Capitolo XI «PER L’ALTO MARE APERTO»

Due giorni prima del nostro decollo sono partiti da Bolama i tre esploratori «Da Recco», «Tarigo» e «Usodimare» per prendere posizione sull’Oceano, in un punto già prestabilito della rotta che percorreranno i nostri apparecchi.

Ho salutato l’Ammiraglio Bucci qualche ora fa, sull’«Alice»: ad impedire una reciproca commozione, che sarebbe stata superflua per uomini del mare e del cielo al servizio della Patria, è sopraggiunta, proprio in quel momento, la spoglia dell’ippopotamo, che gli indigeni hanno trasportato a bordo della nave. Ci siamo tuttavia salutati molto affettuosamente.

Ora gli equipaggi degli idro sono tutti schierati sulla «Alice». I marinai sono a loro volta allineati sui ponti degli esploratori, mentre questi lentamente sfilano, sciolti dagli ormeggi, verso l’Oceano. Alto sul ponte di comando del «Da Recco», senza berretto, nella sua bianca tenuta estiva, l’Ammiraglio Bucci rivolto col megafono verso l’«Alice», grida con voce potente «Per S. E. Balbo: - I marinai d’Italia vi salutano, coi vostri compagni! Che Iddio vi protegga sul mare per la gloria della Patria!» Grido un alalà alla Patria, al Re, al Duce, e il mio grido viene ripetuto dai petti robusti dei miei equipaggi. Dal «Da Recco» alzano le note di «Giovinezza», mentre i marinai salutano alla voce.

Indimenticabile momento! Viva e folgorante, la Patria è qui, sul mare e sul cielo. Palpitano i nostri cuori. Le anime nostre sono gonfie come vele. Anelano allo spazio infinito. — Addio, Ammiraglio, arrivederci a Bahia!

Questa parola ormai ci elettrizza. Le navi sono già lontane e il loro fumo sfiocca tra le nuvole, in direzione delle isole Bissagos nel cielo costantemente imbronciato. Ho già detto che fin dal primo gennaio gli apparecchi erano pronti a partire e che era stato levato da bordo tutto ciò che non era strettamente indispensabile al volo, paioli, àncore, cime, battellino di salvataggio. Oltre agli istrumenti di navigazione e alla massima quantità di carburante, doveva restare sull’apparecchio, a disposizione dei transvolatori, soltanto un’àncora galleggiante per diminuire la deriva, in caso di forzato ammaraggio. Sono ormai apparecchi nudi, con un carico di carburante sufficiente per oltre venti ore di volo. È stato impossibile partire alle ore 23,30 del giorno 2 e del giorno 3.

Il Direttore dei nostri servizi meteorologici, Professore Eredia, esplicitamente mi ha dichiarato che occorreva attendere ancora un giorno o due perché la situazione generale dell’Atlantico stava rimettendosi sulla base del regime degli alisei. Ho rinunciato quindi a partire il giorno 3 e ho lasciato invariato, secondo l’antico programma, l’ordine di decollo per le ore 23.30 del 4, cioè per la sera della luna piena. Le navi della divisione navale, dall’Oceano mi hanno fornito durante il giorno quattro notizie non buone sulle condizioni del tempo. I bollettini davano cielo coperto quasi dovunque, una certa visibilità, qualche pioggerella minuta, e — quel che piú mi allarmava — grossi piovaschi all’orizzonte, che avrei incontrato nelle prime ore della notte. In queste condizioni ho giudicato pericoloso il partire e ho rimandato di un giorno il decollo.

Si è verificata una situazione nuova e pressoché sconosciuta sulle coste africane. La zona delle calme equatoriali, che avremmo dovuto trovare dopo sei ore di volo, cioè quando ormai sarebbe stato giorno, per la caduta dell’aliseo e il sorgere del vento del Sud, si è spostata verso Nord, coprendo il cielo di cumuli e di alti strati e determinando frequenti precipitazioni.

Per la notte di oggi, tra il 5 e il 6, la situazione, per quanto lievemente migliorata, è rimasta la stessa. Bisogna affrontare con molta prudenza l’improvvisa e pericolosa condizione del tempo. Ma se questo rimanesse uguale per altri tre giorni, certamente ci impedirebbe di fruire dei vantaggi della luna: non vi è dunque neppure la possibilità di aspettare, col pericolo di trovarci poi su quei margini estremi di navigabilità, che ci costringerebbero ad affrontare la traversata in qualunque condizione, con un rischio ancora maggiore. E poi chi ci garantisce che, attendendo ancora un giorno, la luna riuscirà a risplendere in un cielo sgombro di nuvole, e ci metterà domani nelle condizioni ideali, che da tre giorni invochiamo? E se, per caso, domani sera il tempo fosse peggiore? Se perdurasse per altri due o tre giorni in condizioni avverse? Bisognerebbe rimandare la crociera di un mese o rinunciarvi del tutto.

