Capitolo VII DA CARTAGENA A KENITRA

Il colonnello Ugarte parla sempre dell’Italia. Quando arrivo a Los Alcazares, mi accade perfino di dimenticare che egli è un ufficiale spagnuolo e lo prendo per uno dei nostri. All’idroscalo c’è una stanza, che è la mia per antonomasia. So dove devo dirigermi, anche se nessuno mi accompagna. È una forma di ospitalità, questa, dei camerati spagnuoli, che non ha uguale. Siamo di casa. Gli atlantici hanno fatto gran comunella e cantano insieme con gli spagnuoli il «rataflau» e «sul cappello» a cori doppi. La mattina dopo il mio arrivo a Los Alcazares, ricevo la visita dell’Ammiraglio marchese Magaz, amabile, cordialissimo. È stato Ambasciatore di Spagna presso il Vaticano a Roma e poi Vice Presidente del primo Direttorio di De Rivera. Subito dopo arriva il giovane e simpaticissimo nuovo Capitano Generale di cui mi sfugge il nome. Viene col vecchio amico Principe Pignatelli, col quale abbiamo passato qualche minuto molto simpatico l’estate scorsa in occasione del volo di prova degli «atlantici». Si rinnovano i brindisi augurali. I nostri assordano gli ospiti col loro «ir-or». Pignatelli risponde nello stesso stile, ma abbreviando: «per l’Italia... bum». Regna sovrana la piú spensierata gaiezza. Ma noi sentiamo un tono di affettuosa fraternità nelle parole degli spagnuoli, che hanno il timbro della simpatia vera e profonda. Sembra quasi che intraprendiamo il raid per loro conto, tanto sono premurosi, tanto il cerimoniale di uso scompare, nella commozione intensa di certi momenti di maggiore effusione. Pensiamo a Cristoforo Colombo, che navigò per conto della Spagna l’oceano tenebroso...

Un giorno e mezzo di permanenza a Cartagena vola presto. Dobbiamo partire approfittando del tempo discreto che il ciclone ci ha lasciato in eredità. Salperemo domenica 21, di buon mattino. Il sacerdote cattolico dell’idroscalo è un grande amicone nostro. Ci annuncia che celebrerà la messa per noi. Accettiamo con entusiasmo, purché non la tenga troppo lunga. Siamo tutti molto religiosi, ma abbiamo una forte simpatia per le messe veloci. L’amico nostro ci garantisce che, in proposito, è un recordman. Lo applaudiamo con effusione.

La mattina della domenica è preparato un altare sullo spiazzo dell’idroscalo, davanti ai nostri apparecchi, in quella gran chiesa di Dio che ha per cupola il cielo scoperto. La breve cerimonia ha un fascino che ci commuove. Lontano, al profilo dell’orizzonte, è una linea celeste di monti, davanti è il mare. Insieme con noi, che siamo riuniti in un gruppo compatto, sono tutti gli spagnuoli dell’idroscalo. All’inizio della messa, il comandante lancia un razzo che è il segnale del religioso raccoglimento: alla elevazione il momento è solenne: tutto quel popolo di soldati curva la fronte e s’inginocchia. Alla fine della messa, il comandante fa lo stesso segnale dell’inizio.

Sono quasi le otto: è giunto il momento di partire. Gli Spagnuoli ci abbracciano. Il decollo avviene entro pochi minuti, ed è contemporaneo per tutte le squadriglie. Si sale a larghe volute nel cielo quasi sereno; a mano a mano si rimpicciolisce sotto di noi il lago di Los Alcazares, tutto chiuso da lingue basse di terra e si allarga il panorama della Murcia tra il Capo della Nao e il Capo de Palos sul mare e nello sfondo la catena quasi irreale della montagna. La prima parte del viaggio è un poco noiosa perché il vento che viene dai monti ci fa ballare. Ma, progredendo verso il sud, anche il vento si placa. Mi mantengo in comunicazione radiotelegrafica con la stazione di Los Alcazares, la quale mi avverte che l’apparecchio del capitano Agnesi non ha decollato per un incendio al carburatore che gli ha bruciato i fili. È rimasto a fargli da scorta un altro apparecchio, in attesa che la piccola riparazione sia ultimata per ripartire insieme. Occorreranno ventiquattro ore. Il maggiore Longo ha ritardato la partenza per vedere di che si tratta e informarcene. Poi riparte. Ma è in forte ritardo nella nostra formazione e fa un bell’inseguimento per raggiungerci.

