Capitolo X BOLAMA

Ci ritroviamo tutti, la mattina seguente, in perfetta tenuta coloniale: camicia a maniche rimboccate, coi gradi sulle spalline, pantaloncini di tela leggera, stivaloni gialli. Quando occorre metterci in abito da cerimonia, l’operazione è breve: si tirano le maniche della camicia fino al polso. Il calore tropicale della regione non permette altre complicazioni. Siamo piombati ai 30 gradi: sole implacabile, aria da serra forzata. Ma Bolama è una cittadina graziosa, di tipo portoghese, con case tutte in muratura e qualche bel palazzotto. C’è perfino una Banca: l’«Ultramarino». Parecchi ambienti commerciali, un certo fervore coloniale per le vie.

Naturalmente la nostra maggiore meraviglia va alla cornice di foreste selvagge, dense e misteriose, che circondano la città e invadono ogni lembo di terra sulle altre isole, ovunque l’acqua dell’estuario e del mare lasci un po’ di posto libero.

I nostri ospiti portoghesi sono di una squisita cortesia. Quando, due giorni dopo, arriva il Governatore Colonnello Antonio Leite de Magellais, di ritorno dal Portogallo, abbiamo l’immediata intuizione che egli diventerà il nostro piú grande amico. La simpatia ha i suoi lampi improvvisi e infallibili. Dagli uomini la nostra simpatia passa alla regione, che è tra le piú belle del mondo.

La Guinea portoghese è veramente, per chiunque nutra un po’ di culto della divina poesia, un luogo di sogno. Per il suo regime di piogge, che arriva annualmente a una media di milleduecento e duemila millimetri, questa terra è un autentico paradiso vegetale. La flora impazzisce di linfa vitale ed ha una esuberanza prodigiosa.

La colonia misura 36 mila chilometri quadrati di superficie e ha pochi abitanti. Bolama è collocata sopra l’estuario di molti piccoli fiumi e di due fiumi maggiori: il Rio Cacheu e il Rio Geba, dalle acque voluminose, si internano profondamente nella regione, si uniscono e si separano l’un dall’altro, in una rete pittoresca di correnti gonfie, formando ovunque isole e canali. L’arcipelago di Bissagos a 90 chilometri sembra sia stato strappato alla terra ferma dalla corrente e trascinato a viva forza lontano. Le acque fluviali lo lambiscono gorgogliando e davanti lo batte, con selvaggio furore, l’Atlantico.

Gli isolotti dell’interno sembrano prolungare molto addentro nella regione il calore e il flutto del mare.

I due fiumi principali sono navigabili per la lunghezza di 170 chilometri e anche qui, come nel Gambia britannico, la regione è servita, per la posta e per il commercio, da piccole imbarcazioni fluviali.

Noi siamo arrivati a Bolama nel periodo piú bello dell’anno, che incomincia in dicembre e finisce in maggio. Negli altri mesi, che sono quelli delle piogge, la regione non sarebbe abitabile perché l’acqua stagna a lungo sul suolo impermeabile, e innumerevoli zanzare vi prosperano, producendo febbri malariche.

Su queste coste giunsero per primi, nel 1455, durante gli anni delle loro tortuose e memorabili circumnavigazioni tra gli arcipelaghi atlantici dell’Africa, agli ordini del Re di Portogallo, con due caravelle, Alvise da Cadamosto e Antoniotto Usodimare, che già l’anno avanti avevano toccato e in gran parte scoperto le isole di Madera, le Canarie, le isole di Capoverde. Il grande Alvise lasciò una descrizione dell’arcipelago di Bissagos e dell’estuario di Rio Grande, che fece testo per piú secoli e serví alla compilazione e alla raccolta dei «portolani» di Venezia, di Genova, di Spagna, di Francia e Inghilterra. Non poté — come operava — trafficare con gli indigeni di Bolama, perché non riuscí a comprendere e a farsi comprendere, quantunque avesse a bordo schiavi del Senegal e del Gambia in funzione di interpreti. Ma li trovò miti e servizievoli, come sono, in fondo, anche oggi. Ho portato con me il testo della sua Navigazione provvidenzialmente stampata proprio in questi ultimi anni dall’Alpes e vi trovo osservazioni di un estremo interesse, anche per noi che dobbiamo partire di qui per la transvolata e siamo in obbligo di conoscere a perfezione i dati fondamentali che riguardano la natura del posto. Che cosa vi può essere di piú «attuale» di questa prima impressione dell’estuario di Bolama?

