Capitolo V LA NOTTE DI ORBETELLO

Il giorno 14, antivigilia della partenza, radunai gli ufficiali al gran rapporto e assunsi il comando effettivo della Crociera, con un ordine del giorno, nel quale indicavo i motivi ideali e il carattere storico della grande impresa, che impegnava il prestigio dell’arma del cielo.

Eccone il testo:

AGLI EQUIPAGGI DELLA CROCIERA ATLANTICA

Assumo da oggi il Comando della Crociera Atlantica, destinata a portare le ali tricolori dall’Italia al Brasile.

Il mio primo saluto va al ten. col. Umberto Maddalena che ha presieduto alla formazione e all’addestramento delle squadriglie, mantenendone salda la disciplina e altissimo lo spirito, e al maggiore Ulisse Longo che ha sostituito il ten. col. Maddalena allorché egli conquistava all’Italia un record glorioso, e lo ha poi coadiuvato con intelligenza ed ardore.

Un pensiero commosso rivolgo ai camerati capitano Ambrosino e sergente maggiore Stemperini, che sono caduti alla vigilia della grande impresa, lasciandoci, come ultimo voto, il comando di compierla.

Invito gli equipaggi ad esser fieri ed orgogliosi del compito che la Patria affida loro. Esso è destinato ad entrare nel ciclo dei piú memorabili fasti della storia aeronautica del mondo.

Noi compiremo il nostro dovere sino in fondo e ad ogni costo. Qualunque sorpresa ci riserbi il futuro, avremo la coscienza di servire un destino piú grande di noi e tale, in ogni modo, da giustificare qualsiasi sacrificio, fosse pure quello supremo.

Camerati delle squadriglie nera, bianca, rossa e verde!

Gli azzurri soldati del cielo non temono la morte e sono abituati a donare generosamente la vita per andare piú oltre. Davanti alla Maestà del Re d’Italia, questo fu ed è il giuramento che impegna tutto il nostro onore. Ripetiamo il giuramento al Re Vittorioso e lanciamoci, con cuore saldo e volontà temprata, su quelle stesse vie dell’Oceano che il genio e l’ardimento italiano aprirono un giorno alla conquista della civiltà.

Ci seguirà, durante tutta la crociera, lo sguardo incitatore e vigile di colui al quale l’Italia di Vittorio Veneto ha delegato il compito di far grande e potente la Patria, di colui che ha voluto la rinascita dell’Ala italiana del Duce dell’Italia Fascista.

Camerati: A noi!

Orbetello, 14 dicembre 1930 - IX.

IL MINISTRO DELLA R. AERONAUTICA
Generale di squadra aerea
ITALO BALBO

Gli «atlantici» erano degni dell’appello che rivolgevo loro: mi ascoltarono con occhio fermo e fiero, che bastò ad affidarmi: essi mi avevano compreso, come io comprendevo loro: le selvagge montagne e l’azzurro mare di Maremma nella loro nuda semplicità, che sembra carica di destino, incorniciavano la scena. Chi la visse non la dimenticherà.

Ordinai per quel giorno stesso un volo collettivo in formazione. Partimmo in quattordici apparecchi verso il nord, disposti nella nostra caratteristica geometria di volo: la squadriglia nera in testa e dietro, come un tricolore spiegato al vento, la bianca, la rossa, la verde. Diressi il volo verso San Vincenzo, un paese ridente sopra un lembo di spiaggia arenosa, a specchio del Tirreno, sopra un minuscolo promontorio verde. Lí, nel cimitero a ridosso dell’abitato, non lungi dalla stazione ferroviaria, era stato sepolto il Capitano Magdalo Ambrosino, che, primo tra i camerati, aveva dato la vita per l’impresa.

Due anni prima vi era giunto, da Livorno, per lo estremo riposo, il fratello Tenente Piero, aviatore anch’egli, perito in volo sull’Alto Tirreno. Giungemmo sopra San Vincenzo a volo basso, in gruppo compatto, ala contro ala, e arrivati sul cimitero ci abbassammo ancora. Tra le due tombe, sempre coperte di fiori freschi, immobile e solo, come una statua, spiccava un uomo vestito di nero. Era papà Ambrosino, che alla Patria aveva dato tutt’e due i figli suoi e ne vegliava il riposo. Da ogni apparecchio cadde, fra il rombo urlante dei motori, una pioggia di fiori sui cumuli eroici, estremo nostro saluto. Magdalo Ambrosino doveva sentire che i camerati non lo dimenticavano, mentre stavano per salpare verso l’Oceano. Ci rialzammo lentamente, ritornammo verso il mare azzurro, percorso da un vento fresco che sembrava entrare nell’anima, e, sempre restando in formazione stretta, piombammo sul lago di Orbetello ammarando in ordine perfetto. Alla sera mi recai a Roma, per sbrigare, prima della partenza, gli ultimi affari del mio Ministero. Esso sarebbe stato ufficialmente assunto, durante la mia assenza, dal Capo del Governo, come già era accaduto in occasioni simili, quando, per esempio, il Ministro Volpi si era recato in America per la convenzione sui debiti e il Ministro Mosconi era partito per Amsterdam per la conclusione del Piano Young.

