Predestinato significa destinato in anticipazione alla felicità o alla sciagura. La teologia si è impadronita di questa parola e l’adopera sempre per designare i felici; noi diamo a questo termine un significato fatale ai nostri eletti, dei quali si può dire il contrario di quelli del Vangelo. «Molti chiamati, molti eletti.»
L’esperienza ha dimostrato, che esistevano alcune classi d’uomini più sottoposte d’altre a certe disgrazie; quindi come i guasconi sono esagerati, i parigini sono vanitosi; come si vede l’apoplessia attaccarsi alle genti il cui collo è corto, come il carbonchio (sorta di peste) si getta di preferenza sui macellari, la gotta sui ricchi, la salute sui poveri, la sordità sui re, la paralisi sugli amministratori, si è notato che alcune classi di mariti sono più specialmente vittime delle passioni illegittime. Quei mariti e le loro mogli accaparrano i celibi. È una aristocrazia d’un altro genere. Se qualche lettore si trovasse in una di queste classi aristocratiche, egli avrà, lo speriamo, sufficiente presenza di spirito, lui o sua moglie, per ricordarsi subito l’assioma favorito della grammatica latina di Lhomond: «Nessuna regola senza eccezione.» Un amico di casa, può anco citar questo verso:
La persona presente è sempre eccettuata.
E allora ognuno di essi avrà, in petto, il diritto di credersi una eccezione. Ma il nostro dovere, l’interesse che ci inspirano i mariti è il desiderio che noi abbiamo di preservare tante giovani e belle donne dai capricci e dalle disgrazie che un amante trascina seco, costringono a segnalare per ordine i mariti che più particolarmente debbono stare in guardia.
In questa enumerazione compariranno primi tutti i mariti che i loro affari, impieghi o funzioni scacciano di casa a certe ore durante un certo tempo. Quelli porteranno la bandiera della confraternita.
Fra essi distingueremo i magistrati, tanto amovibili, quanto inamovibili, obbligati di rimanere al Palazzo durante una gran parte della giornata; gli altri funzionari trovano qualche volta il modo di lasciare i loro uffici; ma un giudice o un procuratore del re, seduti sul loro seggio, debbono per così dire, morire durante l’udienza.
È lo stesso dei deputati e dei senatori che discutono le leggi, dei ministri che lavorano col re, del direttori che lavorano coi ministri, dei militari in campagna, ed anco del caporale di pattuglia, come lo prova la lettera di Lafleur nel Viaggio sentimentale.
Dopo le genti costrette ad assentarsi dal domicilio ad ore fisse, vengono gli uomini ai quali vaste e serie occupazioni non lasciano un minuto per essere amabili; le loro fronti sono sempre pensose, e la loro conversazione è raramente allegra.
Alla testa di queste truppe incornifistibulate porremo quei banchieri che si affannano a maneggiar milioni, le cui teste sono talmente ripiene di calcoli, che le cifre finiscono per forare il loro occipite ed elevarsi in colonne di somme al disopra dello loro fronti.
Questi milionari dimenticano, nella maggior parte del tempo, le sante leggi del matrimonio e le cure reclamate dal tenero fiore che essi hanno a coltivare, e che non pensano mai ad inaffiare, e a preservare dal freddo e dal caldo. Appena essi sanno che la felicità d’una sposa è stata loro affidata; se se ne ricordano, è a tavola, vedendosi dinanzi una donna riccamente ornata, o quando la civetta, temendo il loro amplesso brutale, va, graziosa come Venere a tuffar nella loro cassa... Oh! allora la sera essi si ricordano qualche volta assai bene, i diritti specificati dall’articolo 213 del Codice civile, e le loro mogli li riconoscono; ma come quelle forti imposizioni che le leggi stabiliscono sulle mercanzie estere, esse li soffrono e li scusano in virtù di questo assioma: «Non v’è piacere senza un po’ di pena.»
I dotti che rimangono mesi intieri a rodere un osso di animale antidiluviano, a calcolar le leggi della natura e a spiarne i segreti; i greci e i latini che pranzano con un pensiero di Tacito, cenano con una frase di Tucidide, e vivono respirando la polvere delle biblioteche, o restando all’agguato di una nota o d’un papiro, sono tutti predestinati. Nulla di quanto avviene intorno ad essi, li colpisce, tanto è grande il loro assorbimento o la loro estasi; la loro disgrazia si consumerebbe in pien meriggio, che appena la vedrebbero! Felici! O mille volte felici! Esempio: Beauzée che, tornando in casa dopo una seduta dell’Accademia, sorprende sua moglie con un tedesco. — Ve lo dicevo, signora, che bisognava ch’io me ne vada!... sclama lo straniero. — Eh! signore, dite almeno che me ne andassi! risponde l’accademico.
Vengono ancora con la lira in mano alcuni poeti, dei quali tutte le forze fisiche abbandonano il mezzanino per andare al piano superiore. Sapendo montar meglio Pegaseo che la giumenta di compar Pietro, si ammogliano raramente, abituati come sono a gettar di quando in quando il loro furore su delle Clori vagabonde o immaginarie.
Ma gli uomini il cui naso è intriso di tabacco;
Ma quelli che per disgrazia sono nati con una eterna pituita;
Ma i marinari che fumano o che ciccano;
Ma le persone, alle quali un carattere secco e bilioso dà sempre l’aria d’aver mangiato una mela acerba;
Ma gli uomini che nella vita privata hanno qualche cinica abitudine, qualche pratica ridicola, e che conservano, malgrado tutto, un aspetto di persone pulite;
Ma i mariti che ottengono il nome disonorante di scaldaletto;
Finalmente i vecchi che sposano delle giovani;
Tutte queste genti sono predestinate per eccellenza.