È quindi deciso: questa sera si parte. Ne sono avvisate le navi e la stazione di Natal. Per tutte le ore del pomeriggio e della sera continuo a studiare attentamente i bollettini meteorologici. Non mi vengono segnalate piogge per le prime sei ore di volo: dalla settima in poi, mi si avvisa, invece, che incontreremo grossi piovaschi. Questa notizia mi spinge a spostare l’ora del decollo dalle 11.30 alle 1.30. Se interrogassi i miei compagni, forse non tutti sarebbero della mia opinione, ma io sono persuaso che, durante le ore del volo notturno, sia indispensabile usufruire del tempo migliore. Non ha grande importanza un’ora o due di ritardo all’arrivo: in caso ci raggiungesse la notte potremo ancorare a Natal coi razzi di bordo — conta invece moltissimo, per il buon esito della traversata, che gli apparecchi, estremamente carichi e costretti a volare nella oscurità, abbiano, agli inizi, la possibilità di un cielo tranquillo. Se incontreremo i piovaschi dopo l’alba, saremo già in condizioni di affrontarli serenamente.

Prima di decollare, gli aviatori indossano la camicia nera, che i giovani fascisti, attraverso Scorza, hanno regalato ad ogni pilota. La camicia nera è il simbolo della volontà fascista di vincere questa battaglia a bandiera spiegata contro la sfinge oceanica. Con la camicia nera la tenuta prescrive i pantaloncini di tela e i soliti stivaloni di pelle gialla floscia, oltre s’intende alla combinazione di volo.

Il carico per il decollaggio è fissato in circa 4700 chili cosí distribuiti:

Equipaggio …..... Kg. 300

Benzina …..............» 3930

Olio …......................» 150

Acqua .....................» 200

Attrezzatura …..» 120

Totale Kg. 4700

È un carico, questo, superiore quasi di un terzo ai carichi massimi sollevati da idrovolanti di 1000 cavalli, in zone equatoriali, nelle precedenti traversate dell’Atlantico. Gli apparecchi hanno la sicura possibilità del decollaggio perché possono alzarsi senza alcun aiuto del vento e della brezza con la sola forza dei motori. La prova fatta da Maddalena il giorno 2 a Bolama, nell’ora piú calda con assoluta calma di vento e con 4700 chili di carico, me ne dà la certezza. Quello che era stato possibile di giorno deve essere piú facile di notte, quando la temperatura si abbassa.

Tuttavia non mi nascondo le difficoltà che abbiamo davanti.

Il tramonto è stato fosco. Il cielo è tutto coperto. La notte cala plumbea sul paesaggio, che forse non vedremo piú. La luna manda un chiarore incerto e velato dietro densi strati di nuvole. Occorre vincere una certa impressione di smarrimento che la notte buia ed avversa può produrre sugli uomini. All’ora convenuta, verso le dieci, il rimorchiatore «Bissao» del governo portoghese prende a rimorchio, uno per uno, in altrettanti battelli, i quattordici equipaggi dei quattordici apparecchi. La traversata atlantica avrebbe dovuto essere compiuta soltanto da dodici idrovolanti: due apparecchi, già stabiliti come «officina», sui quattordici giunti a Bolama, dovevano far ritorno di qui in Italia. Ma il capitano Donadelli e il capitano Teucci che comandano questi idrovolanti, mi hanno fatto preghiere cosí accorate, e cosí stringenti pressioni, che all’ultimo momento ho deciso di farli partire con noi verso l’opposta sponda atlantica. I loro apparecchi sono stati rapidamente scaricati del materiale e approntati per il volo oceanico. Invece dei serbatoi supplementari, hanno imbarcato latte di benzina come già hanno fatto altri apparecchi della Crociera per perdite verificatesi nei serbatoi.

Il Governatore della Guinea Portoghese viene a salutarmi sull’«Alice». Egli ha usato verso di noi innumerevoli cortesie, durante la nostra permanenza a Bolama: le sue accoglienze sono andate molto al di là di una ospitalità convenzionale. Ora vuole portare personalmente ai transvolatori i suoi augurî e mentre mi parla sento la sua interna e affettuosa emozione.

Del resto, tutto il mio sforzo in questo momento è rivolto a nascondere la mia, che si fa sempre piu intensa, a mano a mano che passano vicino all’Alice i battellini degli equipaggi, che s’imbarcano sugli apparecchi. Voglio dimostrarmi indifferente piú ancora che tranquillo. Qualcuno mi lancia nella notte il suo alalà dalle acque sottostanti. Vedo Longo che mi saluta non riuscendo a trattenere la commozione. Rispondo beffeggiandolo. Anzi, mi siedo a un tavolino sul ponte stesso, bene in vista agli equipaggi che s’imbarcano, mi faccio dare un mazzo di carte da giuoco e incomincio una partita a scopa col generale Valle. Le carte spesso s’ingarbugliano fra le nostre mani e la partita va a rotoli. Non importa. Continuiamo a giuocare fino al momento in cui l’ultimo equipaggio non ha raggiunto l’ultimo apparecchio.

