Capitolo XII NATAL

La prima impressione, quando i motori si fermano dopo 18 ore di rombo, è uno scampanío di campane. Quante campane! Suonano tutte insieme, a distesa, a piccoli rintocchi pettegoli, a lunghe ondate. Ci siamo appena levati il casco, le orecchie rombano, e non odono neppure la voce del compagno: forse tutto questo scampanío è un effetto illusorio, un incantesimo della mente stordita, il suono, forse, della nostra anima trasognata. Ma no. Sono i bronzi di Natal, la città stessa del sogno, dal breve nome abbagliante, verso la quale il nostro spirito si è proteso per giorni e per notti durante la paziente preparazione del volo e nel piú recente sforzo sull’Oceano. Queste campane intrecciano il loro saluto di festa col ritmo delle canzoni della Patria, che il vento ci porta dalla prossima riva del fiume e dicono a Dio, per noi, per i nostri cari, per l’Italia nostra lontana, per tutti coloro che hanno sperato e sofferto, lottato e gioito, per i vivi che già spuntano fuori di ogni apparecchio sull’ala bianca, per coloro che i gorghi dell’Oceano hanno ingoiato o che le lingue della fiamma hanno distrutto, l’inno della riconoscenza e dell’amore. Questo gruppo di Italiani, valicando l’Oceano, ha servito non soltanto il proprio paese, ma la causa dell’umanità, che si sente oggi piú unita attraverso le enormi distanze, stretta da vincoli di insospettata solidarietà, fatta piú certa del suo destino di progresso e di civiltà. Questi pensieri non arrivano a determinarsi: lampeggiano un attimo nella mente e scompaiono, come una di quelle nuvole galoppanti che gettavano per un momento, sulla distesa oceanica, la loro ombra in fuga.

Fuori della cabina di pilotaggio non mi resta il tempo, neppure ora, di abbandonarmi alla fantasia: la manovra dell’ormeggio non è ancora finita: io sono stato il primo a toccare acqua: gli altri apparecchi sopraggiungono nell’ordine stabilito: il generale Valle che ha compiuto la traversata da solo e ci ha raggiunto senza forzare i motori, nonostante l’ora di ritardo alla partenza, tra Noronha e il continente, scende in questo momento: seguono la squadriglia bianca, la rossa, la verde. In tutto, lo stormo impiega, per ammarare, non piú di 10 minuti.

Gli equipaggi hanno un aspetto di fierezza nella loro camicia nera, che li fa due volte soldati: la stanchezza per il momento non si fa sentire.

Ci ancoriamo sopra una sola fila ad arco, che segue la curva larga del fiume. Gli apparecchi sulle acque di un intenso azzurro, increspate dal vento che spira piuttosto forte e dalla corrente della bassa marea, fanno un semicerchio perfetto di squisita eleganza. Il mio apparecchio è il piú vicino al pontile. Presto da questo si staccano nuvole d’imbarcazioni: un motoscafo piú rapido giunge vicino all’ala del mio idrovolante e ne sbarca il generale Aldo Pellegrini che tende le braccia. Lo stringo molto affettuosamente al petto. Egli in questo momento rappresenta i miei camerati d’oltre oceano, che intendono esprimere il loro sentimento verso di noi, che abbiamo portato vittoriosamente fino a Natal i colori della Patria. I soci del club nautico della città si avvicinano agli idrovolanti recando ai transvolatori un omaggio molto gradito: acqua minerale ghiacciata, belle frutta fresche e uno squisito gelato. I battelli della base raccolgono gli equipaggi per trasportarli alla riva. Io li precedo insieme con il capitano Cagna e col generale Pellegrini sul motoscafo. Qui mi attende una enorme folla e prima di tutto il gruppo degli amici che hanno passato le ultime 18 ore in un’alternativa d’ansia e di speranza superiore forse alla nostra: sono i giornalisti italiani Quilici, Quadrone, Intaglietta, Nosari, Freddi, Massai e mio nipote il tenente degli Alpini Lino. Tutti hanno la voce tronca e gli occhi lustri dall’emozione e mi abbracciano. Vi è poi il capitano Gino Bertoli che ha organizzato la Base di Natal, il Vice Console Mauro che è stato qui mandato dal Ministero degli Esteri, il rappresentante consolare d’Italia a Natal, Guglielmo Lettieri, e tutti gli Italiani residenti in città, nelle campagne e negli Stati vicini. Tutti mi circondano, mi guardano commossi, mi gridano il loro evviva. Le autorità brasiliane si affollano intorno agli aviatori dopo le cordiali presentazioni di cui si occupa il Console. Veniamo portati tra canti, suoni e allegri interminabili scampanii, alle nostre automobili e di qui fino agli alloggi prestabiliti. Io sono ospitato insieme con lo Stato Maggiore alla Villa Cincinnato, nella parte piú alta della città, gli ufficiali nei locali della «Scuola Domestica», i sottufficiali all’«Hotel Internacional».