Il tempo continuava a mantenersi buono: e io incominciavo a crederlo veramente «galantuomo», quando, proprio durante il viaggio di ritorno a Orbetello, la mattina del 14, che era domenica, incominciò a piovere. Era un contrattempo fastidioso e inaspettato. Avrebbe continuato per un pezzo? Consultavo il cielo: ahimé, era già tutto coperto! Le strade si riempivano di acqua: la bella campagna, poco prima distesa alla carezza del sole mediterraneo, in un abbandono pieno di fiducia, si faceva melmosa e grigia. Scompariva, nella terra fradicia, il bel verde del grano tenerello, color della speranza. Incominciò il periodo tormentoso dei pronostici, delle illusioni presto troncate, delle false partenze e delle estenuanti attese, il periodo forse piú penoso della intiera crociera. Mentre, da Orbetello a Pisa e a Roma, le strade si facevano sempre piú brutte per l’implacabile rovescio del cielo, aumentava invece di giorno in giorno l’affluenza degli amici all’idroscalo. Si affrettavano da ogni parte d’Italia per assistere alla partenza. Arrivavano zuppi d’acqua, qualcuno dopo aver viaggiato in automobile per dieci, dodici, quattordici ore; affollavano l’anticamera della Palazzina Ufficiali, che restava perennemente ingombra di ospiti diversi; sentivano dire: «non si parte»; qualcuno restava; qualcuno si rimetteva in macchina, per rifare poi il viaggio il giorno seguente, spesso senza avermi neppure veduto. Eravamo veramente feroci con tutti. Ma per quanto avessi fatto mettere quaranta carabinieri attorno all’idroscalo, e avessi annunciato che nessun estraneo dovesse metter piede entro il recinto, gli amici intimi non si sgomentavano e finivano per vincere la crudele consegna. Vi erano del resto tra i visitatori personalità autorevoli e care. Proprio mentre il tempo imperversava piú ferocemente, giunse a Orbetello Giuriati insieme con Starace, D’Addabbo, Mastromattei, Leonardi. Giuriati aveva affrontato il diluvio di acqua gelida di quell’inverno improvviso, per portare personalmente agli «atlantici» la tessera del Partito, insieme col suo saluto di uomo prode, innamorato della prodezza altrui. La consegna della tessera avvenne con la semplicità propria delle cerimonie che hanno diretta rispondenza con la realtà. Era una consegna d’eccezione, perché le iscrizioni al Partito sono rigorosamente chiuse e perché non si dà, per norma, la tessera del Partito agli ufficiali. Ma — disse Giuriati — era giusto che la regola fosse violata: era giusto che la violazione della norma ordinaria apparisse patente e clamorosa: perché, proprio nella eccezione alla legge, era il segno dell’altissimo significato che il Partito attribuiva alla Crociera Atlantica, impresa di carattere e stile fascista, degna dello spirito eroico della Rivoluzione.

Già precedentemente Scorza aveva consegnato ad ogni «atlantico» la camicia nera, regalata dai giovani fascisti come un simbolo e una investitura: annunciai a Giuriati che l’avremmo indossata durante i tremila chilometri della traversata, quale segno della nostra volontà di vincere ad ogni costo l’oceano infido.

Giunsero a Orbetello in quei giorni anche molti altri Ministri e camerati: Di Crollalanza, Riccardi, Parini, Perrone Compagni, Klinger. Cara sopra ogni altra, mi fu la visita di De Bono e De Vecchi, che, insieme col Generale Sacco, mi fecero rivivere l’ora del Quadrumvirato di Perugia, quando il destino macinava l’evento della rivoluzione e lo faceva precipitare verso l’epilogo vittorioso. Il nostro saluto ebbe il tono di quelle lontane giornate. Essi furono con me e io con loro un’anima sola, dalla ferrea volontà protesa. Anche mi riuscí caro l’omaggio dei camerati di Ferrara, che per mezzo del Console Chierici e del Podestà Renzo Ravenna, mi consegnarono il primo gagliardetto di combattimento delle camicie nere ferraresi. Quanti ricordi erano legati a quel grande rettangolo nero, che reca il motto «Me ne frego...»