La notte si fa sempre piú cupa. Non vediamo piú ombra di luna. La foschia avvolge il cielo e le acque, di cui invano cerchiamo di determinare la superficie, sopra uno specchio marino che non ci lascia intravedere l’orizzonte.

Valle è pronto per imbarcarsi. Ormai non mi resta che salutare il Comandante dell’«Alice», Pizzuto, che è stato aviatore in guerra. Egli è molto emozionato. Gli stringo la mano con energia. E lo stesso silenzioso ammonimento contiene il mio saluto al bravo Ilari. Ma Valle, il colonnello Biondi e Maddalena, mentre sto per imbarcarmi, vogliono abbracciarmi.

— È tutto pronto, Cagna?

— Prontissimo!

Sono esattamente l’1,29 di Greenwich. È già stabilito che il decollo deve avvenire per squadriglie di tre apparecchi, la nera, la bianca, la rossa, la verde, con qualche minuto di distanza tra una squadriglia e l’altra. La mia è la prima. I motori sono in moto, le eliche girano con furore. Scocca l’ora che abbiamo tanto attesa. Solo il rombo dei motori rompe il silenzio della notte. Degli apparecchi non si vede che il piccolo faro di rotta nella punta dell’ala. Gli equipaggi fissano l’aria tenebrosa, chiusi nella loro gabbia volante e, forse, come il mio compagno Cagna, stringono le mascelle, nella tensione di tutte le loro energie, davanti al destino. Io sono calmissimo. I miei nervi sono docili alla volontà che li soggioga. Mai, forse, come in questo momento, mi sono sentito padrone di me stesso. Tutti gli apparecchi sono pronti? Sí! E allora, avanti. Lanciamo l’apparecchio nell’ignoto verso l’ignoto a tutta velocità.

L’enorme idro, cosí pesante, che a poppa affonda per intiero nell’acqua, parte con uno scatto che già lo impenna, subito, sull’acqua morta e densa. Ha il muso leggermente in aria, taglia sempre piú deciso le onde sul filo invisibile della linea retta. Accelera, corre, divora con rabbia e frenesia la distanza, sobbalzando bruscamente, a scossoni, — rapidi, secchi, decisi — contro le onde. Bisogna brutalizzarlo, fargli sentire la nostra volontà recisa, prepotente, piú forte della sua. Presto è sul redan, sfiora l’acqua ancora per pochi istanti. Tiriamo la cloche al petto: avverto il distacco dalla superficie marina, la piú rapida corsa dell’idro nell’aria notturna. Bisogna tenere la cloche ferma con tutta la forza delle braccia e dare al volo, in questo momento drammatico, la massima velocità. Guai a guardar fuori della cabina verso il pelo dell’acqua. Guai a cercare l’orizzonte. La piú piccola indecisione, l’attimo d’incertezza, l’errore imponderabile, frutto del cieco istinto, vuol dire la perdita sicura dell’apparecchio e della vita. Avanti, avanti, diritti nel buio. Non appena ci stacchiamo dall’acqua, metto l’altimetro a zero e mi affido alla precisione degli istrumenti: per venti minuti non vi è altro da fare: guadagnare quota e filare. Impossibile conoscere però la quota del nostro volo se non sul quadrante radionizzato dell’altimetro: intorno a noi sono tenebre, cielo chiuso, aria cupa. Nessun punto di riferimento: possiamo essere alti nel cielo venti metri come duemila. Ma gli occhi nostri, fissi all’altimetro, che funziona perfettamente, ci permettono di regolare il volo, prendendo quota in linea retta senza mai perdere velocità. Tutto lo sforzo del sollevamento di questi diecimila chili è affidato ai nostri motori, che battono il tempo con vittorioso, trionfale, sicuro respiro. Siamo salvi!

Essendo partito per primo, non mi è stato possibile vedere il distacco di tutti gli apparecchi. Noto soltanto che Valle, dopo un vano tentativo, ha tagliato i motori e si è avvicinato alla riva. Saprò piú tardi che egli ha scaricato benzina, imbarcata oltre il carico determinato, ed è ripartito un’ora e mezzo dopo, per compiere un bellissimo inseguimento e raggiungere la nostra formazione sulle coste brasiliane.

Sono già alto nel cielo. L’atmosfera continua ad essere coperta da alti strati, attraverso i quali filtra il chiarore brumoso, lattiginoso, della luna invisibile. Nel buio quasi perfetto, facciamo una vera navigazione scientifica, sulla base dei soli strumenti di bordo, attenendoci strettamente, oltre che all’altimetro, all’indicatore di velocità e all’indicatore di virata.

Per la rotta non sono assolutamente preoccupato, perché l’addestramento degli equipaggi è all’altezza della prova eccezionale che stiamo affrontando.

