Capitolo IX NATALE AI TROPICI

La serata della vigilia di Natale a Villa Cisneros è stata piacevole. Non soltanto l’ospitalità del tenente Governatore e degli aviatori è stata ispirata a quell’incomparabile stile spagnuolo, che direi virile e raffinato insieme, ma la compagnia degli spagnuoli, che sono qui in un gruppo molto affiatato e hanno immediatamente fraternizzato coi nostri, ha fatto scorrere le ore piacevolmente. L’aerodromo di Villa Cisneros è — come tutti questi dell’Africa — un campo di sabbia dura, su cui è segnato un doppio T. Eppure, gli spagnuoli si sono organizzati nell’hangar e nella casermetta, in modo da dare l’illusione di vivere in un lembo di Spagna, piú che sopra la costa desolata dell’Africa misteriosa. Hanno una sala da pranzo, illuminata brillantemente, con altre vicine, dove il tempo non è lungo e pesante a passare: uniformi sobrie ed eleganti, discorsi vivi e spiritosi, e perfino quadri e disegni ai muri. Essi suppliscono con la filosofia del buon umore e con l’affiatamento reciproco alla desolazione del deserto africano: l’arrivo e la partenza dei velivoli postali, che càpitano quasi sempre di notte, portano le ultime novità del mondo civilizzato, di qua e di là dall’Atlantico. La civiltà moderna ha messo a loro disposizione per tre volte alla settimana «el correo aereo», un mezzo potente che dà l’illusione di non essere del tutto dimenticati dal resto dei viventi. «Escuadrilla del Sahara español-Aerodromo de Villa Cisneros»: ogni aviatore italiano ricorderà perennemente questa scritta e i discorsi che vi si fecero, gli episodi che vi furono narrati, i racconti d’Africa che animarono le fantasie.

Non manca chi ci incarica di salutare qualche amico lontano, di là dall’Oceano.

La stanza, che il Governatore ha messo a mia disposizione per la notte, è di un perfetto stile cittadino e toglie all’ospite qualsiasi angosciosa sensazione di trovarsi in una specie di cella di fortezza.

La sveglia naturalmente è all’alba.

Anche a Villa Cisneros, il freddo, durante la notte e nelle prime ore del giorno, è pungente. Usciamo quindi vestiti da inverno. Avremo modo e tempo di immagazzinare calore tra qualche giorno! Mi sveglio con l’immediato barlume che oggi è Natale. La dolce festa famigliare sarà passata in volo! È un modo come un altro di darle una certa solennità. Già da tempo avevo stabilito questo programma per il Natale degli aviatori. E in fondo non è stato male che siano sopravvenute le tempeste del Mediterraneo, a ritardare di tre giorni la nostra corsa sul mare. Siamo, stamane, tutti elettrizzati. Con l’aiuto del chioggiotto Cavallarin, gli equipaggi sono presto a bordo. Il mare è un po’ grosso dentro la baia e dobbiamo attendere qualche tempo per decollare. Col megafono, stando sull’ala, passo i miei auguri all’apparecchio vicino e questo all’altro e cosí di seguito. Il «Buon Natale» corre sulle ali bianche che il sole già accarezza.

Prendono parte agli allegri richiami, il capitano Cavallarin, col maresciallo montatore Guido Baffigo e coi due sergenti Fontana ed Izzo, che ci vedono partire con una certa malinconia. Noi avremo una festa natalizia piú brillante della loro.

Dai soliti bollettini radio-telegrafici, come già nei giorni precedenti, mi giungono buone notizie sulle condizioni del tempo. Oggi potremo collegarci con le radio di Port-Étienne, di Dakar e di Bolama. Sono quasi le nove. Il mare si è un po’ calmato. Partenza! Gli apparecchi si innalzano rapidamente nell’aria luminosa, mentre all’orizzonte il sole già alto sulle acque, crea l’illusione di una scena magica a tinte oltremarine, rosee e violette. Sono, esattamente, le 8,50.