Abbiamo subito nettamente l’impressione di una vigile cura affettuosa che ha sorvegliato la preparazione della sosta a Natal dopo il piú lungo volo: a fianco di ogni letto ogni transvolatore ha ritrovato la propria valigia che due mesi fa è partita dall’Italia sul noto veliero «Aosta:» vi è la prima posta che ci ha preceduto: vi sono i primi pacchi di telegrammi: sono state predisposte le docce, e l’acqua già scroscia ristoratrice: alla «Scuola Domestica» ci attende un pranzo leggero e confortevole preparato da un cuoco italiano.

Sembra di sognare. Sembra di essere sbarcati non già in America ma in Italia. Piano piano gli animi si distendono: alla violenta tensione nervosa, segue una dolce calma, una serenità gaia e chiacchierina entro la quale inavvertitamente s’infiltra, senza comparire, la piú soave stanchezza. Me ne accorgo dagli sguardi, dai gesti, dalle parole dei miei compagni di volo.

È già calata la sera: l’aria è fresca. Mi raccontano che Natal esce ora da un lavacro di temporale. Quando ieri siamo partiti da Bolama qui si era scatenata la piú furibonda tempesta: l’annuncio del decollaggio arrivò alle innumerevoli radio, issate su questa costa atlantica per seguire il nostro volo, proprio mentre il cielo si riempiva di lampi, l’aria era lacerata da rombi di tuoni e l’acqua cadeva con inaudita violenza. Ha continuato a piovere durante tutto il giorno ed ha cessato proprio due ore prima del nostro arrivo. La fortuna ci ha assistiti, perché adesso il cielo è sgombro e tutto percorso da soffi freschi di vento, che ci ristorano e ci rallegrano.

Gli equipaggi, al mio arrivo, se ne vanno, in gruppo o alla chetichella, a riposare. Quando ritorno alla villa Cincinnato, dove le stanze sono tutte intercomunicanti, il sonno dei miei camerati piú giovani è cosí forte, che si può impunemente attraversare la loro stanza, senza pericolo di svegliarli. Forse rivedono in sogno il cielo chiuso e cupo e senza luna della notte oceanica, forse ripercorrono con la fantasia eccitata la distesa interminabile delle acque plumbee, forse odono lo scroscio dei piovaschi percuotere furiosamente le ali dell’apparecchio: ma il riposo ristora ormai i loro muscoli vittoriosi, rasserena le loro anime di grandi fanciulli. Essi non sanno certo, in questo momento, che tutto il mondo civile parla di loro; non hanno che un barlume della grandezza storica dell’impresa compiuta; sanno solo di aver reso un grande servizio alla Patria.

Io non posso dormire. Sono ossessionato dal pensiero dell’equipaggio che si è perduto a Bolama. Le notizie fino a questo momento sono categoriche, ma mancano di tutti i particolari. Accarezzo in cuore la speranza che il destino abbia sbattuto i naufraghi sopra qualche isola deserta o sopra un lembo di spiaggia, dove ancora non hanno potuto arrivare gli aiuti predisposti dal colonnello Ilari. Questi infatti avverte che continuano affannosamente le ricerche sopra tutti i punti della baia fino alle lontane isole Bissagos. Ho interrogato ad uno ad uno gli equipaggi che sono giunti a Natal. Il comandante Longo ha visto distintamente una colonna di fiamme e di fumo elevarsi alla sua sinistra, ed ha intuito immediatamente che non si poteva trattare di un falò acceso per indicarci la costa né di un fuoco di bivacco indigeno o di un gruppo di barche da pesca. Altri piloti sono passati vicino alla colonna fiammeggiante e hanno visto il falò. Tutti hanno pensato a una tragica ripetizione del caso capitato a Orbetello al capitano Baldini e al povero capitano Ambrosino. Ma io non voglio cedere alla disperazione e lancio per radio al colonnello Ilari ordini tassativi di darmi notizie esaurienti sulle ulteriori ricerche compiute.

