Capitolo VIII LA COSTA DELLA DESOLAZIONE

L’ansa del Sebi palpita appena ai primi albori che già i mezzi per il nostro imbarco sono pronti. La sveglia stamane è stata notevolmente anticipata. Lo strano è che fa freddo. Quando siamo partiti dall’Italia il clima era ancor mite, in questa stagione di primo inverno: qui dobbiamo indossare le uniformi pesanti e adoperare il mantello.

Il paesaggio, intorno a noi, è sepolto nella semi oscurità del crepuscolo. Il Sebú, scendendo al mare, si impantana in una specie di maremma bassa e male odorante: ma questo specchio d’acqua, da cui prenderemo il volo, ha una corrente impetuosa e infida. Le sue acque torbide hanno un aspetto piuttosto sinistro. Abbiamo voglia di partire verso il Sud. Alle 4,30 sono pronti i mezzi per l’imbarco: alle 5 il personale è a bordo. Potremmo decollare subito, ma grava nel fiume una nebbia pesante: anche la nebbia in Africa! Proprio cosí. Mi chiedo se sono nel Sebú, oppure su qualche braccio del mio fiume regale, — il Po — presso Goro o la Mesola...

Fra l’altro non si vedono le rive. Dobbiamo attendere che si alzi la nebbia. Una provvidenziale folata di vento ci viene in aiuto: una delle rive si scopre. Sono quasi le 8. Ordino la partenza.

La stazione meteorologica di Rabat ci ha dato buone notizie sulle condizioni del cielo e del mare fino alla linea del Tropico, presso la quale ammareremo oggi, dopo una navigazione piuttosto lunga: piú di 1500 chilometri. Per ora le comunicazioni radio di Kenitra ci seguiranno in volo: dopo entreremo nella zona della radio di Capo Juby: poi in quella di Villa Cisneros. Il decollo avviene con la solita regolare rapidità, quantunque la corrente lo ostacoli e il carico sia notevole: 4000 chili.

Appena sollevati a una cinquantina di metri, compare all’orizzonte la distesa azzurra dell’Atlantico che una lieve striscia di terra ci nascondeva.

Puntiamo diritti verso il mare. Segnalo con un radiotelegramma a Roma l’ora della nostra partenza. Poco dopo vengo avvertito che l’apparecchio di Cannistracci-Vercelloni non ha decollato. L’umidità del fiume ha agito sul motorino di avviamento che non è partito. Calcolo che hanno ormai perso quasi un’ora e che sarebbe imprudente farli arrivare di notte a Villa Cisneros. Dò loro quindi l’ordine di partire all’alba del giorno dopo.

Ora non resta che seguire la costa marocchina sulla quale corre la ferrovia francese che da Kenitra va a Casablanca. Bianchi fiocchi di nuvole sono in aria. Il sole le investe. Sembrano delicate meduse aeree. Ma verso i confini di occidente una cortina piú densa e bigia di nebbia nasconde l’arco del cielo sull’Atlantico. Ecco sotto i nostri occhi un alveo di fiume che scende a serpente verso il mare. L’Uadi Gron. Sulla sponda sinistra è la cittadina di Sale: sulla sponda destra vediamo, dall’alto, l’ampia e pittoresca città di Rabat, dove siamo stati ieri in automobile. Penso al destino di queste antiche città berbere.

I francesi hanno fatto dei due antichi centri africani una sola e grande città, che già è salita a oltre sessantamila abitanti.

Rabat era il punto di congiunzione tra il Marocco del Nord e quello del Sud, in mezzo alle due città sante di Fez e di Marakesc. Da Rabat, sul litorale marino, dovevano passare le carovane, perché era impossibile unire le due capitali attraverso una strada nell’interno, ingombro dalle alte propaggini del Medio Atlante e spaccato dalle valli profonde dei fiumi, che per parecchi mesi dell’anno non permettono il guado. I francesi hanno aumentato l’importanza di Rabat., collegandola con le ultime propaggini di Sale e facendone un bel porto.