Mi parve allora — e piú sentii in seguito, durante le ore difficili del volo — che gli spiriti giovinetti primi compagni d’armi, con i quali avevo preso le mosse per la battaglia rivoluzionaria, all’ombra delle svelte torri di Ateste, mi accompagnassero nel nuovo cimento.

A nome delle Camicie Nere della Maremma, Pierazzi mi consegnò il guidone di comando, che aveva, da una parte, in campo azzuffo, l’aquila col Fascio Littorio, e dall’altra, il tricolore con lo stemma di Savoia. Il guidone sventolò subito sul primo apparecchio della squadriglia nera.

Piero Parini mi fece omaggio di una grande medaglia d’argento coniata per conto dei fascisti del Sud America, che portava incisi nel recto, un gruppo di velivoli sul mare e la scritta: «Romana virtus, Italo Balbo consule, oceanum pluribus superat alis» e nel verso l’immagine dei due emisferi, rappresentati in alto, dalla Stella Polare e dal segno zodiaco dello Scorpione, in basso, dalla Croce del Sud e dal segno del Capricorno.

A ricordo della grande impresa furono coniate tre tipi di medaglie commemorative, un modellino dell’apparecchio atlantico, un distintivo speciale della crociera, ciondoli e tagliacarte tutti portanti il profilo dell’idrovolante. Questi oggetti furono distribuiti a migliaia e migliaia di esemplari, a scopo di propaganda, attraverso gli Aeroclubs.

Due grandi manifesti vennero affissi in tutti i locali pubblici del Regno, affinché il popolo avesse subito l’impressione visiva delle grandi distanze che gli stormi aerei dovevano percorrere. Nel primo era rappresentata la grande traversata oceanica, con il disegno degli apparecchi in formazione sull’atlantico. L’altro era fatto a dittico: nella parte superiore erano gli apparecchi in volo con il profilo dell’Urbe — punto di partenza della crociera: in quella inferiore gli idrovolanti già schierati nella linea di ammaraggio sulla grande baia di Rio de Janeiro, punto di arrivo e meta finale della impresa.

I pittori Giovanni Guerrini, Carlo Socrate e Mimi Buzzacchi Quilici incisero nel legno le imprese delle varie squadriglie. La prima, che io prescelsi per la squadriglia nera, portava il verso di Dante, tolto dal Canto di Ulisse: «E misi me per l’alto mare aperto». Ovidio e Virgilio ci diedero, per le altre imprese, questi splendidi motti: «Ulterius sit iter» — «Tentamusque viam et velorum pandimus alas». Dalle Epistole di Orazio fu tratto il motto «Coelum non animum mutant qui trans mare currunt».

L’Ambasciatore brasiliano a Roma, De Teffé, mi diede una carta antica del Brasile e mi affidò un messaggio per il Presidente Vargas.

Il Console Candelori — a nome del Coni — mi offrí un distintivo d’onore.

Vennero ancora gli «assi» De Bernardi, Ferrarin e Donati e mio fratello Edmondo. Inoltre, per tutti gli ultimi tre giorni furono sempre presenti all’idroscalo il mio Capo di Gabinetto Colonnello Tedeschini, il mio Segretario Ten. Col. Pischedda e alcuni ufficiali superiori dell’Aeronautica.

Piovevano i messaggi. Gabriele d’Annunzio telegrafò

«Ibis redibis memento audere semper», motto augurale veramente romano.

Per tutto il giorno 14, l’affettuosa affluenza non ebbe tregua. Papà Ambrosino telegrafò: «Domattina, mentre la grande crociera partirà noi saremo a messa a pregare per voi e per tutti. Vi ringrazio del pensiero gentile e vi mando anche l’abbraccio di Magdalo. Papà Ambrosino».

Risposi: «I suoi figli sono con noi».

Quel giorno, mentre eravamo a mensa, fu annunciato l’arrivo di Miss Spooner col Capitano Edward. Pranzò con noi, festeggiatissima, con la sua disinvolta e cordiale semplicità inglese, da buon camerata dell’aria. Ebbe in omaggio l’«ir-or» e il «rata-flau-flau-flau» degli atlantici e, proprio in suo onore, il «It is long-long-way to Tipperary» elevato da voci e petti robusti. Assistette alla proiezione di una cinematografia sulla preparazione della crociera, visitò minutamente gli hangars e gli apparecchi, mai sazia di ammirare, e non ci nascose rammarico e nostalgia per dover restare a terra mentre i suoi camerati italiani partivano. Mi ringraziò molto per l’assistenza che le avevamo prestato durante l’incidente di Belmonte Calabro. Partí distribuendo energiche strette di mano. «Good by» intrepida volatrice! Porta ai tuoi lontani paesi l’eco di questa giovinezza trionfante, che sembra uscita or ora dalle trincee di guerra!