Questa, di oggi, sarà una delle piú lunghe tappe: circa otto ore di volo, se il tempo ci aiuta. Bisogna arrivare a Bolama prima del tramonto, che laggiú avviene alle 18,30. Il volo ha un bell’inizio: calmo splendere di cielo, di terra, di acqua. Siamo già un po’ abituati al deserto del Rio de Oro e non facciamo quindi troppe meraviglie nel constatare che alla nostra sinistra continua, a perdita di vista, l’immensa solitudine della terra. La costa è orlata dalle spume del mare, che formano disegni sempre diversi, a seconda dei frastagliamenti del litorale; ciò basta a darci un po’ di varietà di panorama.

Appena incomincia la navigazione regolare verso il Sud, lancio un telegramma augurale al Re, ed uno al Duce. Mi pare di seguire, mentre volo, il volo piú veloce del nostro pensiero di affetto, che scocca come un breve baleno, sulle antenne radiotelegrafiche, per la strada aerea di Roma.

Il nostro viaggio continua su questa costa della desolazione.

Arriviamo a Capo Barbos che il sole già sfolgora in tutta la sua forza. Qualche scoglio e isolotto esce dalle acque prossime alla costa: non vi è però segno di vita. L’isola Pedro de Galhe raccoglie soltanto un piccolo gruppo di uccelli acquatici.

Avvisto Capo Correiro e, in fondo, il Capo Blanco, che segna l’estrema punta del dominio spagnuolo. Ora entriamo nel regno dell’Africa Occidentale francese. Ecco le prime avvisaglie del Senegal: capanne di negri.

Port Étienne sta all’apice di una penisoletta, sottile come un pugnale conficcato sui fianchi dell’Oceano, tra due anse magnifiche, la baja di San Cipriano e la baja del Levrier. Non conta piú di una diecina di casupole europee dove vivono venti o trenta bianchi, e cioè, gli ufficiali che comandano la guarnigione, tutta composta di gente di colore, un medico civile e i funzionari della stazione di radiotelegrafia. Ma anche queste bicocche sono seminascoste dalle dune e sparse qua e là, cosicché dall’alto si vedono solo le barchette del piccolo porto. Le acque di Port Étienne sono straordinariamente pescherecce. La Francia ne dirige e controlla lo sfruttamento e ne organizza la esportazione, ricavandone grossi margini di guadagno. Ma la ricchezza esula verso l’Europa. Infatti qui il paesaggio ha un aspetto di estrema miseria. Il clima è perfido.

La gente in basso cammina con larghi cappelli coloniali, perché il sole è di un violenza pericolosa. Soprattutto gli europei hanno difficoltà a tollerarlo. Anche ora, che non è giunto all’apice del cielo, infuoca l’aria e la rende pesante. Ci mettiamo tutti il casco coloniale bianco, alto come una cupola e a falde larghe, che ci trasforma un poco in «pizzardoni» del cielo.

Ci alziamo di qualche centinaio di metri, per trovare quella zona ideale, né troppo calda né troppo fresca, di cui soltanto gli aviatori sanno il segreto, quella specie di aerea galleria, che rende il volo tanto piacevole.

Anche gli aspetti del paesaggio sono molto migliorati nei confronti del Rio de Oro. Ma siamo sempre nella zona piú infernale dell’Africa sitibonda, estrema propaggine del Sahara. A Port Étienne i francesi hanno costruito un condensatore, che raccoglie raddolcisce e filtra le acque marine. È sempre meglio di quanto non accada a Villa Cisneros, i cui 250 abitanti debbono bere l’acqua che viene trasportata dalle Canarie. Ogni tanto si scorgono, vicino ai villaggi della costa, pozzi all’araba e pompe ad aria dalle grandi braccia distese. Insomma, si ha l’impressione che i francesi facciano, su queste sponde dell’Africa tropicale, quanto sta in loro potere per valorizzare la colonia. L’Impero francese sull’Africa Occidentale è immenso. Si può dire, che dall’Atlantico riarso e sabbioso, al verde e ridente Mediterraneo, e dal Mar Rosso ai Laghi, e di nuovo all’Atlantico, la Francia domini senza soluzione di continuità un’intera metà del Continente Nero. È uno sforzo di secoli, che la Terza Repubblica è riuscita finalmente a sfruttare.

