili. La voce degli Ajetas di Luçon (Filippine) parve al De la Gironnière quella di tante scimie. Anche la lingua degli Australiani è rozzissima; non diciamo della povertà di vocaboli, giacchè è noto ch’essa non conta più di un centinajo di parole...

Povere e bestiali sono le lingue parlate dagli indigeni di Borneo, dagli Ottentoti e dai Boschimani, nel cui vocabolario cercheresti invano una parola per esprimere un’idea generale.

Sappiamo d’altra parte dei Veddelis di Ceylan, che comunicano fra loro quasi esclusivamente mediante segni e smorfie...

Poche questioni come quella dell’origine e dello sviluppo del linguaggio furono forse sottoposte nell’ultimo secolo a uno studio più accurato.

L’idea tradizionale che fa dell’umana favella qualche cosa di innato e quasi di divino può dirsi ormai perentoriamente esclusa dalla scienza. Gli studî di Westropp hanno provato come il linguaggio articolato sia un lento e faticoso acquisto che ha fasi di sviluppo, di maturità e di decadenza. Dello stesso parere si dichiara il celebre A. Schleiecher, il quale, esclusa l’ipotesi che le lingue attuali siano sempre esistite, esprime l’opinione che gli attuali linguaggi organizzati siano usciti a poco a poco da altri primitivi più informi e più semplici, perfezionandosi via via nel processo di lunghissime età.

Anche S. Grimm definisce il linguaggio un lavoro progressivo, escludendo l’ipotesi teologica che sia innato.

Il grido dell’animale, scrive Clemenza Royer, è l’esordio del linguaggio. Ai diversi sentimenti, alle diverse espressioni corrisponde sempre una serie di gridi differenti. Le parole, grida, in uno ai gesti, ai canti, agli sguardi, ecc., sarebbero l’indistinto onde scaturì a poco a poco il distinto del linguaggio. In ciò concorda anche Lesley, il quale osserva che il linguaggio si modifica parallelamente allo spirito dei popoli... Egli osserva che ogni lingua ha da circa 200 a 600 radici dalle quali deriva.

I limiti in cui debbo aggirarmi sono tali che non mi è permesso diffondermi, come vorrei, largamente su questa interessante questione.

Com’è noto, si contano circa 3000 lingue. Ebbene: numerosissime sono le parole equivalenti o quanto meno analoghe. È questo un fatto la cui importanza non può sfuggire alla considerazione del lettore.

Leggiamo in William Bell che il monosillabo loh, usato in parecchie lingue a designare la luce, la fiamma, ecc., deriva dalla semplice esclamazione: oh! cui si premise una l. «Durante un periodo lunghissimo il linguaggio si compose di monosillabi simili; poi a poco a poco si formarono i polisillabi, sia col raddoppiamento di un suono semplice come nelle parole zigzagbombababbomamma, ecc., sia per agglutinazione o sovrapposizione di sillabe.»

Forse che, domanda Jäger, il linguaggio non esisteva prima che nascesse l’uomo? Non è già un linguaggio il grido che accompagna l’amplesso nel mondo animale?

Non è già un linguaggio il grido d’allarme, di chiamata, suscettibili di simili gradazioni?

Come dubitare che il primo linguaggio dell’umanità sia stato un accozzamento di suoni elementari e che le nostre lingue articolate e complesse ne siano lo sviluppo perfezionato?

La prima fase del linguaggio fu dunque senza dubbio quella data dai suoni imitativi. Una tale ipotesi trova luminosa conferma negli studî fatti sull’origine ed evoluzione della scrittura.

Nella sua Histoire naturelle de langage citata, il D’Assier riferisce che il primitivo alfabeto cinese «rappresentava tutte le idee con figure corrispondenti. Un gran cerchio indicava il sole; un altro più piccolo rappresentava le stelle; una croce la luna.» Notevole anche la circostanza che «i più antichi geroglifici cinesi, quasi in tutto rassomigliano ai geroglifici egiziani, poichè la prima percezione della natura fu ovunque la stessa».

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Io sono perplesso se sia necessario trarre una conclusione dai molti fatti e dalle molte e autorevoli osservazioni esposte nel non breve corso del capitolo.

Essa, d’altra parte, è tanto evidente, essa si impone con tanta chiarezza, che il lettore non ha bisogno che gliela si suggerisca. Senza dubbio i pretesi attributi caratteristici dell’uomo – quegli attributi in altre parole ch’egli dovrebbe possedere come qualche cosa di inerente, di essenziale, direi quasi di necessario alla sua natura – hanno un altro carattere di quello loro gratuitamente assegnato dagli spiritualisti e dai teologi. La vecchia scienza, la dogmatica tradizionale, lo spirito chiesastico, l’intolleranza gesuitica, minate alla radice dal darwinismo, ricorsero a tutte le armi per demolirlo; queste armi, però, lungi dal nuocere alla causa della teoria darwiniana, si sono ritorte contro i suoi avversarî. Mettiamo quindi fra le lancie spuntate dell’infallibilismo dogmatico ancora questi così detti attributi essenziali di cui s’è voluto ammantare l’uomo. Come mai infatti seguiteremmo a chiamare essenziali della natura umana attributi, quali ad es.: il pudore, la religiosità, la famiglia, ecc., che non hanno in ugual grado tutti i popoli, e di cui, che è peggio, mancano perfino le traccie presso intere, numerose razze? E che dire di quegli altri attributi, come ad es.: l’intelligenza, la ragione (ah! la ragione...), l’amore, ecc. che gli animali possiedono e talvolta anzi in grado maggiore degli stessi uomini?

Per le quali considerazioni, concludendo, pare a me che questa polemica, provocata dagli avversarî del darwinismo – a fine di seminare il discredito sulla teoria che fa discendere l’uomo dagli animali inferiori – pare a me, ripeto, che questa polemica siasi chiusa con tutto vantaggio dei darvinisti.

Checchè si dica, l’èra classica del dogma che incatenava il pensiero è tramontata; l’ipocrisia e il compromesso, a cui, stretto dalle esigenze dei tempi, il cattolicismo infallibilista ha cresciuto intere generazioni, non possono più oggi avere speranza di fortuna nella scienza emancipata.

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