«Dappoi, eziam navigando per la predetta costa per una giornata, venimmo alla bocca d’un grandissimo fiume; dico cosí grande, che prima noi tutti giudicammo quello esser golfo; nientedimeno si vedevan gli arbori bellissimi e verdi dall’altra parte del terreno verso ostro; la qual larghezza fu giudicata per tutti almeno esser miglia venti, e di là in suso; perché buono spazio mettemmo in traversar detta bocca, cioè da un terreno all’altro: e quando fummo dall’altra parte, avemmo vista in mare di alcune isole.»

Ma tra le carte del Cadamosto trovo una osservazione ancora piú interessante per noi: l’enorme dislivello che crea tra queste isole l’alta e la bassa marea, e la forza veramente spaventosa dei suoi flutti:

«Noi stemmo sopra la bocca di questo gran fiume, Rio Grande, due giorni: e la tramontana quivi se ne mostrava molto bassa. In questo luogo trovammo una grande contrarietà, che non si trova altrove, per quanto ho potuto intendere; cioè che facendosi in questo luogo marea di acqua montante e zozante, come si fa a Venezia e in tutto il Ponente, e dove in ogni luogo la cresce sei ore, e cala altre sei, quivi cresce ore quattro, e cala otto; ed è tanto l’impeto della correntia della detta marea, quando comincia a crescere, che gli è quasi incredibile; perché tre àncore per prora appena e con fatica ne potevano tenere: e ora fu che la correntia ne fece far vela per forza, e non senza pericolo, perché aveva molto piú forza, che le vele col vento».

Povero Alvise! Egli aveva tutto veduto, tutto notato e ritornò in Portogallo piú povero di prima: è la prima volta, questa, che la generosa fatica del grande italiano del 1400 serve a una impresa italiana!

Chiedo ai cortesi ospiti portoghesi come è nata e cresciuta la colonia.

Essa fiorí all’epoca del commercio degli schiavi e nell’ultimo secolo decadde miseramente. Nel 1870, in séguito all’arbitrato degli Stati Uniti, che decisero una lunga controversia tra la compagnia francese del Senegal e l’Inghilterra, entrambi pretendenti al possesso della baia di Bolama, divenne pacifico possedimento portoghese. Tra i due litiganti il terzo godeva! Ma gli Stati Uniti non avevano torto: i portoghesi occupavano la Guinea fin dal 1607!

Oggi la colonia sembra rinascere. Sono state costruite alcune buone strade verso l’interno, ottime per le automobili: una società tedesca vi esercita l’industria e l’esportazione dell’olio di palma: una società di navigazione tedesca, la Woermann, vi fa un servizio regolare di comunicazioni intercontinentali. Il porto principale è Bissau, sull’isola dello stesso nome, posta all’imboccatura del Rio Geba: ma il centro politico è Bolama, che è anch’essa posta sopra un isolotto, e presenta l’aspetto piú ridente e ospitale.

Incomincia subito per noi, in questi giorni che ci dividono dalla partenza per l’America, una vita strana di attesa. Facciamo soprattutto lo studio dei bollettini meteorologici che ci arrivano tutti i giorni, e piú volte nello stesso giorno. Gran parte del buon successo dell’impresa dipende dalle condizioni del tempo e, poiché si tratta di superare una distanza di tremila chilometri, non è facile mettere d’accordo tutti i dati che ci arrivano. La scelta del tempo migliore risulta inoltre non soltanto dallo studio dei dati certi ma anche dal calcolo sui dati probabili.

Nel frattempo si preparano accuratamente gli apparecchi. Quantunque già, alla partenza da Orbetello, essi siano stati molte alleggeriti, tuttavia in questi giorni è moltissimo il materiale che si può ancora scaricare. Per dare il massimo posto al carburante, li vuotiamo completamente. Non resta sull’apparecchio neppure il battellino di salvataggio di gomma, che dovrebbe servire a dar ricovero agli equipaggi in caso di perdita dell’idrovolante. Varrà per tutti noi lo stesso principio che è in vigore sulle navi per il solo capitano, che scompare nei gorghi marini allorché l’avverso destino vuole che la nave non si salvi. L’equipaggio degli idrovolanti atlantici resterà sull’apparecchio fino all’ultimo momento difendendone ad ogni costo la sorte come si trattasse di se stessi: ma deve considerarsi perduto nel momento in cui è perduto l’apparecchio. Un battello di gomma, che va alla deriva sull’Oceano, rappresenta del resto un caso di salvataggio quasi impossibile.