Intanto invio il saluto dei trasvolatori al Duce con questo telegramma che gli dirà con quale spirito l’impresa è stata condotta e compiuta:

«La squadra aerea atlantica dopo aver compiuto il primo volo in formazione attraverso l’Oceano rivolge il suo pensiero devoto al Duce».

Al Capo del Governo provvisorio del Brasile, generosa terra ospitale che già ha mostrato al nostro arrivo un animo in festa, sinceramente e spontaneamente amico, cosí telegrafo:

«Mi è grato porgere al Capo nobile popolo brasiliano primo saluto aviatori italiani che traversando Oceano hanno abbreviato distanza tra due Nazioni latine, Italia e Brasile, insieme legate da vincoli di antica tradizionale amicizia.

ITALO BALBO».

Getulio Vargas ha subito risposto:

«Ringrazio e contraccambio a V. E. i saluti che mi ha inviato nel momento in cui posavano sulle acque brasiliane le aeronavi gloriose poste sotto l’alto comando di Vostra Eccellenza. Mercé questa impresa ammirabile, nella quale per la prima volta una squadriglia numerosa imprende il volo dai porti europei per le acque sud americane, si abbreviano le distanze e si confermano i sentimenti di profondo affetto che ci legano alla nobile nazione italiana.

GETULIO VARGAS».

Incomincia da questa momento l’affollamento dei dispacci da tutte le parti del mondo. La notizia del felice esito della traversata si è diramata in un baleno dalla minuscola città brasiliana verso i piú lontani paesi.

La pioggia dei telegrammi mi dimostra che ha trovato rispondenza nei cuori di tutti. È una vera valanga sotto la quale per giorni e giorni resteremo letteralmente sepolti.

Giunge primo il saluto del Re d’Italia:

«Desidero non tardare a rallegrarmi molto cordialmente con Lei e con i suoi valorosi compagni per la felice riuscita della loro ardua e gloriosa impresa.

VITTORIO EMANUELE».

Rispondo:

«La parola di V. M. è il miglior titolo di orgoglio per i soldati d’Italia che trasportando oltre Oceano i colori della Patria hanno sentito durante l’aspra impresa battere col loro il cuore del Re Vittorioso.

ITALO BALBO».

Giurati cosí saluta i transvolatori:

«La vittoria delle ali italiane, la tua vittoria - camerata Quadrumviro - esalta l’orgoglio delle camicie nere. Ai prodi compagni tuoi, ti prego di recare il mio saluto il mio plauso. I fascisti per tuo, per vostro merito traggono oggi il sicuro auspicio di maggiori trionfi.

GIOVANNI GIURIATI»

Le mie parole di risposta sono:

«Tu hai dato transvolatori dell’Atlantico, insieme alla camicia nera la consegna fascista di tutto osare pur di vincere. Abbiamo eseguito la consegna. Soltanto la luce di una grande Idea lampeggiante nella mente di tutti noi ha fatto il miracolo di rompere la notte oceanica guidandoci per diciotto ore da continente a continente. I transvolatori sono degni dell’onore della tessera fascista e il Partito può essere fiero di loro. Grazie del saluto che custodiremo, geloso patrimonio, nel nostro cuore. Ti abbraccio.

ITALO BALBO».

Ecco Gabriele d’Annunzio:

«Compagni miei, faccio un grande sforzo per disgiungere queste parole dal mio cuore gonfio di allegrezza e di malinconia e di orgoglio. Nella notte scorsa, dall’ora della vostra dipartita io fui palpitante in ciascuno dei vostri motori senza aumentarne il peso, io seguii ed osservai la vostra disciplina eroica. Ed ebbi la piú fiera certezza nel compimento della vostra impresa, compagni, ebbi quella medesima certezza che seppi ispirare ai miei equipaggi degli apparecchi terrestri nella notte marina di Cattaro senza luna e senza stelle. Questa mia assidua assistenza e questa risoluta certezza vi saranno testimoniate dall’aviatore e animatore Benito Mussolini che conosce entrambe. È bello per me l’affettuosamente sentire che nessuno oggi merita la chiusa gioia della vostra vittoria come io la merito a compensare tanti anni d’imperterrita fede iniziata e divulgata molto prima della nostra guerra ammirabile. Ma forse, miei vittoriosi compagni, voi comprendete anche la tristezza dell’uomo ancor valido e ancor temerario costretto a dire “e io non c’ero”! Taglio e incurvo per voi stanotte tutti i lauri del Vittoriale che sembran lustri e salsi di luna oceanica. Il primo ramo è per Italo Balbo. Il piú robusto è da trapiantare con arte italica nella terra che vi ospita e vi onora; nella terra che sembra il piú vasto campo dell’avvenire

GABRIELE D’ANNUNZIO».