Non soltanto dal punto di vista commerciale, hanno voluto fare, di questa graziosa cittadina, una base della loro penetrazione nell’interno; ma anche dal punto di vista militare: e ieri ce ne siamo accorti. A Rabat, piú che a Casablanca, convergevano, durante la rivolta del Riff, gli uomini, le armi e le munizioni della lontana madre patria.

Vorrei subito inviare un saluto per le vie dell’aria al Residente Saint che è stato l’ospite piú cortese della nostra squadra. Ma attendo di essere ai confini della terra francese.

Ancora un centinaio di chilometri e, dopo aver sorvolato il piccolo borgo di Fedhala, ecco comparire da lontano la vasta macchia pallida di Casablanca, una delle piú graziose città africane, la perla del Marocco Atlantico, trasformata dai francesi e soprattutto dal Maresciallo Liautey in una specie di Granada africana. La città conta piú di centomila abitanti, ma per la sua posizione centrale, per la conformazione naturale del suo porto, per la speciale importanza che le hanno dato i francesi, è salita oggi all’altezza delle piú belle e promettenti metropoli del Continente Nero, degna di figurare vicina ad Algeri a Tunisi a Tripoli, se non ad Alessandria e al Cairo. Dominata dall’alto dalla sua Kasbah, essa mostra un aspetto tipicamente arabo moresco. Anche le nuove costruzioni si sono attenute a questo stile, sollevando verso il cielo arditi pinnacoli di minareti e cupole gonfie di moschee, nonché palazzi bianchissimi dalle torri mozze e quadre, dalla leggiadra decorazione a traforo, con bifore o trifore che hanno il tipo ancor gonfio terminante a punta. Il grande Governatore francese, Liautey, aveva lo snob dell’arte araba, del costume arabo, e perfino — lui, cattolicissimo — della religione araba. Ai suoi tempi, prima della guerra europea e prima della rivolta del Riff, che fu un brusco risveglio e un terribile disinganno, l’elegante Maresciallo subí tanto il colore del paese e la suggestione dell’incanto moresco, da considerarsi un poco come un profeta moderno del mondo neo-musulmano. Amava parlare arabo, vestirsi all’araba e pregare nelle Moschee. Dietro la sua suggestione, i francesi si sono imbizzarriti a fare di Casablanca la Mecca Atlantica dei Berberi. È facile indovinare di quassú, dove voliamo, il candore abbagliante, che congiunge il fasto della «Ville Lumière» agli incanti arabo-moreschi.

Ciò che maggiormente colpisce è il tentativo di vegetazione forzata che i francesi vi hanno fatto, creando minuscole oasi di palmizi sopra un pezzo di costa, che la natura aveva designato alla aridità e abbandonato al capriccioso impero delle sabbie desertiche. Ogni casa ha il suo giardino, ogni piazza e ogni contrada hanno le loro palme. Là dove piú intenso è stato l’intervento della civiltà europea e maggiormente si sono diffuse ricchezze, non si vede traccia di Europa: lí anzi si è voluto deliberatamente accentuare il carattere e lo stile berbero: Uffici pubblici, banche, caserme, tutto all’araba! Che stranezza! Eppure i marocchini autentici non sono in Casablanca che quarantacinquemila: il resto della popolazione è formata dai nuclei piú vari della gente di colore, che si son dati convegno a Casablanca, attratti dal fervore di traffico e dalla facilità dei guadagni: un bastardume africano senza carattere. Resta a vedere quale sarà l’avvenire riserbato alla bianca città dopo il mutamento di politica che i francesi hanno dovuto fare per la rivolta marocchina. Casablanca e il suo ricco territorio che la circonda, di color verde tenero, resterà tuttavia, per ogni europeo che vi giunga, uno stupendo esempio di colonizzazione intensiva.

Volteggiamo sul cielo, in segno di saluto alla bianca capitale del Marocco, e di qui mando il mio telegramma a Saint: gli Italiani sono sensibili ad ogni forma di cavalleria. Proseguiamo verso il Sud, lungo la costa che abbonda di pascoli rasi e qua e là di orticelli arabi dal tipico pozzo. Passano altri alvei di fiumi, tra colline basse a semicerchio e i villaggi di Azimur e di Mazagan, dalle piccole baie popolate di barchette. Ma subito dopo tagliamo nettamente la vasta insenatura oceanica, che fa un grande arco dentro il continente, ed entriamo sul mare aperto. Facciamo cosí circa tre ore e mezzo di volo con l’aliseo in poppa.

