Capitolo VI LA PRIMA TAPPA

Lo stormo si dispone in formazione, a rombi di cunei. Le quattro squadriglie formano in cielo una specie di croce. Alla testa della formazione sta la squadriglia nera, composta dal mio apparecchio, da quello del Generale Valle, e da quello del Comandante Maddalena, che segna la rotta, l’apparecchio di «navigazione». Le due squadriglie laterali sono a 1500 metri dalla nostra e a 2000 metri l’una dall’altra, a sinistra quella rossa, a destra quella bianca. L’ultima squadriglia, quella verde, viene a trovarsi esattamente sulla linea di volo della prima, distante da questa circa mille metri.

Il volo sul Tirreno, sotto il sole mattinale, si svolge, agli inizi, in condizioni ideali. Sul mare non sono che alcune vele bianche a triangolo. Le onde palpitano come un velo alla brezza che viene dal nord e ci mandano su, verso i nostri occhi curiosi, gli spicchi incandescenti dei loro riflessi, bagliori aguzzi di sole. I piú gai pronostici, le piú leggere speranze, i piú ariosi pensieri sono permessi in questo momento.

Presto vediamo sulla dritta l’isola romanzesca di Montecristo, grumo di roccia, lambito da ogni parte da trionfali onde marine. Ma è l’ultima visione di terra sgombra di nubi, che il destino ci permette.

Puntiamo verso le isole Vegezzi, all’imboccatura dello stretto, tra la Sardegna e la Corsica. In prossimità delle isole, che si annunciano da lontano tra la foschia, il vento si fa piú forte. Da principio non ce ne allarmiamo, perché è noto che nessun velivolo è mai riuscito a superare le Bocche di Bonifacio senza lottare contro le correnti d’aria che vi si ingorgano con furore. Ma presto l’orizzonte si carica di nuvole. Il sole scompare. Grandi cumuli coprono il cielo. La navigazione, in prossimità dello stretto, si fa tormentosa: sul mare, che ha preso una tinta livida, si inarcano grosse onde temporalesche.

Ormai piove e il velo d’acqua ci toglie la vista della isola della Maddalena, che tante volte mi è apparsa sopra il cuscino di spume che perpetuamente la circondano, con le sue caserme piatte, i suoi terrapieni e le sue rossastre piazzuole, avanguardia marittima d’Italia. Addio marinai bianchi, che certo ci salutate sventolando bandiere! Di quassú, in mezzo alle nuvole, non possiamo vedervi: eppure siete l’ultimo segno vivo della Patria sul mare. Cerco l’isola di Caprera, dove dorme il Leone biondo, che portò il nome d’Italia ai cieli dell’epopea, su quei due mondi medesimi che noi allaccieremo col nostro volo. Ma l’isola, in questo frastaglio di coste e di seni, sconvolti dalla furia del mare, in questo urlo di vento e mentre già nuvole fosche confondono in un solo manto sinistro l’aria e l’acqua, non si può identificare. La Tua ombra ci protegga, eroe delle mille battaglie, simbolo del volontariato e del sogno di redenzione della nostra gente!

Anche cerchiamo invano il piccolo e grazioso Porto Torres, che saluta di solito i naviganti dell’aria, con l’arco civettuolo delle sue casine bianche. Dalla parte della Corsica si intravvedono scogli aguzzi: la Sardegna è tutta coperta di nuvole. Ecco l’Isola dell’Asinara, che appare e scompare. È piú lugubre del solito. Laggiú ebbero sepoltura i prigionieri di guerra austriaci, trasportati dai serbi durante la tragica loro ritirata e, qui giunti, morti di fame e di colera. Sono le nove e venti.

Lasciamo alle spalle le Bocche di Bonifacio e ci avventuriamo sul mare sempre minaccioso. Le nubi si fanno piú basse. La pioggia piú insistente. Ci infiliamo dentro il groviglio temporalesco. Per mezz’ora non vediamo piú lo specchio del mare. Poi questo ricompare, per darci una visione fugace della sua furia selvaggia. Ritorniamo nella foschia. Gli apparecchi sono costretti a distanziarsi gli uni dagli altri per timore di collisioni. Le nubi scendono sino al pelo dell’acqua. Il vento ci sbatte in un ballo sgarbato. È duro e costa fatica mantenere la rotta. L’acqua crepita sull’apparecchio.

La battaglia dura per un’ora e mezza, poi torna il cielo sereno e il sole. Sotto di noi, il mare è improvvisamente calmo.