Rispondo:

«Abbiamo sentito la presenza del Poeta Soldato durante tutto il volo Oceanico compiuto da soldati d’Italia col cuore pieno dell’alata poesia della Patria lontana. Con te, con noi volavano tutti i piú grandi e i piú umili nostri Morti, eternamente vivi, che portarono l’ala tricolore sui mari e le terre del mondo sulle insanguinate trincee della guerra e per le vie aperte al pacifico ardimento dell’uomo.

«A nome degli aviatori atlantici ti ringrazio delle tue parole che confermano l’incontro dei nostri spiriti negli spazi oceanici e ci spingono sempre piú alto e piú lontano.

ITALO BALBO».

Debbo rinunciare per ora ad aprire gli altri dispacci. Sono troppi.

Vorrei fare subito la relazione della traversata al Duce. Ma le idee mi si ingarbugliano. Invece di «Gabaeronautica», mi vien fatto di scrivere «Pietrogrado». Impossibile continuare. Queste ultime quarantott’ore sono state troppo ricche di emozioni e tutte fanno groppo alla mente, tutte vogliono uscire contemporaneamente dalla penna, mentre gli occhi mi si annebbiano e la mano cade pesante sul foglio.

Cedo, senza volerlo e senza saperlo, al sonno. Ma non sono capace di riposare. Ogni tanto un sobbalzo. È di nuovo l’immagine di Luigi Boer e di Danilo Barbicinti.

Passano cosí alcune ore, forse tre o quattro e non piú, di questa notte terribile. Sono stanchissimo, eppure non posso riposare. Ho un immenso sonno e pure non posso dormire... Attendo l’alba e la invoco come una liberazione. Con la psicologia propria degli insonni, il silenzio circostante, mi snerva e mi esaspera. Nella mia anticamera veglia un gruppo di soldati brasiliani. Ogni tanto si dànno il cambio. Il leggero rumore che essi fanno, in altre occasioni, non mi farebbe piacere: in questo mi tiene compagnia.

Non appena vedo un piccolo chiarore rompere l’oscurità della notte e affacciarsi ai vetri della mia finestra, mi alzo, mi vesto e vado a svegliare qualcuno. Mi precipito al porto per le contrade deserte di Natal. Sono forse le cinque antimeridiane. A quest’ora il «Malocello» che è partito ieri sera da Noronha, dopo il nostro passaggio, dovrebbe essere nel fiume. Apprendo invece che la bassa marea lo tiene fuori, sull’Oceano. Vado a fare una rapida visita agli apparecchi. Il sole nascente indora le ali argentee e mette barbagli rapidi e freddi sulle acque. Montano la guardia i marinaretti della scuola di marina brasiliana. Ogni apparecchio è illuminato da un piccolo fanale di fonda e la cima dell’àncora che lo lega al gavitello, sembra un guinzaglio che lo trattenga per forza dal riprendere il volo verso i liberi cieli. Un motoscafo della polizia mi conduce a zig-zag intorno ad ogni idrovolante: qualche marinaretto è salito sull’ala: ha le scarpe di gomma, ma io sono cosí geloso che lo prego di discendere.

La città, già cosí elettrizzata al momento del nostro arrivo riposa tranquilla. L’Oceano dista oltre un chilometro dal punto ove sono ancorati gli apparecchi e se ne sente il brontolio lontano. Il vento di ieri non è caduto, anzi si rinforza di ora in ora. È quasi fresco. La mia impazienza di sapere qualche notizia da Bolama è tale, che dopo avere ispezionato gli apparecchi, invece di attendere il momento dell’alta marea che incomincerà verso le nove, mi faccio dare un motoscafo dalla capitaneria brasiliana del porto, vi salgo sopra e mi avvio sul canale verso l’imboccatura dell’Oceano.

