Capitolo IV VIGILIA EROICA

I giorni del mite autunno filavano rapidamente.

Si avvicinava ormai il giorno della partenza, fissato per il quindici dicembre. Verso la fine di novembre, si era aperta la Camera. Quasi contemporaneamente, anche per tagliar corto alle balzane notizie che pubblicavano i giornali stranieri, il Capo del Governo, a mezzo della «Stefani», emana un comunicato di poche righe in cui ufficialmente la crociera veniva per la prima volta annunciata al mondo:

«La R. Aeronautica ha progettato per il prossimo dicembre una crociera Italia-Brasile, con quattro squadriglie di idrovolanti su tre apparecchi ognuna».

Il comunicato era conciso, anzi tacitiano, ma bastò a far piovere telegrammi di plauso e di augurio: bastò anche a sollecitare le premure di molti amici, che mi vedevano ormai irrimediabilmente legato al destino della transvolata atlantica. C’è sempre chi trova nel proprio affetto verso una persona cara, motivo di moralismi prudenziali. Vi fu alla Camera chi chiaramente mi disse che io non dovevo andare: anzi non mancarono amici che minacciarono di fare addirittura un’istanza al Capo del Governo affinché mi trattenesse in Italia. Comprendevo e cercavo di rispondere a barzellette. La piú fiera, ma insieme la piú silenziosa avversaria della grande e bella avventura era certamente mia moglie. È difficile descrivere i sentimenti che si provano nell’ambiente familiare quando si sta per partire per un viaggio che potrebbe anche essere l’ultimo.

Solo chi l’ha provato lo sa. Resteranno per sempre scolpiti nel ricordo certi improvvisi silenzi, certe subitanee deviazioni di discorso. Mi sorprendevo, qualche volta, a giocare a lungo con le mie bambine. Indugi inconsapevoli dettati da improvvise ombre sul cuore. Ma occorreva non tradire la bella idea, folgorante nella mente come un invito del destino, che forse non si sarebbe piú ripetuto. Bisognava non tradire se stessi. E allora ritornavo ai lunghi voli di allenamento. Io sono sempre stato e rimarrò del parere che mi espresse un giorno, a Roma, uno dei piú valorosi aviatori del nuovo continente: il tenente di vascello Williams: chi comanda l’Aviazione deve mettersi in testa sempre, mai in coda: è necessario avere nelle mani il capo del filo con cui si tirano dietro di sé gli altri piloti, anche i piú audaci: spingere il filo avanti, stando per proprio conto fermi, è impossibile. Il filo si piega. È quello che io ho cercato sempre di fare: pagare di persona e dare l’esempio. Non altro credo sarà il mio merito in questa impresa. Ma mi basta.

Partirono, primi fra tutti, cinque giornalisti italiani verso la metà di novembre. Essi fungevano da precursori.

E forse, in questa loro veste, nessun mezzo era piú indicato del motoveliero sul quale s’imbarcarono a Genova. La navigazione atlantica sugli idrovolanti rappresenta l’ultima conquista del genio meccanico: il veliero ne è senza dubbio l’esemplare piú antico. Noi avremmo impiegato diciotto ore a trasportare quarantotto uomini da una costa all’altra dell’Oceano: i cinque giornalisti ne avrebbero impiegate oltre cinquecento. Il programma aveva dunque in sé piú di uno spunto poetico, e una certa sua caratteristica, di antitesi storica, che sembravano fatte apposta per stuzzicare la fantasia degli appassionati vagabondi del giornalismo contemporaneo.

In realtà era anche un mezzo idoneo a fare risparmiare sulle spese. Il criterio della piú stretta economia è stato tenuto fermo dal giorno in cui la crociera fu progettata, fino all’ultimo in cui si è chiusa. Il viaggio in America costa caro. I giornalisti italiani approfittarono volentieri del veliero «Aosta» che partiva verso Porto Natal, dopo aver visitato le altri basi europee ed africane a scaricarvi la benzina necessaria ai rifornimenti. Già, prima di partire, mi manifestarono la loro soddisfazione.