Sull’idro non rimangono che l’àncora galleggiante e le cime, oltre agli strumenti di navigazione.

Contemporaneamente si procede subito ad una rapida revisione ed ai rifornimenti. Sono deciso a partire il piú presto possibile. Se il tempo lo permette, il decollo può avvenire anche nella notte tra il due e il tre gennaio. Viene quindi caricata su ogni apparecchio la quantità prescritta di carburante e di olio: per la traversata dei 3.000 chilometri occorrono chilogrammi 3930 di miscela e chilogrammi 150 di olio. Coll’equipaggio, l’acqua e i viveri, il carico sarà quindi complessivamente di chilogrammi 4650.

L’operazione di rifornimento non è facile. Vi attendono oltre al personale della base, gli equipaggi stessi del volo, che hanno una cura meticolosa del proprio apparecchio e in certi momenti se lo guardano con occhi da innamorati.

Il Colonnello Ilari ha predisposto 14 battellini a remi, ognuno dei quali porta una minuscola insegna col nominativo radiotelegrafico dell’apparecchio corrispondente: Ibalb, Ivall, Imadd, Ilong, ecc. Queste imbarcazioni fanno la spola tra la riva e gli apparecchi che sono ancorati sopra una lunga linea diritta in mezzo alla baia.

Intanto, in attesa, e una volta fatti i rifornimenti, occupiamo alcune ore del giorno a percorrere le immediate vicinanze della città che offrono insospettati elementi di meraviglia e di studio per noi, in gran parte nuovi all’Africa tropicale. Un giovane portoghese, il signor Caravalho, funzionario del Governo di Bolama, qui residente da molti anni e cacciatore appassionato, ci propone una perlustrazione fino al prossimo villaggio negro di Cassini. Partiamo di notte in automobile e per otto ore percorriamo un sentiero che attraversa un’immensa foresta equatoriale. Bande di scimmie ci salutano al passaggio, arrampicate sui palmizi, dondolando sui rami e sporgendo verso di noi una bocca larga e stridula. Sono i macachi che gli indigeni non riescono a distruggere, quantunque ne uccidano in grande quantità perché sono dannosi alle coltivazioni. Tiriamo loro qualche fucilata: ma le urla che fanno morendo c’impressionano cosí vivamente, hanno un tono tanto umano che non abbiamo il coraggio di insistere e li lasciamo gridare in libertà. La foresta si estende per un’enorme striscia, tra l’Oceano e il fiume. Essa è cosí folta e densa di intrigo vegetale, che difficilmente permette il passaggio. Enormi alberi svettano verso il cielo nella piú straordinaria varietà di forme e di tipi: tutta la flora tropicale è qui rappresentata. In basso, fra tronco e tronco, crescono a migliaia e migliaia gli arbusti, le liane, le piante rampicanti.

Il villaggio negro si trova all’estremo lato Sud. Ha un aspetto poco confortabile, ma la popolazione che lo abita è amabile e cortese. Sono forse gli indigeni piú miti di tutta l’Africa. Ve ne è di due razze, i «mandinga» e i «fulla». Questi ultimi sono di forme piú belle. Hanno il solito viso scimmiesco dei negri, ma corpi perfetti. I nostri ufficiali fanno innumerevoli fotografie. Naturalmente vogliono fotografare le donne. I mariti negri non fanno difficoltà, anzi chiedono subito se le vogliono fotografare svestite e si affrettano a dare ordini alle loro mogli le quali posano coll’aria piú naturale del mondo. I negri non danno alcuna importanza alla cosa. Vengono organizzate in nostro onore danze collettive. Alcune di queste sono veri e propri «blakbottom» all’ultima moda. Altre hanno carattere simbolico. Vi è una danza detta «del cavallo» nella quale un negro si mette sulla testa un casco a lunga criniera, che dovrebbe ricordare la testa del nobile animale. Si cinge il corpo di un vestito di paglia e balla ritmicamente, saltando. Altre danze hanno significazioni guerriere, altre allusioni sessuali. Tipica la «danza del cigno». Il movimento ritmico si sviluppa prevalentemente nelle parti posteriori. Noto come la civiltà piú raffinata dei paesi bianchi si sia affrettata a copiare queste movenze tutt’altro che eleganti nelle danze moderne che fanno la delizia dei ritrovi mondani.