Arrivo sotto il «Malocello» dopo una mezz’ora: la bella nave italiana ha già incominciato la manovra per entrare nel porto. Salgo per una scaletta di funi a causa del mare grosso e mi dirigo verso il ponte di comando. Trovo qui il comandante Coraggio. Gli espongo l’urgenza di telegrafare a Bolama. Presto viene il radiotelegrafista di bordo e gli detto i primi messaggi. Intanto la nave procede verso l’imboccatura del canale, supera la barra dell’Oceano e lentamente si avvia tra le due rive verdi in direzione della banchina della città.

Questa si è completamente risvegliata dal suo letargo notturno. La popolazione si rovescia ancora una volta verso il pontile per ammirare i nostri apparecchi che ormai sono tutti giocondamente invasi dal sole.

La risposta da Bolama non si fa attendere e mi toglie ormai l’ultima speranza che i nostri quattro camerati dell’Iboer si siano salvati. Purtroppo bisogna abbandonare ogni illusione. Il mare non ha restituito alcun rottame: su tutta la terra che circonda Bolama non vi è alcun segno dei naufraghi. Io so che quando l’S. 55 cade in mare, qualche cosa di esso sempre rimane alla superficie, a cominciare dalle ali che sono insommergibili. Se nulla, proprio nulla, dell’Iboer è stato ritrovato, questa è ormai la prova definitiva che il fuoco è stato la causa della sciagura. Soltanto il fuoco infatti può provocare una distruzione cosí completa. L’enorme carico di carburante, che era a bordo, è stato largamente sufficiente alla completa e totale distruzione dell’Iboer. Data la maestria dei piloti che induce ad escludere ogni errore di manovra, debbo ritenere che l’incidente sia stato originato da un corto circuito. In questo senso telegrafo al Duce dandogli notizia delle vicende della traversata, nel lungo rapporto che redigo sul ponte stesso del «Malocello».

Sorte tragica ma sublime. Il loro nome si aggiunge alla schiera dei violatori delle sconfinate solitudini, che fasciano di religioso orrore i gorghi dell’oceano. La Sfinge atlantica, cosí audacemente sfidata, ha voluto le sue vittime in olocausto. È lo scotto del trionfo, e ci getta in cuore una intollerabile angoscia. Ma, del trionfo italiano, è anche la sacra aureola. La morte eroica dei nostri camerati dimostrerà al mondo la difficoltà dell’impresa. Col loro martirio essi l’hanno spiritualmente ingigantita. Partendo da Orbetello ognuno di noi sapeva che lo stesso destino poteva toccarci. E questo tranquillizzava l’animo nostro. Il progresso civile, di cui l’aviazione è il piú efficace e forte strumento, esige il sacrificio del singolo per il bene della umanità. Gli azzurri cavalieri del cielo servono l’umanità e la Patria ai limiti estremi della vita, pronti al valico silenzioso verso la morte, quando il dovere comandi. Ambrosino, Stemperini, Boer, Barbicinti, Fois, Nensi, Imbastari, ne dànno al mondo la prova. Invece dell’ombra, una luce entra ora in noi, un alito di amore eroico per la Patria, sul mare e sul cielo, invincibile; come loro, per l’Italia, noi siamo pronti, tutti, a morire: essa ci sopravviverà, piú grande!

Dai telegrammi che sopraggiungono, dopo la pubblicazione del mio rapporto al Duce, mi accorgo che gli Italiani l’hanno compreso. E con gli Italiani gli spiriti nobili del mondo intiero.

Ai «transvolatori» che ascoltano con austera fierezza l’ultimo verdetto del destino sui loro camerati dell’Iboer che tronca ormai ogni speranza, non debbo dire tortuose parole: ordino invece che ciascun apparecchio «atlantico» porti sullo scafo il nome di un grande eroe dell’aria, caduto per la Patria. Cosí al mio idrovolante vien dato il nome di Francesco Baracca; quello di Valle porterà il nome di Guidoni, quello di Maddalena il nome di Penzo, quello di Longo il nome di Crosio, quello di Marini il nome di Del Prete. All’idrovolante di Agnesi viene imposto il nome di Boer; quello di Draghelli è battezzato Barbicinti, quello di Baistrocchi di Fois quello di Donadelli Imbastari, quello di Calò Nensi. Sono i cinque che continueranno la leggendaria crociera sulle prore degli scafi dei camerati amatissimi. E gli apparecchi di Cannistracci e di Teucci portano ora l’insegna di Ambrosino e Stemperini, che si immolarono a Orbetello durante la preparazione del volo.