Alla sinistra è l’ultimo contrafforte montuoso, che il grande Atlante spinge fino al mare: grandi massicci, erti sino ai tremila e ai quattromila metri del Gebel Likoum, del Gebel Glaoui, della Punta e del Passo di Bibaum, incappucciati di candida neve. Ma essi sfumano nell’interno. Noi respiriamo la libera aria marina, che si va facendo sempre piú calda.

Ormai non c’è alcun segno di vita, a mano a mano che proseguiamo verso il sud, se non il nostro motore, che romba, la nostra elica, che gira vorticosamente e il nostro cuore, che vigila. Ogni tanto il vento atlantico si fa piú forte, oppure diventa lieve.

L’Oceano è incantato in una calma miracolosa, in un silenzio perfetto. Il nostro cuore batte serenamente il tempo sul ritmo del motore, in una cadenza di allegrezza e di forza. Questo sole di Africa ci dà una deliziosa vertigine, nella quale si confondono lo splendore del cielo e lo specchio abbagliante dell’Oceano. È una giornata di bellezza senza macchia. È luminosissima. Su dal mare, che è di un bleu profondo, sale verso di noi una luce sempre piú intensa.

Davanti a noi, che abbiamo lasciato, senza vederlo, alle nostre spalle, il Capo Noun, non è che un panorama sconfinato di acque, dalle tinte intense. Ritorniamo in vista della costa poco sopra il Capo Juby.

Io ho visto i piú strani e diversi paesaggi nei miei voli: ho percorso in varie direzioni il deserto libico, la sconfinata e malinconica Gefara. Quantunque, sorvolando le nudità desertiche tripoline, il cuore si stringa e si faccia piccolo, tuttavia una certa vegetazione, miserabile ma tenace, non cessa dal mettere qua e là, sulla sabbia, qualche macchia piú scura. E non è difficile in Libia, dietro la cunetta di una duna, in un avvallamento striato di madresiepi di sparto, indovinare un formicolamento di greggi nomadi e, di ora in ora, qualche tenda beduina, un filo di fumo, che indica un po’ di umano respiro e qualche ciuffo di palma, che il sole proietta sulla terra arida. Ma qui nulla di nulla. Soltanto sabbia e sabbia, percossa a perpendicolo dai raggi implacabili del sole. La terra si arroventa all’infinito senza limiti, senza difesa, senza fiato. È la misteriosa plaga del Rio Oro, tragica nella sua nudità, spoglia di tutto, dal monotono uniforme color giallo. Incomincia da Capo Noun, questa costa desertica, scende perpendicolarmente a Capo Juby e arriva senza mutare mai aspetto fino a Villa Cisneros, la nostra tappa odierna. Guai ad ammarare in queste spiagge terribili. Ricordiamo, insieme con Cagna, le peripezie terribili dei piloti spagnuoli o di quelli della linea francese Latécoère, che furono fatti prigionieri dai predoni nomadi e trasportati all’interno: i casi pietosi e tragici di Marcel Reyne, di Odoardo Serre, del pilota Mermoz, degli aviatori Pivot e Vidal. Ma il nostro apparecchio avanza senza alcun segno di stanchezza. L’occhio finisce per abituarsi alla squallido paesaggio che attraversiamo, e, alla fine, una certa ammirazione brutale per queste immensità occupa il cuore. Abbiamo ancora qualche ora di navigazione.

Forse il deserto opera su di noi col suo fascino, che anestetizza l’angoscia come lo sguardo del serpente. Il cervello è pieno di indifferenza lucida. Il nostro colossale insetto di metallo divora i chilometri, sorpassa i promontori selvaggi, riempie di rombo le solitudini, vince il mare e il deserto. Si fa in noi uno stato di strano sonnambulismo. È difficile avere il senso del tempo. Senza un vigile controllo della volontà, sarebbe facile abbandonarsi a un dolce dormiveglia.