Poco sotto Port-Étienne abbandoniamo la costa, e tagliamo diritti sul mare aperto per circa 700 chilometri. L’Oceano ha, come sempre, la sua onda lunga, per noi poco preoccupante. Spaziamo liberamente in un cielo estremamente limpido, come una seta azzurrina, tesa all’estremo, senza una piega.

Ritorniamo sulla costa poco prima di Saint Louis. Il vento spira da sud. Ecco la Guinea Francese.

I commercianti di Rouen e di Dieppe hanno incominciato a frequentare le coste della Guinea verso la fine del 1300. Ma i primi a correre su questi mari furono genovesi e veneziani, che vi lasciarono qualche volta la vita e non ne ricavarono che benefici... per gli altri: ombre generose, anime audaci, dei fratelli Vivaldi, dei Da Recco, dei Malocello, forse vi risvegliate al passaggio delle svelte navi italiane, gli esploratori velocissimi, che portano il vostro nome e che oggi accompagnano il nostro volo?

Nel 1364 l’isoletta di Goré, che ci compare ora davanti, fu stabilita come un punto di approdo per i traffici della Francia: ma i fratelli Vivaldi, genovesi, vi erano giunti e naufragati un secolo prima. Malinconie! Dopo una breve parentesi, al tempo della guerra dei cent’anni, che ridusse al nulla i diritti francesi, a tutto profitto dell’Inghilterra, il grande Richelieu, intorno al 1640, riconquistò l’Isoletta di Goré e fondò la città di Saint Louis. Al principio del 1700, su queste foci del maestoso Senegal, che stiamo trasvolando, i francesi fondarono la loro prima colonia africana, sotto la guida geniale di André Brues, che iniziò le colossali piantagioni dell’interno, sul modello di quelle che gli altri popoli occidentali già organizzavano sulle rive dei fiumi indiani. Alla metà dell’Ottocento il generale Faidherbe, una delle piú interessanti personalità della moderna epoca coloniale francese, diede alla colonia primogenita del Senegal il massimo sviluppo, dapprima come funzionario, poi come politico, quindi come militare e come scienziato. Il suo sistema chiaro, conseguente e lungimirante, di collegamento fra l’uno e l’altro possedimento africano, non soltanto della Francia, ma anche degli altri Stati europei, il suo modo di amministrare le popolazioni indigene, in un felice contemperamento tra i diritti locali e quelli della madre patria, aprí la strada ai suoi successori, per fare del Senegal una residenza coloniale straordinariamente produttiva e pacifica. Oggi il territorio, che noi sorvoliamo, sta tra i piú ricchi dell’Impero francese d’oltremare. L’esportazione dei prodotti del retroterra gareggia con quella della pesca sulla costa. Dei 163.000 soldati, che la Francia reclutò durante la guerra mondiale nell’Africa Occidentale, circa due terzi sono partiti di qui. Le quattro città della costa, Saint Louis, Dakar, Goré e Rufisque, hanno una amministrazione autonoma. Dal 1916 tutti coloro che nascono in queste città sono di diritto cittadini francesi. Cosí si riempiono a macchina i vuoti demografici della Madre Patria!

A mano a mano che ci avviciniamo a Dakar, compaiono frequenti, sul mare, piccoli e grossi piroscafi, che battono le piú svariate bandiere del mondo. Dakar è uno scalo obbligatorio per le navi che debbono fare la traversata atlantica e non hanno sufficiente autonomia di combustibile. L’Aeronautica francese pensa di far partire di qui il servizio aereo permanente fra l’Africa e il Brasile.

Dakar non si scopre subito, giungendo dal Nord per le vie dell’aria. La costa procede diritta, tagliata nettamente sul mare, fino a Capo Verde, colossale sperone dell’Africa tropicale, vigilato al largo dal pittoresco arcipelago dallo stesso nome, le cui isole ci si presentano, forse sí forse no, all’orizzonte, con illusorii e sottili colori madreporici, in una visione irreale.