Avevo fino a quel momento maledetto i bollettini meteorologici: ora mi vien fatto di benedirli. Forse le due ore trascorse fra la burrasca rappresentano un fenomeno imprevisto e imprevedibile di breve durata.

Ad ogni modo, ne siamo usciti vittoriosi e si pensa solo al buono, quando il peggio è passato. Cosí ragionavo, rallegrandomi al bel sole mediterraneo, che mi illudevo ci avrebbe accompagnati sino alla mèta. Non mi ero accorto che quella illusione di sereno altro non era che «l’occhio del ciclone», fenomeno ben noto ai naviganti marini.

Tutto intorno, nubi nere e spaventose si adunavano, rotolando a soffocare il sole. Presto ebbero ragione di lui e ci presero nella loro viscida orrenda stretta. Tutto quello che avevamo sofferto dal passaggio dello Stretto ad ora, era nulla in confronto a quello che ci aspettava.

Per quasi due ore gli apparecchi ingaggiarono una lotta di vita e di morte con gli elementi inferociti. La natura aveva scatenato tutte le sue forze misteriose, incoercibili e selvagge, lanciandole contro di noi. Il vento ci bloccava nello spazio, dandoci l’illusione di tenerci fermi: poi, all’improvviso, abbandonava la stretta e noi precipitavamo per diecine di metri, in un vuoto d’aria, profondo come un pozzo, di cui non si vede la fine: poi ci riportava tra i suoi gorghi, i suoi mulinelli, i suoi schiaffi. L’apparecchio «scarrocciava», rullava, si impennava, come imbizzarrito e perduto nell’aria instabile, con salti spaventosi. La pioggia era cosí forte, che ci stupivamo potesse resisterle la tela delle ali: la visibilità era nulla: e quando, tra una nuvola e l’altra, compariva il mare, vedevamo, sotto di noi, onde alte come montagne.

Ebbi in quel momento l’angoscia della disperazione: forse la crociera atlantica era perduta proprio alla prima tappa!

Avremmo potuto mantenere il dominio degli apparecchi? Se un motore in quel momento avesse smesso di funzionare, l’apparecchio e l’equipaggio sarebbero stati travolti dalla tempesta e ingoiati dal mare.

Tutti i pensieri insidiosi, che suggerisce l’avversità della fortuna, mi venivano alla mente. Forse non avremmo dovuto partire. Forse la crociera era nata sotto cattiva stella. Una raffica di vento investí il mio apparecchio cosí duramente, che da due a trecento metri di quota fui trascinato fino al pelo dell’acqua. Miracolosamente l’apparecchio riprese, allorché già mi ritenevo perduto. Con fatica guadagnammo quota, senza che mai cessasse la furia della tempesta.

Non so quanto tempo passasse. So che aumentai i giri del motore, perché il mio apparecchio aveva bisogno di maggior velocità per stare in aria. Non potevo neppure mantenere la formazione, senza la certezza di investire e di essere investiti. Cinque apparecchi rimasero con me, gli altri si spostarono verso il nord. La mia radio trasmittente non funzionava piú.

D’un tratto scorsi terra. Era Minorca? Cercammo di orientarci alla meglio. No, era Maiorca. La prima isola delle Baleari era passata a due chilometri, forse, sulla nostra dritta, senza che ce ne accorgessimo. Riconosco, a nord, la curva della Baia di Pollenza, dove aveva ammarato, nel 1928, lo stormo della prima crociera. Taglio allora decisamente verso il sud dell’isola.

La navigazione sotto vento diviene impossibile.

I motoristi collocati agli oblò, per segnalarci la posizione degli altri apparecchi, venivano a dirci, di tanto in tanto, di scostarci a dritta o a manca, per evitare le collisioni: era l’ultimo mezzo che restava a nostra disposizione, per guidare l’apparecchio in mezzo alla bufera.

Ad un tratto, persi il controllo dell’apparecchio, trascinato vorticosamente in un «remous», senza che potessimo opporre alcuna resistenza. A dieci metri dall’acqua lo riprendiamo. Finalmente mi si spalanca davanti una piccola baia all’estremità meridionale dell’isola.

Vedo due idrovolanti già ammarati al riparo. Sono nostri? Sul momento mi sembra di sí.

Ammaro presso di loro, seguíto da altri cinque apparecchi atlantici. Gli idrovolanti che avevo intravisto dall’alto non erano italiani: erano francesi della Aeropostale, che da due giorni attendevano un attimo di tempo buono, per portare la posta, l’uno verso Tolosa, l’altro verso le coste africane. Eravamo scesi alla Baia di Puerto de Campos, all’estremo sud dell’isola. Le acque, a ridosso della scogliera che chiudeva la baia, non erano, però, del tutto tranquille.