Subentra una gran voglia di ritrovarsi fra gli uomini; si ha il desiderio di case, di mura, di verde, per sfuggire all’incantamento della solitudine. Il Capo Juby — una lingua di terra sul mare aperto, un campo di aviazione sulla sabbia e il piccolo rettangolo bianco del fortino — casamatta, o caserma, o prigione, castellaccio sinistro, dominato da una antenna radiotelegrafica — è passato sotto i nostri occhi nella sua desolata solitudine, senza uno spiazzo d’erba fresca nei dintorni o un profilo di albero sulla terra, con qualche barchetta in mare. Proseguiamo sulla arena brulla. Di queste barche sospette, ne abbiamo incontrate alcune e altre ne incontreremo lungo il litorale. Non è una vista che faccia piacere. Sono cariche di mori che spesso esercitano su queste coste, con molto profitto, l’industria dell’aviatore. Dal fortino, gli spagnuoli, sempre cavallereschi, grandi camerati nostri, sventolano una enorme bandiera, agitano fazzoletti, fanno vivaci gesti di saluto. Addio amici, «la via lunga ne sospinge» e Capo Juby non ci invita a una tappa straordinaria...

Proseguiamo sulla arena brulla.

Ricordo un’antica leggenda, che parla della capitale sconosciuta dei mori del Rio de Oro. Si dovrebbe chiamare — con un nome molto romantico — Smara, e dovrebbe essere costruita nell’interno, sul letto asciutto del Seguiet-el-Hamra, che attraversiamo. Nessun bianco, si dice, ha potuto penetrarvi. Dovrebbe essere a 300 chilometri dalla costa. Passiamo esattamente sopra alla Baia di El Mers, nella cui direzione Smara, l’ipotetica città delle delizie moresche, forse si trova. Ne chiedo notizie al mio compagno di volo, che già è passato da queste parti un anno fa. Bisognerebbe avere un aeroplano sicuro, molta benzina e buoni strumenti di bordo per andare a vedere. Ma non vi sono carte né punti di riferimento, sull’immenso deserto del Rio de Oro. Per conto loro, gli spagnoli non si sono mai curati di andarla a cercare. Noi abbiamo oggi altro da fare.

È ormai mezzogiorno. Chiedo a Cagna: Hai appetito? — Non c’è male — risponde e mi lascia intendere che ne ha molto. Bene; gli ammannirò una sontuosa colazione: una scatola di carne, acqua minerale, un litro di caffè.

Sotto di noi c’è poco da vedere: Capo Juby già si perde nella lievità della lontananza marina. Ma ecco, sul mare, compare un piccolo segno nero: si fa piú visibile: prende la forma di una lancia: è una bella nave da guerra: uno dei nostri navigatori: forse l’«Usodimare». Vi passo sopra con l’apparecchio. Tutti i marinai sono sopra coperta, arrampicati sui ponti piú alti e ci fanno mille gesti di saluto, certo ci gridano il loro affettuoso augurio. Gli ufficiali, anch’essi, sono tutti protesi verso di noi dal ponte di comando e l’emozione del nostro passaggio è tanto grande, che dimenticano le norme rigide della marina: salutano allargando e agitando le braccia. È un momento di gioia profonda. I marinai hanno portato sul castello di prua una grande bandiera e l’agitano al vento.

Da Capo Juby a Villa Cisneros vi sono circa 600 chilometri, cioè ancora tre ore di volo. Avanti, avanti sempre! Il mare ha l’onda lunga, fa molto rollare la nave, ma a noi non dà preoccupazione. Andiamo invece incontro a un fenomeno per noi nuovissimo: le nubi di sabbia. Ogni tanto qualche banco di color neutro, oppure una nuvola giallognola pende presso la costa, tra il cielo e la terra.

Il vento trasporta l’arena gialla del deserto molto lontano: a volte perfino alle isole Canarie, a 300 chilometri nell’Oceano. Noi sappiamo che la sabbia può danneggiare i motori. So anche che ogni tanto mette in aria, sulla sconfinata solitudine, una specie di nebbia fitta, che va in gola e negli occhi: so che a volte crea irreali castelli, mobili ed evanescenti colonne, torrioni quadrati, mura compatte, una specie di fata Morgana, che ha fatta perdere piú di un apparecchio.