Grandi partite di football vengono organizzate tra i marinai delle nostre navi e gli indigeni. Vi partecipano spettatori degni, per numero, di una arena europea, ma forse piú interessanti... I nostri marinai vincono sempre.

Un altro spettacolo interessante ci offrono i negri di Cassini: la lotta greco-romana. Stabiliamo il«Gran Premio Guinea» di 100 scudi portoghesi e altri premi minori. I negri fanno la lotta secondo le norme classiche in uso nella antichità e rispettate anche oggi nei paesi civili: il vincitore deve mettere il suo avversario con le spalle a terra. L’invito alla lotta vien fatto con gesti curiosi che rappresentano forme di provocazione o di eccitamento o di cavalleria: sarebbe difficile stabilirlo.

Prima di abbrancarsi, i lottatori fanno un giro per la piccola spianata a testa alta: e anche questo ha la sua rispondenza nella classicità: è una specie di esibizione che permette allo spettatore di ammirare i campioni della gara imminente e di valutarne le probabilità di vittoria. Questi negri hanno movenze agili e una certa plasticità di forme che dà ai loro corpi una bella linea. Il campionato di lotta trova in noi un pubblico entusiasta, un pubblico — possiamo ben dirlo — di eccezione.

A un certo punto mi accorgo che è scomparso il maggiore Longo. Lo cerco, lo chiamo: inutile: si è inlvolato in difficile colloquio colla moglie del re dei Fulla! Il caso è grave. Mando qualche altro a cercarlo, ma, ahimé, non tornano piú neppure i messaggeri. Sono tutti impegnati ad esaminare con aria da conoscitori il sesso gentile della famiglia reale. Del resto sono belle ragazze e i negri non se ne curano affatto. È la cosa piú normale del mondo, piú normale ancora che non sia presso certi popoli civili.

Torniamo sul tardi quando già la sera incomincia a calare sulle fronzute chiome delle foreste che attraversiamo sparando ogni tanto qualche colpo di fucile. Non manca la selvaggina. Tutta la fauna tropicale respira e vigila nel mistero pieno d’ombra degli alberi giganteschi: pantere, leopardi, leoni. Uccido un leopardo col sistema caratteristico di questi paesi: si fissa in fronte una lampadina elettrica: questa getta tra i rami il suo raggio e immobilizza gli occhi vitrei fosforescenti della belva, che presenta cosí una mira sicura.

Davanti a noi fuggono antilopi, gazzelle, gattopardi, falangi di macachi stridono al nostro passaggio. È uno scenario da romanzo d’avventura.

Abbiamo festeggiato il capodanno con una grande caccia all’ippopotamo. Ci fa da guida il gentile portoghese signor Caravalho, che ha una passione e una esperienza invidiabile.

Partiamo all’alba, io, Maddalena, Longo, Napoli, Baistrocchi, Cecconi. L’automobile ci conduce ancora una volta attraverso una gigantesca foresta, per un sentiero appena tracciato che lo percorre da capo a fondo. Il groviglio degli alberi e dei rami è ancor piú folto e intricato e sbarra il passaggio all’indiscreto che volesse violarne la verginità. Questo è il regno della pura natura, che alimenta alberi e belve in assoluta libertà, fuori del controllo e del dominio dell’uomo. Passandovi in mezzo, sentiamo la relatività delle nostre forze, la sproporzione tra il nostro orgoglio di animali privilegiati e l’imponenza di un mondo ancora ignoto che vegeta e prospera incontrastato e incontrastabile entro il suo fitto manto di boscaglie. Pure, la misteriosa verginità della natura è proprio il maggiore eccitamento alla lotta. Ci sentiamo (la cosa non manca di farci sorridere) veri cacciatori di belve.