— Sarete veramente i padroni del vapore perché nessun altro passeggero si imbarcherà sull’«Aosta»... Il Capitano non lo permetterebbe, e del resto, anche se lo permettesse non saprebbe dove metterei nuovi arrivati: farete quindi una traversata degna di un miliardario americano. I miliardari amano spesso fare lunghi viaggi in mare sui loro cutters a vela. Però attenzione: sul veliero non vi sono cabine: bisogna dormire nelle cuccette; non vi sono sale da pranzo e bisognerà che mangiate in due distinte serie, a tre alla volta, come sui vagons restaurants: e, soprattutto, non vi sono sale per fumatori, perché la unica sala del piroscafo è la stiva, nella quale sono stipate alcune migliaia di latte di carburante... In compenso visiterete tutti i porti della crociera. Vi farete una bella erudizione geografica: però (anche qui c’è un però) il vostro piroscafo, essendo carico di materia infiammabile, non potrà accostarsi alle banchine e dovrà ancorarsi al largo a qualche chilometro dalle altre navi. Fate buon viaggio e cercate di arrivare a tempo. Avete avanti a voi due mesi e non è difficile che incontriate, nelle zone equatoriali, qualche zona di calma assoluta: in questo caso, non si fanno a vela piú di tre chilometri al giorno! Avete però il motore ausiliare e con questo potrete navigare fino a cinque nodi!

Per colmo di ferocia, sapendo che ad essi soprattutto rincresceva la tassativa proibizione di fumare, risposi ad un telegramma di saluto con il seguente:

«Non perdervi d’animo: se mi capiterà di passar sopra la nave col mio idrovolante vi butterò un pacchetto di sigarette...»

Ma quei bravi diedero ancora una volta testimonianza di spartana intrepidezza e partirono allegramente.

Erano tutti veterani delle crociere aeree precedenti: Michele Intaglietta della Gazzetta del Popolo, Ernesto Quadrone della Stampa, Mario Massai del Corriere della Sera, Luigi Freddi del Popolo d’Italia, Adone Nosari del Giornale d’Italia.

Quindici giorni prima della partenza l’onorevole Scorza inviava a nome dei Fasci Giovanili del Partito in omaggio camicie nere per tutto l’equipaggio. Il gesto voleva significare l’ideale investitura fascista degli intrepidi che avrebbero attraversato l’Oceano.

Il mese di ritardo che ci procurò la rivoluzione brasiliana, serví a dare gli ultimi tocchi agli apparecchi: gli aviatori chiamano, nel loro gergo «fare toilette» agli idro, la revisione generale a tutti i pezzi, le tubazioni e i comandi dell’apparecchio, che si fa all’estrema vigilia di ogni raid.

Tra l’altro, furono spalmati gli scafi con un bitume piú denso, e il bitume fu pareggiato minuziosamente e pazientemente con un ferro da stiro elettrico, per rendere la chiglia inattaccabile alle miriadi di piccoli insetti che infestano le acque di Bolama, e hanno una penetrante forza di introduzione nel legno.

Inoltre, fu deciso che tutti gli equipaggi destinati al volo, facessero una prova di decollo a pieno carico sul lago. L’effettuò per primo Maddalena con Cecconi. La prova andò benissimo e il Comandante della Scuola rimase in aria per venti ore: il tempo necessario per la intiera trasversata atlantica. Il secondo equipaggio destinato all’esperimento era quello del Capitano Baldini che aveva, come secondo pilota, il Capitano Ambrosino. Essi avrebbero dovuto sollevarsi in volo il giorno 27.

Quella mattina io dovevo recarmi da Sua Maestà per la firma reale. Vi andai, infatti, con l’anticipo di 10 minuti. Era la prima volta che rivedevo il Re di ritorno da San Rossore. Fui introdotto da Sua Maestà. Il Re mi domandò subito notizie della crociera:

— Quando partiranno? — mi chiese con la consueta affabilità.

— Partiremo il 15 dicembre.