Bisogna girare intorno a queste nuvole di sabbia, che incontreremo anche piú tardi, se non si vuole respirare un’aria arida e soffocante. Cosí facciamo, infatti, lasciandole al nostro fianco: ciò nonostante abbiamo ugualmente il secco in gola.

Passano il Capo Bojador, la Punta Roquetta, il Capo Carnet, il Capo Levenne, inabitati punti di riferimento delle carte marine.

Sul litorale compare solo un gruppetto di mori straccioni. Come i loro colleghi delle barche, aspettano che qualche nostro apparecchio abbia una avaria... provvidenziale per la loro industria. C’è chi, al nostro avvicinarsi, corre e scappa. Forse a prendere un fucile?

Ecco, finalmente, una lingua di terra, che si protende in mare per dieci chilometri, la penisoletta di Dakhla, alla cui estremità s’indovinano le linee tetre e pesanti di una costruzione grigiastra e la solita antenna della radio. Non un albero, non una macchia di verde. Invece, un reticolato che circonda tutto il recinto. Cagna è stato qui un anno fa e mi avverte che siamo arrivati.

È Villa Cisneros. Il sole sta per tuffarsi nell’Oceano. Flotta in aria la fresca porpora del tramonto. Ammariamo nel braccio di mare tra la Penisola e il Continente, per squadriglie, con una regolarità da prova generale. Il mare è «fresco», cioè leggermente mosso dal vento di nord est.

Nella minuscola baia è ancorata una cannoniera spagnuola, che, mentre ammariamo, spara a salve festosamente. È la «Canovas de Castillo».

La base di Villa Cisneros è stata organizzata dal Capitano Franco Cavallarin, che ci viene incontro con un motoscafo della Regia Aeronautica, qui depositato dalla «Alice», parlando il piú puro accento veneto che si possa immaginare: è un bravo figlio di Chioggia.

Si ormeggiano subito, con non poca fatica, gli apparecchi e incomincia il trasporto dei piloti verso la spiaggia. A terra ci attende un Tenente dell’Esercito spagnuolo che regge la carica di Governatore del Sahara e un Tenente dell’Aviazione spagnuola.

Essi fanno del loro meglio per festeggiarci, insieme col Vice Console d’Italia a Fez, venuto a Villa Cisneros per l’occasione. Gli spagnoli hanno sguardi fieri e tristi, una certa finezza da gran signori in esilio. Il Governatore è piccolo e tarchiato. Egli ci conduce verso il fortino, dove ha messo a mia disposizione la sua stessa stanza. Sbarcando, un fetore orrendo ci mozza il respiro. È il puzzo del pesce, che lo stesso Governo spagnuolo qui raccoglie in quantità immensa (la costa del Rio de Oro è la piú pescosa del mondo), sventra e secca al sole, dopo averlo salato. Il mio ospite mi dice che se ne raccolgono 10 tonnellate al mese. Apprezzo la nobile industria ma faccio forza a me stesso per non tapparmi le narici e scappare.

Per i 150 metri che ci dividono dal forte sono scaglionati un centinaio di soldati spagnuoli, quasi tutti bianchi: uno, circa, ogni tre metri. Cara Spagna cavalleresca! Anche qui essa ci offre tutto quello che ha, con un fervore che commuove. Una tromba suona l’attenti, col caratteristico ritmo che sa di antiche avventurose imprese su terre lontane, un motivo che scende certo dai tempi di Carlo V il conquistatore, pieno di epica nostalgia.

A Villa Cisneros il piroscafo giunge una volta al mese. L’aeroplano rimane dunque l’unico mezzo rapido di comunicazione col mondo. Il gruppo degli Ufficiali spagnuoli e lo stesso Governatore con la sua famiglia sono sempre molto larghi di gentilezze cogli aviatori. Con noi poi che siamo italiani...