Ora posso guardare fuori. Una costellazione di piccoli fari elettrici mi segue: triangoletti in regolare formazione nel cielo. Avanti di trenta metri sulla mia sinistra, ora è Maddalena. Si attraversa dopo mezz’ora l’arcipelago di Bissagos. Siamo in pieno Oceano.

Sono in comunicazione con Bolama, con le navi, con gli apparecchi. Il radiotelegrafista copre rapidamente fogli su fogli. La radio funziona egregiamente. Nella notte buia gli occhi nostri non vedono, a cento metri avanti e di fianco, altro che il faro dell’apparecchio che vola con noi in formazione: ma la radio vede e sente per noi, a migliaia e migliaia di chilometri, su tutta la distesa dell’Oceano, fino a San Paolo di Roma da una parte, fino a Rio de Janeiro dall’altra: siamo appena in aria e già parliamo con i due poli opposti, di partenza e di arrivo, della crociera.

Chiedo insistentemente alla «Alice» notizie del decollo. Mi vien detto che tre apparecchi sono rimasti a Bolama, l’Ivall, l’Ireca e l’Iboer.

Siamo dunque undici in volo. È troppo presto per fare l’appello. Bisogna attendere. Il mio radiotelegrafista non mi segnala altri incidenti.

L’ora piú spaventosa della crociera — quella del decollaggio — è passata. Continuamente ritorna alla mente questo pensiero: se le condizioni del tempo fossero state migliori! se vi fosse stata la luna! se ci avesse aiutato la brezza! Ma sono pensieri oziosi, e li caccio: non potevamo fare diversamente. Nei calcoli di probabilità, tante volte ripetuti durante i mesi precedenti, il maggior rischio è sempre stato individuato nel decollaggio notturno a carico completo. Quando gli equipaggi si sono imbarcati, in quel momento drammatico, in cui i battelli rimorchiati dal «Bissao», passavano sotto il ponte dell’«Alice», quanti si sono detti: «a chi toccherà?» Forse a me, dicevo a me stesso. E l’animo mio, come quello di tutti i camerati, era pronto al sacrificio, certi di fare, con il nostro olocausto, piú grande la Patria.

Il mio radiotelegrafista non mi ha ancora comunicato le notizie tragiche. Ritarda deliberatamente a farmele conoscere. Non vuole impressionarmi in questa fase piú delicata del volo, anche perché la sciagura maggiore intervenuta durante il decollo — l’incendio dell’apparecchio Boer - Barbicinti — è purtroppo irreparabile. Perduto l’apparecchio, perduti i quattro uomini dell’equipaggio, dopo cinque minuti di volo. Me lo dirà tra quattro o cinque ore, non appena sarà giorno fatto. Nel frattempo — chissà — egli spera di ricevere qualche ulteriore notizia, piú confortante: forse che sono stati ritrovati incolumi, su qualche isolotto dell’arcipelago, o su qualche rada dell’estuario i quattro camerati. Ha saputo, infatti, che sono incominciate immediatamente le ricerche, vorrebbe darmi le due notizie — la prima, ferale, la seconda confortante. Il tenente Venturini è un ferrarese, della mia terra, e mi vuol molto bene. L’affetto per me lotta in lui col sentimento di un piú formale dovere, che gli imporrebbe di comunicarmi subito tutto. Prevale il primo. Saprò piú tardi la notizia della morte del valoroso sottufficiale sardo, il motorista Fois sull’«Ireca», di Luigi Boer, un campione della navigazione notturna, il piú esperto forse di tutti noi, — di Danilo Barbicinti, il piú giovane, il piú caro, la «signorina» di Orbetello, sorridente, affettuoso, bravissimo — dei due sottufficiali Felice Nensi ed Ercole Imbastari, sull’«Iboer».

Per ora navighiamo nella notte, sempre avvolti dalle tenebre piú fitte, cercando invano sulle nostre teste il piccolo bianco barbaglío di un astro. La volta del cielo è sinistra, tutta chiusa, minacciosa. Le ore sono lunghe a passare. Gli occhi nostri continuano a fissare i quadranti degli strumenti e la bussola di precisione, che è tutta la nostra risorsa, in questa oscurità senza luna e senza stelle. Ma, a mano a mano che i minuti, i quarti d’ora, le mezze ore, le ore, passano una sull’altra, segnate dal battito regolare del motore, l’apparecchio si alleggerisce e con esso si alleggerisce il nostro cuore, che sa come dietro di noi, sulla scia invisibile, resti il mare piú crudele.