— È una cosa veramente meravigliosa e io so che la preparazione è stata curata anche nei particolari piú minuziosi. Sono sicuro che questa impresa farà onore al nostro Paese!

— Faremo, come sempre, tutto il nostro dovere, Maestà. Gli uomini sono all’altezza della situazione!

— Me ne compiaccio vivamente, e faccio a lei e ai valorosi equipaggi tutti i miei auguri.

Il volto del Re era raggiante. Il mio non doveva esserlo di meno.

Andai in tutta fretta al Ministero, dove mi attendeva una giornata di lavoro febbrile. Ero appena giunto che mi venne incontro il Capo di Gabinetto, Colonnello Tedeschini, con un viso lungo ed oscuro.

— È avvenuto un incidente...

— Non ad Orbetello... — risposi con ansietà, prevedendo purtroppo la risposta.

— Sí, Eccellenza, ad Orbetello...

E poiché intravvide subito che mi ero scolorito in viso, aggiunse precipitosamente:

— Ma non vi sono morti...

Questo particolare bastò sul momento a rasserenarmi. Chiesi ansiosamente altre notizie.

Seppi cosí che, durante la prova di decollo a carico completo con 4800 chili di carburante a bordo, il Capitano Baldini, col suo equipaggio, aveva regolarmente decollato verso le otto e trenta di quella mattina. A causa del vento non aveva potuto dirigersi verso il mare, ma verso le collinette che fronteggiano l’Idroscalo a mezzogiorno. Dalla prima comunicazione ricevuta dal Colonnello Tedeschini, si sapeva soltanto che l’apparecchio, giunto sulla insenatura di una valletta tra questi colli, si era abbassato sino a posarsi a terra; che all’urto si era incendiata la benzina e che tutti i componenti dell’equipaggio erano feriti. Pareva che le condizioni del Capitano Baldini e del motorista non fossero gravi: che il Capitano Ambrosino fosse rimasto colpito agli occhi e che il radiotelegrafista presentasse le maggiori preoccupazioni. Era già partito per Orbetello, in volo, il Generale Valle, Capo di Stato Maggiore, insieme con un oculista, e si attendevano ulteriori particolari. Chiamai immediatamente al telefono l’Idroscalo di Orbetello e potei parlare subito con lo stesso Generale Valle, il quale, in sostanza, mi confermò le notizie già ricevute, aggiungendo che per il radiotelegrafista si erano ormai perdute tutte le speranze.

A mezzogiorno giunse a Roma il Capitano Cagna e da lui ebbi il diretto racconto dell’incidente. Seppi che, pochi minuti dopo il decollo, gli ufficiali radunati sullo spiazzo dell’Idroscalo, per assistere all’esperimento, avevano visto alzarsi di là dalle colline una enorme fiammata. Subito erano accorsi sul posto con tutti i mezzi a disposizione. Lo spettacolo del rogo, immenso e fumante, li aveva da prima colpiti di sgomento, perché era sembrato impossibile che qualcuno si fosse salvato. Invece lo stesso Capitano Baldini, col viso combusto e le mani sanguinanti, era venuto loro incontro sui binari della ferrovia senza farsi sorreggere, e il motorista Maresciallo Zoboli, aveva da sé preso posto nell’autoambulanza dimostrando una perfetta presenza di spirito. Piú grave si presentava il Capitano Ambrosino, che aveva già il viso irriconoscibile per le profonde ustioni. Il radiotelegrafista poi era stato estratto da uno degli scafi in fiamme, con l’aiuto di qualche contadino. Era il Sergente maggiore Stemperini: nella disgrazia era stato il piú sfortunato perché era rimasto prigioniero fra i rottami incandescenti. Gli altri, invece, erano stati sbalzati lontano non appena l’apparecchio giunto a terra, aveva capottato e si era incendiato.

Il Capitano Baldini, protetto dalla grossa giubba di cuoio e aiutato dalla enorme forza fisica, aveva spento da solo le fiamme, tra le quali era avvolto, rotolandosi per terra tra gli sterpi. Anche il Capitano Ambrosino aveva fatto lo stesso, ma, disgraziatamente, il terreno sul quale si era rotolato era anch’esso ormai zuppo di materia infiammabile.