Sí, ma intanto il tempo non accennava a diventare migliore. Foschi nuvoloni rotolavano da una parte all’altra del cielo. Neppure uno strappo di sereno. L’aria umidiccia entrava nelle ossa. Bigio colore di pioggia dapertutto, sulla terra e sul mare.

Gli apparecchi, fin dalla sera del 14, erano pronti a partire, col loro carico completo, ancorati ai gavitelli sul lago. Ogni tanto l’occhio correva a loro, con mal frenata impazienza. Spiccavano sull’acqua, immobili, nella librata leggerezza delle ali distese, coi motori e le eliche «incappate».

Tra il 14 e il 15, fu notte bianca per noi, che, rintanati nel gabinetto meteorologico, studiavamo le eventualità, molto deboli, di un improvviso rinsavimento del cielo. Era segnalato tempo cattivo su tutta la rotta. Partire all’alba del 15 sarebbe stato follia. Diedi il contrordine e mi predisposi a veder passare, una per una, le ore della nuova giornata con impazienza sempre maggiore. Il martedí 16 le condizioni restavano invariate. E intanto continuavano ad affluire gli amici. Non so se fui sempre cordiale. Certo il mio umore non doveva essere invidiabile. Alla vigilia di una impresa che può costare la vita, si ha il bisogno di sentirsi staccati dai legami, anche piú dolci, che formano il mondo ordinario della vita affettiva. Si vuol essere tutti presi dal proprio impegno contro il destino. Liberi di se stessi nel senso piú assoluto della parola. Ma le mie intenzioni restavano... tali, perché, all’atto pratico, la stanza del Circolo Ufficiali dell’Idroscalo di Orbetello continuò ad essere ingombra come un bivacco.

Se non fu la ragione principale, certo questo inconveniente contribuí a decidere la partenza per l’alba del 17.

I bollettini ci segnalavano una depressione tra il Golfo del Leone e le Baleari. Ma i meteorologi assicuravano che passando al sud di Minorca lo stormo avrebbe potuto evitare la zona cattiva lasciandola sul fianco destro. Le piogge che lungo tutto il percorso erano annunciate come insistenti, ma leggere, non ci avrebbero dato fastidio.

La sveglia suonò all’idroscalo alle quattro del mattino. Ognuno fece del suo meglio per trovarsi rapidamente sul grande spiazzo dell’imbarcadero. Era ancor notte. Alle nostre spalle le masse grige degli hangars mettevano un’ombra sull’ombra del cielo. Il lago era immerso nella piú assoluta oscurità. Ad intermittenze regolari otto grandi riflettori gettavano sulle acque pigre un fascio di luce e allora tutto prendeva risalto.

Come fantasmi sul color piombo, i profili dei colli si svelavano tutti e sopra il lago, uno per uno, venivano in luce i candidi apparecchi atlantici. Sullo spiazzo dell’imbarcadero era un grande stropiccio di passi, un andare e venire di ombre, discrete e frettolose.

L’aria è ghiaccia e umida. La falce sottile della luna fa capolino tra una cortina di nuvole, poi scompare, poi ricompare nuovamente. A oriente l’alba comincia a filtrare con un timido annuncio argenteo, ai limiti dell’orizzonte: sull’argento essa depone un leggero velo di verde, poi una piú lunga striscia di giallo: infine una grande sinfonia di color rosa incendia la catena dei monti maremmani. Non è ancor giorno, ma non è piú notte: è l’ora antelucana che i poeti hanno paragonato alla speranza e alla giovinezza: è l’ora che precede la partenza.

Per ogni apparecchio è previsto un sacco di corrispondenza: sono cinquecento chili in tutto, da dividere per quattordici. Poi vi è il cesto dei viveri. Le barche trasportano il loro carico leggero verso gli apparecchi tra un lieve rumore di acqua mossa. Ritorno, insieme con Valle, con Maddalena e con Longo, nel gabinetto meteorologico. Controlliamo gli ultimi dati. Il tempo stamane viene segnalato buono fino alla Sardegna, incerto con pioggia verso le Baleari, e bello sulla costa spagnuola. Insomma non è affatto proibitivo.

Si parte!