Spaziamo sul Mediterraneo, che va sempre piú restringendosi a imbuto fino allo stretto di Gibilterra. La lingua di pianura della costa spagnuola si è fatta piú stretta. Dopo Aguilas e Mojacar, piccoli paesi pescherecci della Murcia, ecco una punta di terra, dardeggiata dal piú bel sole mediterraneo: è il Capo De Gata. Un angolo brusco, quasi retto, della costa, e siamo di fronte all’incantevole profilo delle montagne di Andalusia. Si scoprono ormai nell’azzurro le cupole bianche della Sierra Nevada. Due anni fa le abbiamo sorvolate per raggiungere Granada e Siviglia. È raro che sul candore intatto delle nevi non risplenda il sole e straordinario è l’effetto di questo massiccio alpino sull’estremo lembo meridionale dell’Europa, qui dove l’aria calda già sente il continente africano.

Il Monte Mulhacen coi suoi tremila cinquecento metri domina il sistema della Sierra: sfilano davanti a noi i paesini di Adra e Motril, quest’ultimo alla foce di un irruente e gonfio torrentaccio. Io so che al di là dei monti, in mezzo alla conca di una valle, improvvisamente verde e rigogliosa, si nasconde Granata, la città dell’incantesimo moresco e oltre Granata si estende una delle piú belle e poetiche regioni del mondo: la piana dell’Andalusia, dolce paese! Ma oggi ben altro viaggio ci attende. Ecco sulla sinistra, quasi di fronte al Monte Mulhacen la prima punta dell’Africa avanzarsi in mare, come un cuneo aguzzo a triangolo. È il Capo Tres Forcas, che in una insenatura raccoglie la città arabo spagnuola di Melina: ne avvertiamo la presenza dall’andirivieni di imbarcazioni, grandi e piccole, che animano quel ricco porto, che nel 1900 aveva quattromila abitanti e oggi ne ha 53.000. Ma quella suggestione di civiltà presto scompare.

Il Continente africano si presenta con un profilo di alte e minacciose montagne. Sono i misteriosi recessi alpestri del Riff, cosí affini alle Sierre della Spagna meridionale. Nella lontananza, inondate come sono di sole, le montagne tra le quali Abd-el-Krim sviluppò la sua rivolta, tenendo in iscacco per tanti mesi gli eserciti della civilissima Europa si presentano coi piú rosei colori. Soltanto davanti a Melilla e a Ceuta vi è una striscia di pianura: la costa Marocchina è dovunque irta di montagne: i profili del Riff si fanno sempre piú scoscesi e ripidi, tagliati in cielo a spigoli netti. Si moltiplicano le catene montane a linee parallele e il panorama di questo estremo lembo d’Africa assume un aspetto minaccioso e selvaggio.

Ci avviciniamo, volando in formazione perfetta, verso il grande arco che i due continenti formano ad occidente, con lo Stretto di Gibilterra al centro esatto. Di qua e di là, sulle due coste, sono i villaggi berberi e spagnuoli. Non hanno forma ma colori diversi. Ecco nella lontananza, la cittadina spagnuola di Marbella, centro di bei vigneti, ancor rossastri di sole autunnale: la città è un piccolo mucchio bianco di casette digradanti dal colle al mare. Quasi esattamente simmetrica ad essa, sulla spiaggia d’Africa la città di Tetuan. È disposta ad arco, dentro un colossale anfiteatro di montagne, a duplice e triplice scalinata. Ha 43.000 abitanti. Sono le stesse casette bianche della città spagnuola tra svelti minareti.

La nostra attenzione si fissa ormai tutta sopra lo sperone grigiastro di Gibilterra, cosí strambo e aguzzo, tagliato nella pietra dura da un capriccio del Creatore.