Il povero radiotelegrafista Stemperini, quantunque ridotto in condizioni pietose, non aveva fatto, durante tutto il tragitto dal luogo dell’incidente all’idroscalo, che gridare la sua fede nell’ala italiana. Anzi, nel momento stesso in cui la barella che lo trasportava faceva il suo ingresso all’Idroscalo, aveva avuto la forza di alzarsi sui gomiti e di urlare: «So che debbo morire. Viva l’Italia! Viva il Fascismo! Viva l’Aeronautica!»

Telefonai al Professor Bastianelli, valoroso ed intrepido aviatore chirurgo di fama mondiale. Sapevo che egli avrebbe immediatamente risposto al mio appello. Un anno fa non si era recato direttamente in volo da Roma a Bengasi per operare un infortunato dal volo? Per telefono gli raccontai brevemente l’incidente di Orbetello ed egli senz’altro accettò di partire con me, su un S. 59, che nelle prime ore del pomeriggio era già in volo sul Tirreno. Giungemmo all’idroscalo di Orbetello accolti con aspetto di commossa gratitudine dal Comandante Maddalena e dai suoi ufficiali. Purtroppo il Sergente Stemperini era morto. Ci recammo tra i feriti, raccolti amorosamente all’Ospedale della città. Vedemmo subito il Capitano Baldini. Questo valoroso non aveva avuto che un pensiero, fin dall’attimo della caduta, e ce lo ripeté con la voce strozzata dall’emozione: i suoi compagni feriti e l’impossibilità di partecipare alla crociera. Anche il Capitano Ambrosino, gravissimo, alla moglie accorsa all’Ospedale, aveva detto subito con amarezza: «Maria, addio crociera!»

Mentre il Professar Bastianelli esaminava le loro ferite, rivolsi affettuose espressioni ai due ufficiali tentando sollevarli dallo stato di penosa angoscia in cui si trovavano.

Anche il motorista Maresciallo Zoboli, un uomo di quarantun anni e coi capelli grigi, diede prova di uno spirito superiore: — Io sí, — mi disse, — posso benissimo fare la crociera...

Rendemmo omaggio al morto che il giorno dopo sarebbe ritornato, esempio fulgido di valore, a riposare per sempre tra le verdi e dolci valli della sua Umbria natia. Parlai brevemente agli Ufficiali. L’incidente li aveva addolorati, non scossi nella fede e nella volontà di riuscire ad ogni costo.

Cinque giorni dopo, il nido degli aquilotti di Orbetello riprendeva il ritmo febbrile del suo lavoro di preparazione: la sosta fu dura e lacrimata per l’agonia dell’indimenticabile capitano Magdalo Ambrosino, morto, col nome della Patria sulle labbra, a mezzogiorno del 30 novembre, e sepolto dai suoi compagni innanzi al Tirreno luminoso, nella terra della Maremma selvaggia, al Cimitero di San Vincenzo.

La mattina dell’8 Dicembre presi congedo dal Duce. Era al suo tavolo di lavoro, a Palazzo Venezia, nella sala mantegnesca, che, per un giuoco di prospettiva, sembra una gran piazza a colonne, da cui si spazi fuori e lontano... L’occhio del Duce sorprende il visitatore, che entra dall’estremo limite della sala, e lo magnetizza, lungo il percorso non piccolo, con lo sguardo fosforescente. Esposi al Duce a qual punto si trovasse la nostra preparazione: «siamo pronti». Gli dissi anche che dal giorno seguente mi trasferivo ad Orbetello, per vivere coi miei compagni di volo le ultime giornate di attesa. Il congedo fu molto commovente.

— Sono con te da quindici anni. Ho vissuto una vita quasi comune con la tua, dalle battaglie per l’intervento del ’14, alla guerra, alla rivoluzione, e durante i nove anni del tuo governo. Alla vigilia di partire, per un viaggio che può essere senza ritorno, posso dirti che qualunque destino mi aspetti, ho l’animo tranquillo e la coscienza serena, perché so di aver fatto sempre il mio dovere.