Sullo spiazzo dell’idroscalo, dietro mio ordine, è stata innalzata una grande antenna. Ai piedi dell’antenna presta servizio un picchetto armato di avieri. Vi si schierano di fronte gli equipaggi della crociera. Siamo tutti qui, raccolti in atteggiamento militare, con un senso religioso dell’ora che passa. Una tromba squilla: il tricolore sale lentamente verso la sommità dell’antenna. Un grande silenzio grava su di noi: ma è un silenzio di musiche dello spirito. Il cuore canta l’eterna poesia della Patria, mentre ad ognuno si scolorisce il viso e un grande brivido corre per le membra. Indimenticabile emozione: la Patria è lassú, verso il cielo, e nel cielo noi la serviremo fino alla morte e oltre la morte. Un altro squillo di tromba. Siamo già tutti padroni dei nostri nervi. Salutiamo brevemente gli amici. Rispondo al loro urlo frenetico con un alalà alla Patria, al Re, al Duce. Il nostro pensiero ormai vola con gli apparecchi verso gli orizzonti marini.

In pochi minuti gli equipaggi sono pronti al decollo.

I motoristi hanno già tolto le cappe ai motori e alle eliche. Qualcuno arrampicato sul castello dà un ultimo sguardo ai fidi amici dal cuore d’acciaio: sembra un uccello notturno appollaiato tra i cilindri a cercarvi un nido. Al sopraggiungere dei piloti la vita si fa piú intensa in ogni apparecchio. Si provano i motorini di avviamento, si controllano i comandi: battute di dialogo e rumor di passi vengono su dal ventre di legno degli scafi, entro i quali, il secondo pilota e il motorista camminano a schiena curva. Ogni apparecchio ha una tabella che indica i quantitativi di miscela, di olio e di acqua che occorrono per ogni tappa. Oggi sono imbarcati 2440 chilogrammi di benzina, 150 chilogrammi di olio e 50 di acqua: un carico abbastanza forte. Tra Orbetello e Cartagena vi sono 1200 chilometri.

Bisogna anche controllare i viveri di bordo. Anzi benché siano, queste, ore antelucane, lo stomaco mugge un poco e gli equipaggi prima di partire sorbiscono caffè caldo. Ogni apparecchio ha in dotazione provvidenziali thermos, che sono preziosi soprattutto al momento della partenza.

Già dietro i monti della Maremma, che fanno corona al massiccio triangolare dell’Amiata, il sole accenna a bucare le nubi, con certi strali acuti di fiamma, che sembrano le spade degli angioli di Dio descritte nella Bibbia. Sulla riva intravediamo le ombre nere e fitte del personale dell’Idroscalo e piú lontano, a sinistra, la popolazione di Orbetello, che occupa i bastioni delle mura, le piccole alture prospicenti e perfino i tetti delle case. La sinfonia di quest’alba invernale, tutta agitata dal fremito dei cuori in attesa, non potrebbe essere espressa che in musica.

Lancio il comando:

«Motori in moto».

E per tutto il lago si risveglia il crepitio dei motorini di avviamento; presto qualche motore fa sentire il suo urlo lacerante: qualche altro risponde, finché dai quattordici apparecchi e dai ventotto motori, non sale una unica sinfonia, che il vento porta lontano: sinfonia di metalli ben temprati, di scoppi alterni, di eliche lanciate a fendere l’aria col loro sibilo.

Gli apparecchi fanno la ruota attorno al gavitello, descrivendo un sorridente circolo di spuma. Si «mollano» gli ormeggi. Sono le 7,45. Il mio apparecchio taglia l’acqua del lago e si impenna contro il vento: siamo in aria. Contemporaneamente salgono verso il cielo l’apparecchio di Valle, quello di Maddalena e un apparecchio officina. La squadriglia nera ha appena finito di decollare, che la seguono le squadriglie bianca, rossa, verde. In tutto, lo stormo ha impiegato sette minuti per spiccare il volo.

Punto sopra Ausidonia, passo sopra il Tombolo di Feniglia e fiancheggio Porto Ercole. Ecco la cima scabra dell’Argentario: oh meraviglia! essa, che è sempre coperta di nuvole, oggi è inondata da un fascio di luce solare e risplende come un faro, sulla terra e sul cielo. Le rughe delle sue rocce si svelano nude all’occhio che le fruga. Addio, vedetta d’Italia sulla gran piana di Maremma! Addio, monte amico, tante volte sorvolato a corona dalle ali tricolori!

Il mare apre davanti agli occhi nostri il suo azzurro ventaglio. Lanciamoci verso il mare aperto, o camerati, come Padre Dante ci consiglia. «Fatti non foste a viver come bruti — ma per seguir virtude e conoscenza...»

Share on Twitter Share on Facebook