Per uno scherzo della natura, esso non è legato al Continente europeo che per mezzo di una sottile e bassa lingua di terra. La striscetta si confonde col colore del mare, sicché Gibilterra pare sorgere dalle acque come un vero mastino, messo lí, all’imboccatura dello Stretto, a sorvegliarne il passaggio per conto degli Inglesi, padroni dei mari. Dalla parte verso il Mediterraneo non presenta il piú piccolo aspetto di vegetazione, né il piú modesto segno di vita umana. Dalla punta piú alta fino al mare, la sua schiena a sghembo è liscia e grigia, uniforme e piatta come un immensa lamina di acciaio. Nessuno potrebbe inerpicarsi su questo dosso cosí scosceso e cosí uguale; alla selvaggia natura rupestre del massiccio gli Inglesi hanno aggiunto l’opera loro, coprendone a larghi tratti i fianchi dirupati con grandi strisce di cemento. Servono per raccogliere l’acqua piovana? Certo, perché lo sperone di Gibilterra non ha una sorgente, non custodisce una sola goccia d’acqua, e senza l’acqua, sul lato orientale della minuscola sassosa penisola, non potrebbero vivere e prosperare i giardini intorno alle ville civettuole, che gli ufficiali inglesi hanno costruito, trasformando un angolo di roccia in un lembo di eden: ma per noi, che arriviamo dal Mediterraneo, i contrafforti in cemento di Gibilterra assumono soltanto l’aspetto di una ancor piú guardinga sistemazione difensiva.

La cittadina di Ceuta, sulla punta d’Africa dello Stretto, ci si mostra invece graziosa e civettuola, piena di un incantevole fascino orientale, adagiata com’è tra un verde folto di palme, in un piccolo arco, vera conchiglietta madreperlacea marina. Facciamo un largo giro verso Gibilterra, per attendere il maggiore Longo che ci sta inseguendo. Ma Longo ha tagliato il saliente africano di Tangeri ed è sbucato direttamente nell’Atlantico: ora si trova in vantaggio e spetta a noi l’inseguirlo.

Il vento si fa piú forte a mano a mano che penetriamo verso l’interno dello Stretto. Già l’Atlantico ci invia il suo saluto e per cosí dire il soffio del suo respiro. L’ultimo saluto del Mediterraneo non è troppo cordiale: il Mare Nostrum ci vuol dimostrare una certa coerenza di carattere. Poco prima di Gibilterra un grosso nuvolone copre il cielo e si rovescia in pioggia sopra di noi. Per fortuna noi marciamo in fretta. E poco dopo sbuchiamo fuori dalla nuvola nel piú bel sereno.

Tra le due pareti d’Africa e di Europa il mare si allunga, serpente azzurro brillante sinuoso. Lo Stretto è percorso da piroscafi di tutte le Nazioni. Si direbbero immobili, se un nastro di fumo non partisse dalle loro ciminiere e si allungasse in mare, sfioccandosi nella direzione del vento. Il rombo dei nostri motori riempie tutto lo Stretto. È l’estrema visione d’Europa. Avanziamo sempre piú sull’Oceano, che spalanca davanti ai nostri occhi lo sconfinato panorama verde-azzurro delle sue onde, increspate dal vento, senza tregua avventantesi sugli spazi infiniti.

Ormai il vento dell’Oceano investe anche le nostre ali e ci costringe a guadagnarci duramente il passo sul cielo terso di cobalto. Ma chi potrebbe esprimere l’ebbrezza che dà al nostro cuore, l’impeto di orgoglio che solleva, l’ebbrezza che potremmo giustamente dire panica di quest’ora? Ecco il campo segnato al nostro ardimento: esso è grande come il cielo. Vincere questa immensità, ridurre l’infinito sotto il nostro controllo, fare dell’Oceano un elemento soggetto alla nostra volontà, unire da una parte all’altra con un sol volo i continenti che esso ha tenuto per tanti secoli non solo lontani, ma ignoti l’uno all’altro — ecco un compito che rende la vita degna di essere vissuta sia pure a rischio di offrirla in dono per sempre.

Doppiamo nel piú terso cielo il Capo Spartel, su cui s’innalza, come una torre bianca, la città internazionale di Tangeri, ultima vedetta dell’Africa verso il continente europeo.