Che cosa sarebbe accaduto, se, oltre alle preoccupazioni ordinarie di un volo notturno in queste condizioni, avessimo avuto anche una bufera di pioggia? Quanti apparecchi avrebbero resistito? Quanti avrebbero dovuto ammarare, col rischio di inabissarsi sull’Oceano? La risposta precisa l’avrò tra poco, quando, non appena spuntato il giorno, prenderò conoscenza diretta dei furiosi piovaschi che ci attendono al varco. Davanti a me, fissato alla carlinga, dominato da una minuscola lampadina, è un piccolo trittico caro al mio cuore: tre fotografie: nel mezzo quella delle mie bambine, Giuliana e Valeria, a destra la testa bianca e sorridente di mia mamma, a sinistra quella della mia sposa. Sento che le anime loro si accompagnano alla mia e che, insieme con la mia, si alzano verso Dio. Non è in questione, in queste ore di lotta col destino, soltanto la vita nostra. Noi siamo soldati, che vivono, passano, muoiono! abbiamo assunto il dovere di volare — e voliamo. Non si vola senza rischio. Darei senza rimpianto la vita. Ma la Patria è eterna, sopravvive agli uomini e alla loro sorte. Dobbiamo vincere per lei. È in giuoco, insieme con la nostra vita, il suo onore.

Avanti, avanti. La notte atlantica incombe su di noi. Sono passate due ore, incomincia la terza. C’è qualche capo squadriglia che corre troppo, qualche altro troppo poco. I radiotelegrammi si inseguono. Mantenere la formazione è una fatica improba in una notte come questa. Improvvisamente, ecco una luce in mare: un gruppo di luci, una nave! È la nostra! È il primo esploratore: il «Da Recco». Il nostro volo ha tagliato diritto. Sorvoliamo il primo lembo d’Italia galleggiante sull’Oceano, con un rombo festoso di motori, ad ali spiegate, spaccando la rotta.

Di nuovo l’Oceano scuro sotto il cielo oscuro. Altre due, altre tre ore. Adesso sappiamo che, della notte, restano poche ore: il tempo corre piú veloce. Le navi ci segnalano i passaggi degli apparecchi. Sono undici, in gruppo: Valle segue isolato. E il tredicesimo?

Ci teniamo affiancati. Proseguiamo a forte andatura. Il vento ci aiuta. Ma in cielo continuano a rincorrersi e a sovrapporsi gli strati e i cumuli. Il chiarore lunare accenna qualche volta a farsi piú vivo, poi vien sepolto da un nuovo groviglio di nubi. Ripiombiamo nella notte [...].

Verro le sette, incomincia a filtrare, ad oriente, la prima luce dell’alba. Sono strisce cinerognole sul fondo [...] delle nuvole, a strati paralleli, poi altre strisce rosate, poi striature violacee, e verdi. L’Oceano ci mostra finalmente un po’ della sua schiena rugosa. Si riflettono nell’acqua i bagliori lividi del crepuscolo.

Una luce piú potente squarcia l’orizzonte, come una spada di fiamma. Altre si aggiungono alla prima e il loro riflesso luminoso saetta l’infinita distesa grigiastra del mare. Il giorno cresce in fretta nelle zone equatoriali. Non passano venti minuti, che già ha cacciato le ombre della notte e ha guadagnato il cielo.

Incominciamo a vedere meglio, dentro e fuori dell’apparecchio. Ma non è l’aurora che noi speravamo. L’aria è pesante, annuncia la pioggia imminente. Le nuvole impediscono al sole di folgorare l’accidia e il tedio della notte. Si avverte la presenza del sole senza vederlo. Speravamo in un lavacro di calore e di luce solare: non ci vengono concessi né l’uno né l’altra. Bisogna rinunciare ai rilevamenti: accontentarci della bussola. Cosí continuerà durante molta parte della giornata. Cielo grigio, mare grigio.

Lancio con la radio l’appello agli apparecchi: mi giungono subito le risposte. Posso comunicare a Roma, dove è già giorno fatto, perché vi sono due ore e mezzo di differenza tra l’Italia e il punto in cui ci troviamo.

Rimasi per qualche minuto in uno stato di vera angoscia a questo annuncio. Non volevo credere a una sentenza definitiva. Lottai entro me stesso contro l’immagine della morte. Il mio primo pensiero fu quello di rifiutarmi di credere perduti camerati tanto valorosi. Diedi ordine a Bolama che fossero intensificate le ricerche. E intanto mi arrovellai a pensare quali potevano essere le cause del disastro.

Esse sarebbero state stabilite esattamente dopo il nostro arrivo a Natal, attraverso le testimonianze di coloro che avevano avuto una visione della sciagura o dall’alto dei loro apparecchi, come molti piloti avevano potuto fare, oppure dalla costa stessa di Bolama. Sul punto del disastro si era sollevata un’enorme fiammata.

Una cosa diventa certa per me: l’Iboer è stato vittima di un corto circuito. La cosa è relativamente facile, dati gl’impianti di illuminazione per i fanali di via, per la cabina dei piloti e per l’istallazione della radio, che ci obbligano a portare a bordo molti accumulatori.