Via via che il viaggio procede, lancio a Roma, uno ogni ora, brevi messaggi radio-telegrafici, per informare il Duce e gl’Italiani sulle fasi del volo, che non potrebbe essere piú regolare. Quando, sull’ora di Greenwich, calcolo che in Italia sia mezzogiorno, scrivo su un foglio del mio blocchetto un messaggio piú lungo e lo dò al radio-telegrafista Tenente Venturini, affinché lo comunichi subito all’Eiar: in questo momento tutte le famiglie dei transvolatori sono riunite al desco natalizio, col pensiero rivolto a noi e quasi tutte stanno in ascolto alla radio, per avere le notizie del volo. Nel mio messaggio dico ai nostri cari lontani che anche noi pensiamo a loro, che vogliamo loro molto bene, che navighiamo felicemente sull’Oceano, in perfette condizioni di spirito: e che facciamo loro tutti i nostri auguri. Il messaggio radio-telegrafico viene intercettato dagli apparecchi, che mi seguono, dove si sta continuamente in ascolto, e certo molti occhi di transvolatori, leggendolo, luccicano di commozione.

Fatto il messaggio, passiamo anche noi al pranzo di Natale. Non è molto lauto: quel che passa l’aereo convento: una scatoletta di pollo in gelatina e caffè.

Durante la transvolata abbiamo bevuto sempre acqua. Ma oggi abbiamo con noi vino di lusso: una bottiglia prelibata che ha piú di un secolo: vino di Porto del 1805! me l’ha regalata, partendo da Orbetello, l’amico Generale Sacco. È un vino aromatico, prezioso, dal colore delicato: ma è potente come una torpedine: ne bevo un sorso e sento che mi brucia in gola. Con questo sole dei tropici è bene non esagerare! Cagna è del mio stesso parere e si inumidisce a lungo con la lingua le labbra bruciate. Passiamo la bottiglia nello scafo, dove Cappannini e Parizzi, ignari della potenza segreta di quel liquore, ne bevono un po’ troppo... A un certo punto, mentre sto lottando intrepidamente con un pezzo di pollo, che oppone la piú valida resistenza, vedo scomparire Cagna nei recessi misteriosi dello scafo, tra i grossi serbatoi. Cagna mi fa una sorpresa. Fruga tra le valige e ricompare sul seggiolino di pilota con una mezza bottiglia di champagne. Bravo Cagna! Lasciamo partire allegramente il turacciolo e beviamo lo spumante a seicento metri di quota, come augurale saluto al Natale.

Il mare è ora piú mosso. Il continente, giunto alla punta di Capo Verde, fa un brusco voltafaccia: la costa ripiega in un gomito ad angolo retto. Altri dieci o quindici chilometri, e la terra ferma fa un altro angolo strettissimo: ecco formata una leggiadra penisoletta.

Alla estremità della penisola, che, da tre lati ha l’Atlantico azzurro, e all’apice si unisce con il continente, vi è una bella baia rotonda, protetta da tutte le parti: qui sta incuneata la città di Dakar.

Una grande lanterna, alta centocinque metri, domina il Capo Verde. I suoi raggi guadagnano uno immenso spazio di mare. Un altro faro illumina l’entrata del golfo di Dakar. L’antenna della stazione radiotelegrafica è piantata presso i margini della cittadina, ad occidente. L’abitato del golfo è distribuito nel modo piú bizzarro e pittoresco. All’imboccatura, piantata nel cobalto purissimo dell’Oceano, è l’isola di Goré, che non dista da Dakar piú di tre chilometri: sulla sponda del golfo, nettamente opposta a Dakar, quasi a specchio di quest’ultima, è la città di Rufisque, che si annuncia con un’altra svelta e potente antenna radiotelegrafica. Qua e là vi sono, sulla costa, gruppi di abitazioni, in muratura e in paglia, ciuffi d’alberi, minuscoli stagni. Una ferrovia parte da Dakar, gira intorno al golfo fino a Rufisque, e si lancia nell’interno, verso il lontano corso del Senegal e del Niger. Dakar conta 40 mila abitanti, 15 mila ne ha Gore e 17 mila Rufisque. Sono, senza dubbio, i piú grossi conglomerati umani della costa atlantica tropicale: e cosí vicini l’uno all’altro, formano, si può dire, un’unica città, di quasi 60 mila abitanti. Certo non si spiegherebbe questo enorme progresso, senza la felice ubicazione del porto e senza la benefica influenza dei due grandi fiumi vicini, il Senegal e il Niger.