Facciamo un rapido giro per il forte. Esso press’a poco è eguale, come colore e come forma, a quello che abbiamo sorvolato a Juby. In sostanza è una casa quadrata, difendibile dagli assalti esterni dei mori, che sono qui padroni assoluti del paese, con un vasto cortile nel mezzo dove sono le tende per i soldati.

La guarnigione è rinforzata con i mori minuscoli delle isole Canarie. Le costruzioni destinate all’aviazione sono a cinquanta metri dal forte. Vi è un hangar con una casermetta per gli uomini di truppa, qualche camera per gli ufficiali, nell’hangar qualche apparecchio francese di riserva, proprietà dell’«Aeropostale».

Presso le casermette sono state alzate le tende per i miei equipaggi. Furono prese in affitto presso ditte italiane e portate qui dalla «Alice». Tra le altre, vi è la mia grande tenda del campeggio di Forte dei Marmi. La visito con grande curiosità. Sotto la tela sono allineati dodici lettini da campo, come in una corsia di ospedale.

Passiamo, quantunque stanchissimi, una sera dolce e graziosa in compagnia dei nostri ospiti gentili che si prodigano per noi: hanno organizzato tre pranzi d’onore in due giorni: Cagna ritrova subito, appena arrivato un vecchio amico, il fratello del sultano blu, Tarambuia, che esercita qui una funzione di supremazia religiosa, e vive docilmente con gli spagnuoli, mentre suo fratello fa il razziatore nell’interno. È un moro sporco, dal volto espressivo. Ha fama di santone. Gli indigeni gli prendono la mano e se la strofinano al naso per aspirare la santità. Ho il terrore di quella mano, ho l’incubo delle mura della sua casa, sporche anch’esse in proporzione, quando il giorno seguente ci invita per prendere il the. Tarambuia offre le tazze mettendoci dentro le dita che lasciano le impronte. Gli dico che sono malato e che non posso, per questo, accettare il suo the, ma che ne è invece ghiottissimo Sua Eccellenza Valle... Il povero generale non può rifiutare e deve metter le labbra a quella tazza.

Le negre fanno danze in nostro onore, le solite danze africane. Sono donne di forme spesso perfette, ma, ahimè, incredibilmente sudicie. Gli spagnuoli tengono tutti in disciplina col terrore della sete.

Qui non vi è acqua, che viene portata per mezzo di navi cisterna delle Canarie. Se qualche negro sgarra, lo si porta fuori dai reticolati: non ha piú la sua porzione di mezzo litro d’acqua al giorno...

So che un nostro ufficiale di marina si è gravemente ferito alla testa.

Gli mando subito in motoscafo il giovanissimo medico della cannoniera spagnuola. Poi vado anch’io. Ci attende una lancia a remi. Ma questa non può superare la barriera delle onde che si frangono nella spiaggia. E un marinaio erculeo ci trasporta sulle spalle fino a bordo. Come Dio vuole, giungiamo al piroscafo. Grandi saluti col Comandante Magliocco: trovo, come comandante in seconda, un mio concittadino, il capitano di corvetta Ludovico Sitta, che mi fa festa e si affretta a regalarmi un chilo di sigarette italiane. Chiedo notizia del ferito e propongo sia inviato un messaggio all’«Usodimare» affinché muova subito alla volta di Villa Cisneros per portar qui il medico di bordo. L’«Usodimare» attendeva il passaggio dell’apparecchio di Cannistracci, a 100 miglia da Capo Juby, nella zona piú pericolosa per i briganti. Non era detto che Cannistracci dovesse subire una panne proprio in quella zona, mentre invece il povero ufficiale di marina era molto malconcio ed aveva bisogno della assistenza di un medico. Cosí fu fatto. Dal «Pessagno» mandai un fervoroso saluto al Ministro Sirianni e tornai a terra.

La sera stessa arrivò felicemente l’apparecchio di Cannistracci.

Gli equipaggi della crociera erano rimasti tutto il giorno presso gli apparecchi per i rifornimenti, operazione lunga difficile e faticosa per i pochi mezzi a disposizione.

Alla mattina seguente all’alba si poteva partire.

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