Mentre voliamo non posso sapere altro. Ma penso subito che l’incidente debba essere iscritto a quei fatti imponderabili, che in aviazione si verificano quando si raggiungono i limiti delle possibilità. In quei momenti basta un attimo per essere trascinati a una impercettibile manovra sbagliata, che riesce fatale. Se poi, come nel caso dell’Iboer si produce un corto circuito, allora la causa della rovina è superiore a qualsiasi umana volontà e maestria, ed è da attribuirsi all’incontrollabile giuoco della fatalità.

Il volo continua durante le ore del mattino con minori preoccupazioni. Durante la notte era molto difficile tener conto contemporaneamente di tutti gli indispensabili elementi: la rotta, l’osservazione degli strumenti di precisione che ci dànno la temperatura e la quota, il calcolo della deriva, e, soprattutto, il mantenimento della formazione di volo. Ho notato come l’occhio nostro acquistasse, durante la corsa nell’aria oscura, una straordinaria sensibilità. Forse nessun transvolatore potrà mai esprimere a parole, anche in futuro, l’incubo di quelle ore di navigazione nella foschia sterminata, senza un punto di riferimento, in cielo o in acqua, anzi senza scorgere mai né l’uno né l’altra, tagliando un mare di nebbia. Per timore delle collisioni, non si perdono mai di vista gli apparecchi, che volano innanzi e di fianco, pur senza dimenticare gli strumenti: la mobilità visiva diventa la piú efficace espressione di una tensione nervosa, che giunge fino allo spasimo.

La formazione ha logorato i nostri nervi, ha affaticato la nostra resistenza, e messo a dura prova le macchine. Volare in formazione, per diciotto ore consecutive, vuol dir toccare continuamente i motori, sottoporli a sforzi ingenti, variarne ad ogni momento il regime, o aumentandolo di cinquanta giri, oppure diminuendolo di trenta, in un’alterna incessante dura vicenda.

È una disciplina che costringe ogni tanto a fare deviazioni, che pesano sul chilometraggio totale e tolgono ogni autonomia al pilota nella scelta della rotta.

Il volo isolato dà libertà, velocità, sicurezza.

Il volo in formazione aggiunge alle difficoltà ordinarie di una traversata oceanica quelle di un controllo permanente non solo di sé, ma degli altri.

Penso che, se dovessi ripetere il volo atlantico, preferirei fare tre volte la traversata dell’Oceano da un capo all’altro, da solo, piuttosto che farlo una volta in formazione. Gli effetti del rischio e le probabilità di incidenti vanno moltiplicati per il numero degli apparecchi che prendono parte alla traversata, mentre chi è solo pensa per sé...

Poco dopo l’alba abbiamo incontrato i primi piovaschi. La nostra navigazione non ne ha risentito troppo, quantunque essi impressionino il novizio dell’Oceano. Si profilano nettamente all’orizzonte in forme di grosse nubi ben delineate, che attingono le acque dell’Oceano e fanno tutt’uno con esse. Lo scroscio della pioggia batte sulle nostre ali con inaudita violenza. Si pensa che le enormi gocce di pioggia possono, cadendo con tanta forza, danneggiare il delicato involucro di tela teso sulle sottili nervature del legno. Ma per fortuna i piovaschi non fanno danno alle ali. Invece sono nocivi molto alle eliche, le quali, dovendo girare in mezzo alla bufera di pioggia, ne risultano scrostate e scheggiate. È un’esperienza di cui terremo conto facendo il bilancio della traversata. Le eliche di legno sono, secondo me, idonee per i climi temperati, ma non resistono abbastanza alle furibonde intemperie delle zone equatoriali. Per fortuna, attraversati i primi piovaschi, sappiamo benissimo come si debbano trattare gli altri: sappiamo quello che sono e quanto durano e diventa un gioco il superarli. Occorre però allargare la formazione di volo e mettere una certa distanza tra apparecchio e apparecchio per non correre il pericolo degli investimenti. Inoltre a lungo andare questi piovaschi mettono addosso non poca impazienza.

A mano a mano che il volo procede, si fa nell’apparecchio una temperatura da forno elettrico. Sono un po’ preoccupato per il motore. Ma nelle ore piú calde della giornata, dalle 11 alle 14, esso ha continuato a mantenere la media normale della temperatura, mai superiore ai 75-80 gradi, come del resto ha fatto anche nel momento del massimo sforzo durante il decollaggio, grazie a Cappannini, che dal tunnel pompava acqua fresca.

La rotta è stata seguita senza il piú piccolo errore e con molta facilità, grazie alla bussola di precisione. Prima di partire, avevo detto che i nostri apparecchi avrebbero fatto una navigazione aerea perfettamente analoga a quella marina. Durante la traversata ci siamo attenuti a questo programma. Di notte abbiamo controllato la deriva colle fumate galleggianti luminose. Quando, durante il giorno, i piovaschi ci avvolgono completamente nel loro velo denso, che ci toglie ogni vista della superficie marina, verifichiamo la quota sull’altimetro, e per tutto il tempo del rovescio d’acqua la manteniamo costante, regolandoci, per quanto riguarda la direzione, sulla bussola.