L’automobile ci trasporta, dopo questa corsa fantastica, all’orlo di una vasta laguna, dove ci attende il battellino di una delle nostre navi, qui portato in precedenza sopra un camion. Fatto il trasporto sul battello, ci incontriamo, con un corteo di piroghe indigene, spinte a remi dai negri, sopra le acque pesanti, che ci svelano un fondo folto di erbe lacustri, specie di prateria capovolta, grassa e lussureggiante. Attraversiamo la laguna. Davanti a noi si stende ora uno spiazzo a prato, verdissimo, limitato in fondo da un’altra enorme foresta, che la nostra guida ci dice essere piena di felini e di elefanti.

Gli ippopotami vengono a partorire su questa laguna che è, per questo fatto, il luogo piú propizio alla caccia. Da principio stentiamo a crederci. Prendiamo posto sopra il battello e le canoe indigene, tenendo pronti i fucili. Tiriamo sopra due splendide antilopi. Io uccido la mia, Caravalho sbaglia la sua: piccolo disappunto della nostra guida!

Quando meno ce l’aspettiamo, ecco uscire dall’acqua, a poca distanza da noi, non una, ma ben tre teste d’ippopotamo, con l’enorme bocca piatta da can bulldog.

Le bestiacce hanno avvertito contemporaneamente il pericolo e rituffano la testa nell’acqua dandosi alla fuga. Noi le inseguiamo con la flotta delle piroghe, eccitando gli indigeni, già un po’ spaventati, a spingere i remi con tutta forza. È facile indovinare la corsa dei mostri subacquei dalla scia di bollicine d’aria che affiora sull’acqua al loro passaggio. L’inseguimento drammatico e pittoresco intercalato da fucilate ogni volta che una testa affiora, dura tre ore. Finalmente ne cogliamo uno a morte. L’ippopotamo agonizzante mette fuori dell’acqua mezzo corpo, e lancia ruggiti terribili muovendo intorno un vasto volume d’acqua. Gli indigeni hanno una matta paura e vogliono scappare. Li tratteniamo a stento. L’ippopotamo, giunto agli estremi aneliti, annaspa furiosamente con le zampe enormi sull’acqua, poi scende a fondo.

Noi ce ne ritorniamo. Una piroga si incaricherà poi di rimorchiare a terra l’animale morto che verrà a galla fra due ore e di portarlo a bordo dell’«Alice».

Abbiamo passato un Capodanno indimenticabile.

Questa è la nostra ultima impresa africana. Dobbiamo ormai accelerare i preparativi della partenza. Gli equipaggi ormai non si distaccano piú dagli apparecchi.

In quei giorni — subito dopo Natale — avemmo anche una visita molto gradita: il pilota Rasini venne in volo col suo piccolo Fiat da Dakar a portarci il saluto della pattuglia turistica italiana che stava per condurre felicemente a termine il periplo africano di circa 30.000 chilometri. Rasini mi portò il saluto di Lombardi e di Mazzotti che avevano dovuto sostare a Dakar per una indisposizione. Il saluto dei tre campioni del turismo aereo italiano, ci recò grande gioia. Facemmo festa al camerata Rasini, il quale rimase con noi due giorni e poté assistere agli ultimi preparativi per il grande volo.

La mia speranza di anticipare la partenza risulta impossibile perché i bollettini meteorologici continuano a darci notizie di tempo avverso sull’Oceano. Siamo perseguitati dai piovaschi, che ci vengono segnalati anche sulla prima parte della rotta. Il vento spira da Sud, l’aliseo classico non compare piú. Cosí passano, in una impazienza crescente, il giorno 3 e il 4 gennaio. La nostra attesa ha ormai un carattere febbrile. Scrutiamo di continuo il mare e il cielo. Tutte le ultime istruzioni sono state date. Maddalena fa una prova di decollo a carico completo. Riesce splendidamente.

Gli apparecchi sono prontissimi, il rifornimento è già stato fatto fin dai primi giorni del nostro arrivo a Bolama. Non resta che trovare un po’ di tempo favorevole: e spiccheremo il gran volo verso l’opposta sponda atlantica. Il verso di padre Dante che ho preso come motto della squadriglia nera, ci invita ai liberi orizzonti oceanici.

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