Rinuncio a descrivere i grandi festeggiamenti che fin da questa tappa ci hanno tributato le autorità brasiliane. Noi ne siamo molto orgogliosi e fieri e nello stesso tempo ne usciamo molto affaticati. Forse la piú grande fatica consiste proprio nella serie innumerevole di cerimonie a cui il nostro successo ci obbliga.

Continuano intanto a piovere telegrammi dai piú vari paesi del mondo. Con un atto di squisita cortesia il Governo Brasiliano mi ha concesso la franchigia sul telegrafo nazionale. Posso dunque incominciare a rispondere senza timore di spendere un ingente capitale. Tra il Brasile e l’Europa ogni parola costa in media dodici lire e soltanto a Natal mi sono stati recapitati in tre giorni migliaia di telegrammi. I piccoli foglietti azzurri del telegrafo ingombrano la stanza adibita a segreteria e invadono la stanza da letto. Mi fanno paura: non mi salvo piú. Dò lettura dei piú importanti dispacci agli equipaggi della crociera: sono Re, Principi, Capi di Governo, Ministri, uomini di Stato, luminari della scienza e dell’arte, assi dell’Aviazione, costruttori e inventori, sodalizi, istituzioni, amici, conoscenti, persone mai vedute e mai conosciute, di tutti i cinque continenti. Soltanto dall’Italia sono giunti oltre duemila dispacci. Gli impiegati del telegrafo hanno le mani nei capelli e lavorano giorno e notte. Per rispondere a tutti accorreranno quindici giorni. Quando si crede di aver finito, si è ancora al principio. E sono tutti bellissimi: improntati ad alti sentimenti di fervido patriottismo, di solidarietà aeronautica, di esaltazione civile ed umana. Mi telegrafa perfino qualche antifascista dalla Francia.

Questo plebiscito ci dà il senso delle proporzioni gigantesche che l’impresa italiana ha assunto nel mondo. I miei piloti guardano con occhi sbarrati la montagna azzurra dei telegrammi, poi guardano me con immenso affetto e gratitudine.

In occasione del nostro arrivo è stata predisposta l’inaugurazione di una colonna romana dedicata a Carlo Del Prete che qui sbarcò assieme ad Arturo Ferrarin il 20 luglio 1928.

L’approdo vero dell’S. 63 non fu veramente a Natal, ma alla spiaggia di Touros che dista dalla città parecchie ore di automobile. Gli Italiani della regione e le Autorità dello Stato di Rio Grande do Norte, non hanno voluto che il marmoreo ricordo campeggiasse in un luogo deserto, ma nel cuore stesso di Natal che fu la mèta effettiva del magnifico raid. È stata scelta quindi la nuova piazza prospicente la stazione marittima di Natal nel quartiere che diventerà tra non molto il piú frequentato e il piú elegante della città.

La colonna è stata regalata da Benito Mussolini che la scelse tra quelle emerse dagli scavi recenti del Campidoglio. È di marmo grigio, oscurato dal tempo e termina in un elegante capitello dorico sulle cui volute il tempo ha lasciato le sue impronte. La colonna ricorda il piú rapido e il piú lungo volo compiuto in un balzo tra Roma e Natal. Un’epigrafe in italiano dettata dal mio amico Nello Quilici, ricorda il grande e fortunato evento che fu coronato dall’olocausto di Carlo Del Prete e l’occasione attuale del nostro arrivo in formazione sulla costa brasiliana:

PORTATA IN UN BALZO
SOPRA ALI VELOCI
OLTRE OGNI TENTATA DISTANZA
DA CARLO DEL PRETE E ARTURO FERRARIN
ITALIA QUI GIUNSE
IL V LUGLIO MCMXXVIII
L’OCEANO
NON PIÚ DIVIDE MA UNISCE
LE GENTI LATINE
D’ITALIA E BRASILE

ITALO BALBO
QUI GIUNTO
CON LA CROCIERA AEREA TRANSATLANTICA
SULLA VIA PRIMA TRACCIATA
DA CARLO DEL PRETE E ARTURO FERRARIN
A LORO PERENNE RICORDO
QUESTA COLONNA CAPITOLINA
DONATA DA BENITO MUSSOLINI
ALLA CITTÀ DI NATAL
CONSACRAVA
IL VI GENNAIO MCMXXXI

La cerimonia si svolge in modo semplice e commovente: il Vescovo di Natal celebra all’aperto, sulla grande piazza, la messa, religiosamente seguita dagli aviatori e dai marinai italiani: poi pronuncia brevi elegantissime parole che ci commuovono. Carlo Del Prete rivive certo tra noi in questo momento e sorride ai camerati che hanno percorso sull’infido Oceano la strada che egli aprí e sulla quale, come un mistico ponte, la sua anima è gettata per sempre in segno di unione tra i due popoli figli di Roma.