Possiamo cosí navigare mantenendo compatta la nostra formazione di squadriglie a cuneo.

Prima di partire avevo qualche dubbio sulla velocità date le contrastanti notizie del vento che mi erano pervenute. Invece la velocità si è mantenuta e si mantiene molto forte, anzi supera tutte le mie previsioni. Constato che l’apparecchio ha guadagnato straordinariamente colla chiusura ermetica degli scafi e della cabina.

Sono ormai passate nove ore di volo. L’animo si apre alla speranza di poter condurre tutti i dodici apparecchi alla mèta quando mi giunge un SOS, lanciato dall’apparecchio Ibais: il suo comandante, capitano Baistrocchi, sta ammarando sull’Oceano per un guasto al radiatore e ci comunica la sua posizione. Io so che tanto Baistrocchi quanto Gallo, secondo pilota, sono ottimi marinai. Assicurato che l’ammaraggio non ha prodotto guasti gravi, continuo il volo, trasmettendo immediatamente alla divisione navale il punto che Baistrocchi mi ha segnalato. La nave ammiraglia mi comunica che ha inviato subito sul posto il «Pessagno». Possiamo procedere tranquilli.

Piú tardi, a 600 chilometri da Noronha, il comandante Donadelli mi avverte per radio che è rimasto senza acqua per la rottura del radiatore e che ammara con la speranza di sostituirla con acqua salata e di giungere coi suoi mezzi fino a Noronha. Senonché egli non riesce a riparare e la divisione navale, dopo il solito scambio di radiotelegrammi. invia il «Da Noli» a rimorchiare questo secondo apparecchio.

Questi due incidenti si debbono alla stessa causa. Il radiatore attuale dell’S. 55 non è evidentemente abbastanza perfezionato, come montaggio, per lunghissimi voli: già vi abbiamo riscontrato difetti nelle tappe precedenti: l’esperienza che ora facciamo sull’Oceano ci sarà preziosa per l’avvenire. Si tratta del resto di un particolare accessorio. Noto come la rottura dei radiatori sia facilitata dalle vibrazioni dell’elica, la quale, alla sua volta, come ho già detto, risente troppo delle violente precipitazioni equatoriali.

I due ammaraggi compiuti nell’Oceano ci hanno dato qualche preoccupazione, ma saranno di fronte al mondo la prova della maestria dei nostri piloti, del loro spirito di resistenza e di abnegazione; inoltre daranno all’apparecchio il piú formidabile collaudo. Non è mai facile discendere in pieno Oceano: ma in questo caso la difficoltà si presentava gravissima per il carico enorme degli apparecchi che giungeva ai tremila chili nell’idrovolante del capitano Baistrocchi e del tenente Gallo: eppure la manovra è stata compiuta senza che neppure un’ordinata subisse danni. L’apparecchio sarebbe in condizioni di riprendere benissimo il volo se la riparazione fosse fatta immediatamente. Purtroppo non è possibile: sarà dunque portato a rimorchio sino a Fernando di Noronha o sino a Natal. Come io prevedo, il rimorchio non danneggerà per nulla i due idrovolanti, di cui uno andrà perduto dopo 1400 chilometri, soltanto in seguito a un banale incidente di navigazione dovuto alla spossatezza dei marinai che si trascinavano da oltre cinquanta ore l’apparecchio sull’Oceano.

Gli equipaggi dei due idrovolanti hanno fatto il possibile per evitare l’ammaraggio. Tanto sull’Ibais quanto sull’Idona, una volta avvertita la perdita d’acqua del radiatore si è tentato di continuare ugualmente il volo, immettendo nel radiatore tutto il liquido che era disponibile a bordo. Gli equipaggi hanno sacrificato la riserva dell’acqua, le bottiglie dell’acqua minerale, i termos del caffè: hanno per fino adoperata l’orina. Ma la temperatura del motore continuava a salire. Vi era il pericolo di renderlo per sempre inservibile: e dopo avere sacrificato le ultime risorse, comprese quelle personali, sono dovuti scendere in mare. Il capitano Donadelli è stato il piú fortunato, perché ha potuto ammarare proprio di fianco al «Da Noli»: egli è stato immediatamente rimorchiato e mentre noi continuiamo a volare verso Natal, già sono avvertito che per quanto riguarda il suo apparecchio il rimorchio procede regolarmente. Piú sfortunato è l’Ibais. Il suo incidente è avvenuto alle 9 di mattina e la distanza che lo separa dalla terra ferma è enorme. Ma io sono deciso a qualunque sforzo pur di salvare l’apparecchio. Invio una radio all’ammiraglio Bucci, pregandolo di fare il miracolo di rimorchiare anche l’Ibais a Fernando di Noronha. L’ammiraglio risponde che sta provvedendo. Ma accorreranno 9 ore prima che il «Pessagno» giunga fino all’idro. Nel frattempo l’Ibais potrà usare l’àncora galleggiante e calcolare l’inevitabile deriva.