Infatti, un nuovo pericolo si presentò per gli apparecchi, non appena buttammo l’àncora per ormeggiarli. Due di essi strapparono gli ormeggi e furono subito lanciati dal vento contro gli scogli. Gli altri minacciavano di fare altrettanto.

Gli equipaggi, con gli ufficiali alla testa, dovettero procedere a spossanti manovre per salvarli. Non vi era piú distinzione di grado. Io davo una mano a Cagna, che si dimostrò insuperabile. Longo e Bonino lavoravano a tutt’uomo; Teucci e Donadelli erano zuppi d’acqua come noi. Si vide subito che, per salvare gli apparecchi, era necessario trasportarli tutti alla riva sulla spiaggetta e tirarli a secco. Occorreva soprattutto aiuto di braccia umane. Come Dio volle, dopo avere tribolato per lungo tempo e aver passata le pene piú atroci, per la paura di vedere i nostri apparecchi andare in frantumi, riuscimmo a salvarli tutti e ad allinearli fuor dell’acqua sulla spiaggia.

Subentrò allora un’altra preoccupazione. Che fine avevano fatto le squadriglie, che avevano proseguito in volo? Con me erano i tre apparecchi verdi del Comandante Longo, piú Teucci e Donadelli della riserva. Come fare ad avere notizie degli altri otto?

Prendo con me Longo e andiamo alla ricerca di un ufficio telegrafico. Lascio il comando degli apparecchi di Puerto de Campos al Capitano Cagna, che ha molto contribuito al loro salvataggio. Mi avvio verso il piccolo villaggio di pescatori, che non conta piú di trecento anime. Domando quale è la prossima stazione del telefono. Mi viene risposto che occorrono circa due ore di automobile per raggiungerla. Dove trovare un’automobile? Seguiamo alcune indicazioni vaghe e riusciamo a scoprire una vecchissima Ford sgangherata. Sarà come Dio vorrà. Ci mettiamo in cammino sotto la pioggia. Non vi sono strade su questo estremo lembo dell’isola, ma soltanto larghe carreggiate, nelle quali la macchina affonda. Si marcia per due ore. Finalmente ecco la stazione telefonica. Voglio mettermi in comunicazione con Palma, dove qualche notizia dei nostri apparecchi deve essere giunta. Ma il telefono non funziona. Sono appena le quattordici e fino alle sedici la lontana centrale telefonica non si apre. Altre due ore di attesa? È impossibile. Strepito, protesto, imploro; finalmente arrivo a mettermi in comunicazione con Alcudia. Si sono visti apparecchi italiani? Rispondono che il guardiano del faro ne ha scorti passare tre. E gli altri cinque? Nessuna notizia.

Si riprende la piccola Ford che arranca sulle medesime strade, affondata nel fango. Piove sempre. Finalmente, ecco un paese un po’ piú grosso. Qui vi deve essere un’altra automobile, piú veloce. Sí, la troviamo: e avanti per Palma che dista ancora quaranta chilometri!

Vi arriviamo alle 17. Cerchiamo di metterci subito in comunicazione diretta con Cartagena, perché a Palma non sanno nulla. Ma il filo del telegrafo comunica soltanto con Barcellona. È impossibile avere altre notizie.

Con il gentile Agente Consolare, che Longo è riuscito a trovare, abbandoniamo il telegrafo e ci precipitiamo al Porto. Qui vi sarà qualche nave che possiede una radio. Troviamo l’«Infante Dom Jaime», una bella motonave fabbricata a Monfalcone da Cosulich. Domandiamo del Capitano e, portati finalmente alla sua presenza, spieghiamo il caso: urge mettersi in comunicazione radiotelegrafica con Cartagena, avere notizie di otto apparecchi italiani, eccetera.

Il cortese capitano non si raccapezza. Dobbiamo penare non poco a spiegargli chi siamo. Alla dichiarazione, che gli faccio, di essere il Ministro dell’Aeronautica Italiana, proveniente in volo da Roma, sorride incredulo. Non può immaginare che con quel tempo maledetto, che tiene il suo piroscafo chiuso nel porto da trenta ore, mi sia avventurato in volo attraverso il Mediterraneo. Ma alla fine si precipita alla radio, dove un simpatico radiotelegrafista si mette in comunicazione con Roma.

Quale sospiro si è alzato dai nostri petti, quando abbiamo saputo che tutti gli apparecchi erano in salvo!