Tangeri ha 46.000 abitanti: un traffico intenso su i due mari e verso l’interno. Vedendola dall’alto se ne intuisce il sommo valore strategico... di un tempo. Il grande faro che risplende su Capo Spartel ha i colori di tutte le Nazioni d’Europa. Il porto offre modesta protezione ai piroscafi, ma può rifornirli. Infatti sta al centro di una produttiva regione. Noi ormai pieghiamo verso il sud, voltando recisamente le spalle all’Europa.

Non abbiamo sotto gli occhi, alla nostra sinistra, che la costa marocchina. La cittadina di Larache serve quale minuscolo porto atlantico alla zona spagnuola: di qui parte una ferrovia verso la plaga francese del Marocco. Poco piú in basso incomincia infatti l’immensa terra africana, che la Francia si è assicurata anche sulle rive atlantiche. La visione del Marocco è pittoresca. Il terreno è leggermente ondulato verso lo Stretto, quindi progressivamente sempre piú pianeggiante. Grandi zone di un bellissimo verde si alternano a pianori bruciati e a squallide sebke. Ma la proporzione del territorio coltivato e fertile, diviso in bei rettangoli regolari, variegato di strade, sottoposto insomma alla cura intelligente dell’uomo supererà piú tardi la zona arida. Quale enorme riserva di ricchezza possiede la Francia! Come essa è tenace e coerente nei suoi piani di ordinamento e di dominio nelle sue terre africane! Il volo è continuamente variato da questo panorama di bella natura e dai pensieri che suggerisce.

Siamo in aria da quattro ore e mezza e non siamo affatto stanchi. Verso le tredici giungiamo in vista delle bocche del Sebú, il piú grosso fiume del Marocco. Le sue acque giallastre tingono a ventaglio l’oceano. Prima di rovesciarsi sull’Atlantico, si attarda in larghe volute entro il delta ed è veramente servizievole per i bisogni portuali della regione.

Ecco il porto e la cittadina di Kenitra. Qualche piroscafo risale il piccolo pezzo di fiume fino al porto, mentre noi lo sorvoliamo dall’alto. Lo sviluppo di Kenitra è dovuto ai lavori che fin dal 1921 i francesi hanno fatto per rendere navigabile, anche ai vapori transatlantici, l’estremo braccio del Sebú. Vorremmo fare un giro su Rabat, che dista 30 chilometri, ma vengo a sapere che Valle ha la fascia di un magnete allentata e ordino l’ammaraggio. Le nostre squadriglie scendono rapidamente sulla baia di Kenitra.

Dall’alto si vede la linea dei gavitelli predisposta in una sola riga distinta, con le bandierine indicanti la posizione che ogni squadriglia dovrà assumere. L’ammaraggio avviene per squadriglia in linea di fila. Gli apparecchi che attendono in aria il loro turno, girano a sinistra. Tocchiamo l’acqua dolcemente e ci affrettiamo, coi nostri mezzi, al gavitello. Sono ad attenderci il maggiore Guasconi ed il tenente Klinger.

Occorre un po’ di tempo per ormeggiare gli apparecchi data la forte corrente del fiume. Ma tutto procede bene. Scendiamo sulla riva, tra due ali di tiragliatori algerini. I Francesi hanno organizzato un bellissimo servizio d’ordine. Forse è stato preannunciato qualche scherzo poco gentile da parte dei fuorusciti italiani? Non so. Certo i miei ufficiali saprebbero come rispondere anche senza la mobilitazione dei tiragliatori. Ma non accade nulla. Io passo in rivista una compagnia di onore che è stata schierata per renderci omaggio, accolto con squisita signorilità dalle autorità francesi, che mi complimentano per il viaggio fatto e per quello che ci attende. Una pattuglia di sette apparecchi comandata da Pelletier d’Oisy, il grande asso francese, vola sulla nostra testa riempiendo il cielo di rombo festoso.

Mi saluta, in nome del Presidente, il generale Hogues. È un uomo fine e cortese: è stato aiutante di Liautey, il grande Maresciallo colonizzatore del Marocco, e si mette a mia disposizione per guidarmi in città. Giunto all’albergo mi reco subito a far visita al Residente Saint.

Il rappresentante della Francia sta a Rabat, la città berbera convertita in un giardino.