Anche questi incidenti mi dànno la prova della perfezione con cui funzionano i nostri apparecchi radiotelegrafici. I risultati sono lusinghieri perché possiamo mantenerci in permanente contatto e provvedere subito in caso d’incidenti lievi. Sono apparecchi che pesano appena 35 kg. e sono stati appositamente costruiti dal maggiore Marino della Direzione Sperimentale della Aeronautica: il genio inventivo italiano ci apre molte possibilità anche per il futuro in caso di voli in formazione attraverso grandi distanze.

Veramente stupendo è il rendimento del nostro motore. Mentre voliamo ne ascolto il battito regolare, uniforme, sicuro. Non abbiamo avuto un incidente, neppure il piú piccolo, per causa del motore, da Orbetello fino a questo momento. E già abbiamo al nostro attivo quasi 8000 km., fatti in continuazione sotto i climi piú diversi e con regimi altissimi.

Sono anche molto soddisfatto del portamento dell’apparecchio. L’S. 55 ha doti di stabilità che non ho conosciuto in alcun altro velivolo: per i suoi requisiti aerodinamici di centraggio e per le sue qualità marittime, lo considero assolutamente insuperabile.

Siamo prossimi alla linea dell’Equatore. Per essere ossequienti alle leggi che obbligano al battesimo marino il novizio dell’equatore, Cagna mi porta la seconda bottiglietta di champagne che aveva nella sua riserva: la prima è stata bevuta il giorno di Natale. La sturiamo allegramente e ne tracanniamo volentieri alcune sorsate, consumando anche qualche piccola provvista della colazione di bordo.

Ormai siamo prossimi alla mèta. Sono passate circa 14 ore dal momento del decollaggio notturno nella baia di Bolama: quelle fatte in pieno giorno non hanno presentato particolari difficoltà e sono trascorse molto piú veloci. Però nelle ultime tre ore della traversata il vento, che si è mantenuto debole durante tutto il volo, rinforza notevolmente dal Sud, ostacolandoci la marcia. È un vero contrattempo perché ormai abbiamo la febbre di arrivare. Lottiamo contro il vento e contro la nostra impazienza e finalmente compare tra le nuvole il profilo dell’isola di Fernando di Noronha. Quante volte durante la traversata abbiamo creduto di avvistare terra! L’orizzonte ingombro e fosco offre spesso al navigante labili illusioni di isole o di litorali, che poi scompaiono lasciando l’animo confuso e interdetto. Ma questa, che sta davanti a noi, è proprio l’isola di Noronha. Essa sembra, nella rapidità della corsa, avvicinarsi a noi e ci svela sempre piú nettamente l’aspro profilo delle sue rocce strapiombanti in mare, battute dall’Oceano con ondate gigantesche e spumeggianti. Vi arriviamo sopra a una quota non alta e vediamo distintamente, ancorata nella baia, l’ultima nostra nave, il «Malocello».

L’isola serve di penitenziario. Vi sono installazioni delle linee telegrafiche intercontinentali, l’Italcable, la Western: vi è una stazione radio della Marina brasiliana. Ma essa non offre né facilità di approdo, né comodità di alloggio. Il vento oceanico la cinge tutta intorno. Non vi sono ridossi tranquilli. Il mare intorno all’isola è quasi sempre agitato. Vediamo il «Malocello» rollare fortemente da 15 a 20 gradi. Avevamo deciso che in caso di necessità lo stormo ammarasse presso l'isola e infatti il comandante Coraggio ha apprestato i gavitelli e un sufficiente deposito di carburante. Ma abbiamo ancora benzina per sette ore e non vi è bisogno di questa sosta straordinaria. Sfiliamo ordinatamente, squadriglia per squadriglia, sull’isola e procediamo verso Natal che ormai non dista piú di 400 km.

Il «Malocello» chiede per noi le ultime notizie meteorologiche alla stazione radio-telegrafica di Natal, dove si trova in ascolto continuo il generale Pellegrini. Infatti ci viene poco dopo comunicato che a Natal il cielo è coperto, ma la visibilità è buona.

Dopo Noronha incontriamo un piroscafo inglese da carico che ci chiede per radio la sua posizione. La situazione è completamente invertita fra navi e velivoli! Le ultime due ore di volo passano senza quasi che ce ne accorgiamo. Sono le 19,30 di Greenwich: ecco la linea giallastra del continente! Ecco Natal!

In questo momento scompare ogni stanchezza. Siamo in volo da circa 18 ore. Quando tocchiamo le acque di Natal, la testa è un poco confusa, e le orecchie ci rombano, ma il cuore è leggero e giocondo.

Già suonano sulla riva le allegre fanfare di «Giovinezza» che salutano la nostra vittoria.

Share on Twitter Share on Facebook