Gli otto avevano proseguito in direzione nord, ove il vento era piú teso e piú regolare, perché non passava attraverso le gole montagnose dell’isola. Avevano raggiunto Los Alcazares ed erano tutti al sicuro all’idroscalo spagnuolo.

Scesi dal piroscafo, andai dal Console, e compilai il rapporto al Capo del Governo: poi con Longo mi recai a dormire con le ossa infrante, in un albergo sovrastante la baia. Ma il sonno non venne. Ogni tanto passavano lampi davanti alla mia finestra. Chiamavo Longo. Forse la tempesta accentuava la sua furia. Forse il vento aveva avuto ragione dei nostri sei apparecchi, allineati sulla spiaggia di Puerto de Campos. Sentivamo l’urla della bufera. Ma i lampi non erano che fasci intermittenti di luce, proiettati proprio davanti alle nostre finestre dal faro del porto. Anche quella notte passò: notte lunghissima, di angoscia. La mattina, all’alba, ripartimmo per Puerto de Campos, non prima d’esserci provvisti di sigarette per i nostri compagni.

Il mare era ancora feroce. Non era il caso di pensare alla partenza. Passammo tutta la giornata, ricoverati in un’osteria, composta da un’unica stanza semi buia, piena di fumo. I pescatori di Puerto de Campos vivono isolati dal mondo, in una ventina di case, hanno costumi primitivi e parlano un dialetto catalano incomprensibile. Non bisognava guardar tanto per il sottile. Tutti insieme, ufficiali e sottufficiali, passavamo le ore studiando il tempo, nella speranza, purtroppo vana, che cessasse la tempesta. Ci facevano compagnia, in quel bivacco, quattro guardie di finanza e due carabinieri spagnuoli. Eravamo sempre zuppi d’acqua per le continue esplorazioni agli apparecchi. Mangiavamo nella nostra «combinazione» di volo. Qualcuno, per deficenza di tavola, teneva il piatto tra le gambe. A notte dovemmo pur pensare a riposare in qualche modo. Ci raccogliemmo in una casa che affittammo per l’occasione. Le stanze erano completamente sprovviste di vetri. Il vento ci fischiava addosso: l’umidità ci penetrava nelle ossa: la bufera entrava liberamente tra le quattro mura, ballando la sua fantastica ridda. Qualche ufficiale preferí rifugiarsi dentro l’ala degli apparecchi. Io rimasi e ne subii le conseguenze. Quella sosta mi rese febbricitante per parecchi giorni.

La tempesta durò 48 ore. Finalmente vedemmo rischiararsi il cielo. Non c’era tempo da perdere e diedi l’ordine della partenza. Ma anche questa non doveva essere tanto facile. Gli apparecchi sulla spiaggia si erano completamente insabbiati. Il vento aveva portato cumuli di arena intorno agli scafi. Tutti noi, ufficiali, motoristi, radiotelegrafisti, con l’aiuto dei pescatori del paese, ci mettemmo intorno a questa nuova fatica, col terrore che la tempesta ci riprendesse. Occorse molto tempo, ma finalmente gli apparecchi galleggiarono!

Il decollaggio procedette non senza difficoltà, perché la baia è chiusa da due scogli, che permettono un’apertura di circa cento metri. Non era possibile il rimorchio e bisognava portare gli apparecchi al largo, mentre il vento minacciava di trascinarli contro gli scogli. Arrivammo al punto giusto coi nostri mezzi, e cioè coi motori alla mano, ma occorse tempo per eseguire quest’ultima manovra. Quando fui finalmente in aria, dovetti attendere una ora e piú, per vedere decollare i miei due nuovi compagni di squadriglia. Radiotelegrafai allora a Longo, che partisse per conto suo con la sua squadriglia, dato che il ciclone non era del tutto scomparso sul mare aperto, tanto che si ballava energicamente.

Infatti ne avvertimmo la coda fino al Capo Sant’Antonio. Qui, per fortuna, lo scenario della natura cambiò completamente. Comparve il sole a ripagarci delle recenti amarezze: poi un gran vento in coda ci spinse avanti di corsa verso la mèta. In due ore eravamo a Cartagena. Seppi poi che il ciclone si era sfogato su Algeri, causando molti milioni di danni.

Un’ora e mezzo dopo di me, arrivava a Los Alcazares il maggiore Longo, coi suoi tre apparecchi. Tutti fummo accolti con fraterna cordialità dal colonnello spagnuolo Ugarte, che già altre volte ci aveva ospitato, e dai camerati atlantici, la cui gioia nel rivederci fu certamente uguale alla nostra. Un solo pensiero brillava nella mente e sfavillava negli occhi di tutti: la crociera era salva!

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