Entrambi dominano con le loro acque, abbondanti e perenni, il retroterra di Dakar, ricco e ridente. I due colossali serpenti bianchi irrigano e rinfrescano tutta la zona con l’aiuto degli affluenti e scendono al mare, dopo aver fatto un viaggio straordinariamente lungo e tortuoso.

Il Senegal si scarica in mare poco piú sotto. Il Niger inonda tutta la zona senegalese, per rovesciarsi poi, molto piú a sud, ai confini del Camerun nel grande golfo di Guinea.

Il paesaggio, nel frattempo, ha completamente cambiato decorazione: non piú l’arena gialla del deserto: lo scenario del continente è passato al piú intenso e violento trionfo del verde.

Procediamo ormai verso le regioni del Gambia, dalla vegetazione lussureggiante, tipicamente africana.

È incredibile l’effetto che questo splendore vegetale fa sull’animo nostro, tediato da tanta sabbia brulla. È una sinfonia di freschezza, è un gioioso messaggio di vita nuova, e, insieme, l’annuncio che la mèta ormai è vicina.

Alle foci del Gambia è la cittadina di Bathurst, capoluogo della colonia inglese, sottile striscia di terra, innestata dentro il possedimento francese del Senegal, come uno spicchio di carne in un sandwich.

Siamo ormai alla regione dei tropici. Anche qui gli esploratori italiani, di Genova e di Venezia, si spinsero per i primi con le loro navi, armate, ahimé, dagli stranieri. Questo è il superbo e vasto regno di Antoniotto Usodimare, il geniale navigatore-pirata, che scopriva isole e terre ferme, per colmare una voragine di debiti, pressato dagli ingordi creditori di Genova: qui presso, alle Isole di Capo Verde, s’incontrò con un italiano degno di lui, Alvise da Cadamosto, veneziano: l’uno non sapeva dell’altro e proseguirono insieme sino a Rio Grande, battezzando con nomi augurali di santi e di belle donne le nuove terre. Li arruolava Enrico il Navigatore, il piú grande monarca che mai abbia avuto il Portogallo, e li pagava coi due terzi del bottino, se ve ne era, annettendosi intanto, d’urgenza, le regioni scoperte.

Dal millequattrocento, per due secoli intieri, i portoghesi rimasero qui i soli rappresentanti della lontana Europa. Verso la fine del Seicento, giunsero gli Olandesi: quindi nel 1680 vi arrivarono i tedeschi della marca di Brandenburgo, spinti quaggiú dal loro grande principe Federico Guglielmo. Dal 1821 appartiene all’Inghilterra, che nel 1889 ne riconobbe l’autonomia amministrativa.