Mi reco subito dopo a deporre una corona di fiori alla base del monumento di Augusto Severo, un pioniere del volo in dirigibile, nato a Natal e morto a Parigi nel 1903. Suo figlio è presente e mi stringe commosso la mano.

Intanto ci siamo acclimatati e abbiamo preso possesso della città di Natal. Si susseguono i ricevimenti. Vi sono famiglie amiche che ci invitano a passare un’ora o un momento con loro. La popolazione è di una estrema gentilezza. Vado con qualche ufficiale a fare un bagno nell’Oceano. Ora le acque minacciose si sono fatte gentili e ci accolgono senza farci paura. Il bagno ci ristora e ci mette in immediato contatto con l’elemento che piú abbiamo guardato in cagnesco durante la traversata. È una specie di magico tuffo nella vergine natura. L’Oceano fa presso le sponde di Natal dune di sabbia bianche alte come montagne. L’arena è tutta impregnata di sale. Guardando il panorama sotto la luce lunare, sembra che sui margini stessi dell’Oceano sia nevicato.

Due giorni dopo il nostro arrivo, mi giunge la confortante notizia che il capitano Donadelli ha potuto riparare il suo apparecchio a Fernando di Noronha e che è ripartito in volo. Infatti non passano due ore, che un rombo di motori riempie l’aria. Il grande idrovolante atlantico sorvola il cielo di Natal, fa alcuni ampi giri sulla città e ammara felicemente vicino agli altri. Diciotto ore di rimorchio non gli hanno fatto alcun danno.

L’apparecchio di Baistrocchi continua nel frattempo a percorrere le vie oceaniche, trascinato sulle acque dal «Pessagno». Il suo viaggio è molto piú lungo. Deve compiere oltre mille chilometri per arrivare a Fernando di Noronha. La sera del 9 mi viene comunicato che è già in vista dell’isola. Il rimorchio si è spezzato parecchie volte ma l’apparecchio è stato ripreso mercé l’abnegazione dell’equipaggio, che dopo aver compiuta la fatica della traversata in volo, vuole ora riportare felicemente l’apparecchio a destinazione. La mia idea è che le riparazioni siano fatte a Fernando di Noronha: ma il mare è cattivo, soffia un vento fortissimo e tutti sono del parere che l’apparecchio possa continuare il suo viaggio a rimorchio fino a Natal. Mi lascio convincere, ma ho l’oscuro presentimento dell’avversa destino. Infatti il «Pessagno» che si trascina dietro lo Ibais, continua la sua marcia verso la costa del continente, ma poche ore dopo, verso le tre di notte, per un banale errore di manovra dovuto, piú che altro, alla spossatezza degli uomini che da oltre sessanta ore attendono alla difficile operazione di rimorchio, la poppa della nave batte contro l’apparecchio: uno scafo si sfascia, l’acqua vi penetra dentro e l’idrovolante è tutto sbandato da una parte e non può continuare la marcia.

Viene salvato il salvabile ed il resto abbandonato ai gorghi dell’Oceano.

La notizia mi giunge alle prime ore del mattino. Già dal giorno precedente le mie condizioni fisiche non sono invidiabili. Forse l’eccesso di fatica o la tensione nervosa mi hanno prodotto una febbre leggera, ma insistente che mi deprime: quando apprendo che l’Ibais è perduto proprio davanti alle coste brasiliane, dopo mille e quattrocento chilometri di rimorchio, il disappunto mi aumenta la febbre e il malessere. Passo alcune ore veramente poco piacevoli.

Vorrei ripartire subito per Bahia. Ma gli equipaggi mi fanno un’affettuosa violenza: vogliono vedermi del tutto ristabilito. Partiremo dunque domattina.

Share on Twitter Share on Facebook