Il Duce mi rispose:

— Te ne do atto. Sono certo che tutto andrà bene e che tornerai con una grande vittoria.

Replicai:

— L’impresa è piú difficile di quanto si possa pensare.

— No, no. Parti tranquillo.

Mi abbracciò con grande affetto. Le sue parole augurali avevano un tono di energia virile: dominavano, senza vincerla, l’interna commozione. Per mio conto fu quello uno dei momenti di vita intensa della crociera.

La mattina seguente ero ad Orbetello e vi rimasi per una intiera settimana, tutta dedicata alla preparazione finale del viaggio. Da lontano sembra che tutto sia fatto: alla vigilia della partenza sembra che tutto sia ancora da fare. Fu intensamente ripreso lo studio della rotta, furono controllate le pilot’s charts e agli apparecchi fu fatta l’ultima toilette, sotto la direzione personale dei piloti, che in quei giorni terminarono anche le prove di decollaggio coi carichi maggiori.

Il tempo si era rimesso. Anzi, dal 10 al 14, su quel lembo estremo di Maremma tornò Primavera, col suo sole e il suo tepore: «ride nell’aria e per li campi esulta». Mai quel verso fu piú vero: e che buon auspicio portava! La vita che facevo coi miei ufficiali, all’idroscalo, mi dava l’impressione che fosse ritornato il tempo della guerra: dormivo in una stanza del Comando con l’attendente alla porta, mangiavo alla mensa; le ore del lavoro, del riposo, dello svago, passavano insieme, nell’ordine prestabilito per tutti. Era una disciplina piena di carattere: cara semplice vita al campo, ombre della lontana adolescenza guerriera! Dopo la mensa gli ufficiali intonavano le loro canzoni. Per farmi un grande omaggio, la prima sera incominciarono con un ritmo caro al cuore dell’alpino: «sul cappello che noi portiamo...» La bella canzone dei soldati della montagna divenne poi l’inno quasi ufficiale della crociera. Lenta e larga, un po’ solenne, come un canto religioso, infinitamente nostalgico, espressione della montagna, dove il genio popolare è ruvido e sentimentale. Nelle solitudini lacustri di Orbetello, riempiva l’animo dei volatori di una serena musica di guerra, dava loro la poesia delle altezze e delle lontananze. Ma le nostre serate erano brevi. Alle 10,30 tutto taceva. Gli ufficiali economizzavano le ore del sonno per essere pronti all’alba sullo spiazzo dell’idroscalo. Era sempre con noi, ombra fedele, specialmente la sera, all’ora dei canti, Don Carlo, priore di Orbetello, fraterno amico degli aquilotti transatlantici, anima gaia e fervida.

Si avvicinava l’ora della partenza, ormai fissata per il 15. Qualche giorno avanti, partii in volo per Firenze per prelevare Ojetti, che mi aveva espresso il desiderio di vedere gli uomini della Crociera. Mi ero fatto mandare il grosso Caproni. Andai a dormire al Salviatino, la villa in cui si realizza il sogno d’arte e di ospitalità dello scrittore e dell’amico, e il giorno seguente portai Ojetti in volo attraverso l’incantevole Toscana, sotto una carezza di sole gentile, ad ali distese, per un cielo terso, da Firenze fino ad Allegna. Ojetti partecipò alla nostra vita per un giorno e mezzo, giovane come noi e piú di noi. Alla sera provai con lui il mio apparecchio atlantico, girai intorno all’Argentario, mi spinsi sullo specchio marino del Tirreno e feci con lui un esperimento di ammaraggio quasi notturno sul lago. Con lui, i miei ufficiali cantarono le loro canzoni. Pochi giorni dopo, le ore passate tra gli «atlantici» nel loro nido di Orbetello dettarono a Ojetti pagine di fulgida prosa. Anch’egli aveva avuto l’impressione di una giornata al campo, alla vigilia di un fatto d’armi.

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