Il possedimento delle bocche dei fiumi della Guinea aveva enorme importanza dal punto di vista del commercio degli schiavi. Dai primi periodi di valorizzazione del territorio americano, fino alla metà dell’ottocento, di qui sono partiti, a migliaia e migliaia, i negri, destinati alle coltivazioni della canna da zucchero, del cotone e del caffè. Era un commercio ricchissimo, nel quale gareggiavano un poco tutte le marine europee. Le profonde foreste, che sfilano sotto i nostri occhi, lasciavano allora passare carovane immense di schiavi, venduti dagli indigeni in cambio di cavalli, di tessuti, di chincaglierie, strappati all’interno, di viva forza, dai crudeli e ingordi guerrieri dei sultanotti costieri e portati sul litorale al mercato. Spesso il padre vendeva il figlio, il fratello vendeva la sorella. Bathursth era la piazza di smistamento della carne umana. Quando, nella seconda metà del 1800, la civiltà nuova impose al mondo la fine di questa vergogna senza nome, molti fra questi negri miserabili fecero ritorno alle regioni avite e l’America ne rovesciò oltre 12 mila a costituire, piú a sud, la libera repubblica della Liberia. Da allora il commercio degli schiavi fu sostituito con quello del riso, dell’olio di palma e del caucciú. Oggi gli alberi di palma rinfoltiscono queste regioni, insieme con quelli del cacao e delle altre piante tropicali. Le varie competizioni europee, dopo che finí il commercio degli schiavi e che questa landa d’Africa cessò di essere la «terra di nessuno», frastagliarono nella maniera piú variopinta la carta geografica della regione. Inglesi, francesi, portoghesi, spagnuoli suddivisero la loro sfera di influenza. Il Gambia britannico è lungo 350 chilometri. Fino all’isola Mac Carthys, cioè per circa 250 chilometri lungo il corso del fiume, i piroscafi oceanici possono risalire verso l’interno sulle acque gonfie e profonde del suo vasto letto. Le imbarcazioni che pescano meno di due metri vanno anche piú avanti. Gli Inglesi, cosí, hanno potuto risparmiare la costruzione della ferrovia. Piccoli battelli fluviali fanno un servizio di posta abbastanza regolarmente nell’interno della colonia. Il clima, dal novembre al maggio, è secco e rinfrescato dal vento marino, ma dal giugno all’ottobre è cosí malsano che rende la vita poco sicura. Gli indigeni, circa 150.000, sono tutti dediti alle colture tropicali: al riso in modo particolare. I tre quarti dell’esportazione di questo vanno verso la Francia. La città di Batursth nell’Isola di Santa Maria e i suoi immediati dintorni, comprendono circa undicimila abitanti: come le genti che abitano sulle sponde del Nilo, così questi vivono e prosperano grazie alle periodiche inondazioni del fiume, che, visto dall’alto, ci presenta un volume d’acqua limacciosa, violenta, a vortici e a mulinelli.

Attraversiamo, volando sempre verso il sud, e mantenendoci al largo, un’altra foce di fiume, il Casamance, con un minuscolo villaggio sulla costa, Carabana. Il letto di questo fiume, con una piccola fetta di territorio sulle due sponde, appartiene alla Francia: ma dopo un centinaio di chilometri, ecco di nuovo la bandiera di un altro paese: quella del Portogallo.

Siamo ormai in vista dell’Arcipelago di Bissagos che fronteggia la costa frastagliatissima ove si trova Bolama, termine del nostro viaggio odierno.

Il paesaggio si fa straordinariamente pittoresco. La costa è letteralmente coperta dal verde intenso delle foreste: il mare si insinua in mezzo in un sistema di anfratti e di golfi strettissimi. Isolotti e scogli sono sparsi a capriccio sul mare e mettono macchie scure sopra l’azzurro intenso che da quasi otto ore ci ha presentato soltanto una liscia superficie metallica. È ormai il tramonto e i colori delle acque raccolgono tutti quelli del cielo e li sciolgono in una gamma iridescente. Grandi strisce gialle violacee piovono sulle chiome selvagge delle foreste.

Eccoci sopra l’arcipelago-estuario. La terra si fraziona, si suddivide, si innesta al continente attraverso il suo frastaglio di canali, di laghetti, di golfi e di stretti. Le acque sono piú bionde che azzurre e ricordano quelle della laguna di Grado, un po’ stagnanti, ma al centro sono molto profonde, e propizie al navigante. La vegetazione tropicale violenta e gigantesca, invade il terreno, lo occupa e getta lunghe ombre sul mare. In quel dedalo è la nostra bella nave l’«Alice» innanzi ad una piccola cittadina: Bolama.