La strada automobilistica che percorriamo per arrivarvi è bellissima e può fare invidia alle piú moderne di Europa. Il palazzo del Residente, di stile moresco, attorniato da parchi e giardini lussureggianti, è una vera reggia. All’ingresso mi attende una compagnia da sbarco della Marina con musica. Viene suonata la Marcia Reale, poi la Marsigliese: siamo tutti irrigiditi nella posizione di attenti durante l’esecuzione dell’inno italiano e dell’inno francese. Sono accompagnato anche da Armengaud, Generale di Divisione della aviazione francese, volatore famoso. Egli e Hogues mi conducono nella sontuosa sala ove mi attende il Residente. Le accoglienze del signor Saint sono piene di forma: hanno quello stile francese fatto di finezza, che è proprio della terza Repubblica. Mi fa molti complimenti, si informa del nostro raid, mette a disposizione mia e dei miei equipaggi quanto può occorrerci, la sua ospitalità è piena di effusione. Viene servito lo champagne. Il signor Saint m’incarica di presentare i suoi omaggi al signor Mussolini. Lo assicuro che avrei fatto presente le sue cortesie al Capo del Governo Italiano e intanto lo ringrazio sentitamente. Quando esco dal palazzo la musica della Marina intona ancora la Marcia Reale e la Marsigliese.

Ritorno a Kenitra. Il Controllore generale di Kenitra o Governatore locale ci offre un «vino d’onore» e mentre siamo adunati alla Casa di Francia, i marocchini suonano le loro fanfare composte soltanto di trombe e tamburi. Il nostro camerata francese, Pelletier d’Oisy, ci spiega usi e costumi del paese. Invitiamo a pranzo Pelletier insieme coi suoi aviatori e le ore trascorrono gioconde in loro compagnia.

Gli italiani della zona non sono molti, in questo periodo. Lavorarono qui, con profitto, fra la stima generale, negli anni scorsi, quando la Francia procedeva a ingenti opere pubbliche, ora terminate e sospese.

Ce ne è uno che ha una bella situazione sociale e passa queste ore con noi. Sapevo già, prima di arrivare, quale era la sua piú gradita e piú... ripetuta freddura all’incontro con gli italiani nuovi arrivati:

— Come se la passa a Rabat?

— Ma... cosí... Mi arrabatto!

Naturalmente anche noi gli facciamo la domanda che certo egli attende: però non arriva a completare la risposta, che anticipiamo in coro:

— Eh... sí!... lo sappiamo: si arrabatta!

Ce ne è un’altro — personaggio ugualmente importante, — che a un certo punto mi chiama in disparte, per esser certo che nessuno ci ascolta e infine a voce bassa e roca mi dice:

— Eccellenza, stia in guardia... Qualche giorno fa si aggirava in questi paraggi un pericoloso sovversivo fuoruscito antifascista...

— ???

— Sí, Eccellenza, il celebre Schiff Giorgini...

L’incantesimo della misteriosa rivelazione è rotto al suono di una mia franca risata.

— Schiff Giorgini?... Stia tranquillo! Se lo incontriamo ci propone subito una partita di poker! Al tavolo del poker è pericoloso: è un recordman: è stato al tavolo, una volta, per 72 ore!

Errori di prospettiva, troppo facili a compiersi a tanti chilometri dalla madre patria!

Vorrei ripartire all’indomani mattina, ma all’ultimo momento debbo rinunziarvi, perché una forte nebbia copre le rive del fiume. I francesi hanno organizzato per me una gita a Fez, la città santa dei Berberi, residenza del Sultano. Non posso andarvi, perché sconto con un terribile raffreddore, e forse con un principio di polmonite, le ore terribili passate sotto la pioggia a Puerto de Campos, nell’isola di Maiorca. Mi coglie una forte febbre. Il maggiore Longo è il mio medico di fiducia. Mi cura all’uso marinaro, con forti massaggi di alcool e con pennellature di tintura di iodio. Sono, sul principio, scettico ma debbo poi convincermi che la cura è ottima perché alla sera la febbre scompare.

Arrivano intanto sul cielo di Kenitra e ammarano felicemente i due nostri aviatori che erano rimasti a Los Alcazares. Ormai la formazione ha tutti i suoi quattordici apparecchi pronti a partire.

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