Scorgo, fermi all’àncora, tre esploratori, il «Da Recco», il «Da Noli», il «Tarigo». Tutti e tre sparano a salve in nostro onore. Vedo uscire dalle bocche dei cannoni bianche nuvole di fumo che circondano le navi di una cortina trionfale. Apro la cabina, sollevandone i grossi vetri: mi alzo in piedi. La scena è superba. Il sole, già prossimo al tramonto, indora enormi chiome di foreste, che spingono verso le acque della baia i loro rami fronzuti. Le acque specchiano un cielo epico. L’anima si esalta.

Sono le 17,27 di Greenwich. Cagna, che bene conosce il posto, mi indica la linea dei gavitelli. Ammariamo per squadriglie, con gli apparecchi su due linee di fila. Il Tenente Colonnello Eraldo Ilari, che, insieme col Capitano Bruno Borghetti e col sergente Guglielmo Pol, ha organizzato la base, ci viene incontro con un motoscafo della R. Aeronautica sul quale vedo l’Ammiraglio Bucci in alta uniforme visibilmente commosso. Ci abbracciamo e con lo stesso motoscafo andiamo a prendere sui loro apparecchi Valle, Maddalena e Longo.

Il pontile di sbarco a cui approdiamo, immette in una piazzetta circondata da palmizi e da due baobab, molto decorativi. Il Governatore della Guinea portoghese è assente e arriverà soltanto tra due giorni. Si presenta il Vice Governatore, che mi porta il saluto del suo Governo. Due ali di soldati mi presentano le armi. Vi sono anche una ventina di bianchi allineati per renderci omaggio con qualche gentile signora. Dietro i soldati si affolla una straordinaria e pittoresca turba di negri, alcuni completamente vestiti, altri con uno straccettino intorno alla vita, altri con un drappo di tela rossa sulle spalle, espressione della piú squisita eleganza locale. Tutti questi neri fanno il piú indemoniato baccano: è un modo come un altro di farci accoglienza ed ha tutti i caratteri della vera spontaneità. Gridano «Viva Italia», agitano le braccia, hanno gli occhi sbarrati dall’entusiasmo. Incontro sul pontile anche il giornalista italiano Perbellini, ch’è giunto a Bolama sull’«Alice», ed ha un tout-de-méme color kaki, elegantissimo, con ricco casco coloniale. Lo saluto dicendogli: — Come sta, caro Tartarin? — Mi risponde: — Galo visto i baloni? — e mi mostra i palloncini di carta e le luminarie che sono preparate sulla piazza in nostro onore. Il motto di Nina non far la stupida, ripetuto da quel puro figlio di Verona, diventerà in questi giorni molto popolare.

Tutti insieme ci rechiamo alla casa del Governatore, prossima al mare, a due piani, con una balaustra intorno. Le finestre sono protette da reti metalliche. Qui non mancano le zanzare. Nella sala da pranzo è preparato un cordiale ricevimento. Il Vice Governatore mi rivolge un bel discorso in portoghese, a cui rispondo in italiano, mentre mi giungono dal mare le note della marcia reale, sonata dalla fanfara del «Da Recco».

Ritorniamo a bordo dell’«Alice», dove hanno sede la mensa e gli alloggi degli equipaggi. Ormai è calata completamente la sera. Innanzi all’«Alice», sono ancorati i tre navigatori, che hanno acceso le luci di bordo. Regna una grande allegria. Gli equipaggi aerei, questa sera, sono tutti ospiti della Marina, che ha organizzato sulle tre navi un superbo pranzo di Natale. Siamo sopra un lembo d’Italia, tra compagni d’arme, fratelli nostri, che ristabiliscono intorno a noi, sulla costa d’Africa, un’aria di famiglia. Tutti partecipano a questo pranzo, gli ufficiali a poppa e i sott’ufficiali a prua. La sera di Natale trascorre cosí, in una specie d’intimità familiare, sulla grande baia che tra poco servirà come punto di partenza dei nostri argentei apparecchi verso lo sconfinato Oceano.

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