Vi è inoltre un’ultima classe di predestinati il cui infortunio è quasi certo. Vogliam parlare degli uomini inquieti e litigiosi, stucchevoli e tiranni, che hanno chi sa quale idea della dominazione domestica, che pensano palesemente male delle donne e che non conoscono la vita se non quanto i barbagianni conoscono la storia naturale. Quando quegli uomini si ammogliano, i loro matrimonii somigliano a quelle vespe cui uno scolaro ha spiccato la testa e che volteggiano qua e là sopra un vetro. Per questa sorta di predestinati il presente libro è lettera morta. E noi non scriviamo davvero, nè per quelle imbecilli statue ambulanti che somigliano a sculture di cattedrale, nè per le vecchie macchine di Marly che non possono più far salir l’acqua nei boschetti di Versailles senza esser minacciate d’una subita dissoluzione.
Io vado raramente ad osservar nei saloni le singolarità conjugali che vi abbondano, senza aver presente alla memoria uno spettacolo di cui ho goduto nella mia giovinezza.
Nei 1819 abitavo una casuccia in mezzo alla deliziosa valle delle Isle-Adam. Il mio eremo era vicino al parco di Cassan, il più soave ritiro, il più voluttuoso a vedersi, il più elegante per passeggiarvi ed il più umido in estate di tutti quelli che il lusso e l’arte hanno creato. Quella verde certosa era dovuta a un appaltatore generale del buon vecchio tempo, un certo Bergeret, uomo celebre per la sua originalità, e che fra le altre eliogabalerie, andava all’Opéra coi capelli cosparsi di polvere d’oro, illuminava per sè solo il suo parco o si dava per sè solo una festa sontuosa. Questo Sardanapalo borghese era tornato d’Italia tanto appassionato pei luoghi di quella bella contrada, che in un accesso di fanatismo, spese quattro o cinque milioni a far copiare nel suo parco le vedute che aveva nel suo portafogli. La più incantevole opposizione di fogliami, gli alberi più rari, le lunghe valli, i punti di vista più pittoreschi al di fuori, le isole Borromee galleggianti sulle acque chiare e capricciose, sono altrettanti raggi che vengono a portare i loro tesori d’ottica a un centro unico, ad un’Isola bella, d’onde l’occhio incantato scorge ogni singolar parte a suo talento, ad un’isola, in seno alla quale è una piccola casa nascosta sotto i pennacchi di alcuni salici centenari; a un’isola fiancheggiata di clematidi, di canne, di fiori, e che assomiglia ad uno smeraldo riccamente incastonato. È da fuggirsi per mille leghe!... Il più cagionoso, il più dolente, il più secco de’ nostri uomini di genio che non godono buona salute, morrebbe là di grassezza e di soddisfazione in capo a quindici giorni, oppresso dalle succolenti ricchezze d’una vita vegetativa. L’uomo troppo noncurante di questo Eden, e che allora lo possedeva, s’era incapricciato d’uno scimione in difetto di figlio o di moglie: ‒ Amato, come si diceva, un tempo da una imperatrice, forse ne aveva abbastanza della specie umana. Una elegante lanterna di legno, sostenuta da una colonna scolpita, serviva d’abitazione al malizioso animale, il quale, incatenato e ben di rado carezzato da un padrone fantastico, più spesso a Parigi che nella sua terra, aveva acquistato una cattivissima riputazione. – Mi ricordo di averlo veduto in presenza di alcune dame, diventar insolente quasi quanto un uomo. Il suo proprietario fu costretto di ucciderlo, tanto la sua malvagità andava crescendo. Una mattina che stavo seduto sotto un bel tulipifero fiorito, occupato a non far nulla, ma respirando gli amorosi profumi che gli alti pioppi impedivano d’uscir da quello splendido recinto, assaporando il silenzio dei boschi, ascoltando i mormorii dell’acqua e lo stormir delle fronde, ammirando le azzurre frastagliature disegnanti al di sopra della mia testa nuvole di madreperla e d’oro, investigando forse nella mia vita futura, udii non so qual vagabondo, giunto la vigilia da Parigi, suonare il violino con la repentina rabbia d’un disoccupato. Io non augurerò al mio più crudele nemico di provare un effetto tanto disparato con la sublime armonia della natura. Se i suoni lontani del corno di Orlando avessero animato l’aria, forse... ma una stridula cantarella che ha la pretensione di arrecarvi idee umane e frasi! Quell’Anfione che passeggiava in lungo ed in largo nella sala da pranzo, finì per assidersi sul davanzale d’una finestra, precisamente in faccia alla scimia. Forse cercava un pubblico. Ad un tratto, vidi l’animale, disceso pian pianino dalla sua torre, piantarsi sui suoi due piedi, inclinar la testa come un nuotatore, e incrociar le braccia, come avrebbe potuto fare Spartaco incatenato, o Catilina ascoltante Cicerone. Il suonatore chiamato da una dolce voce, il cui timbro argentino risvegliò la eco d’un’alcova a me nota, posò il violino sul davanzale della finestra e fuggì come una rondinella che raggiunge la sua compagna con un volo rapido e orizzontale. Lo scimione, la cui catena era lunga, arrivò fino alla finestra e prese gravemente il violino. Non so se avete avuto come me il piacere di vedere una scimia che tenta d’imparar la musica; ma in questo momento in cui non rido più tanto, quanto in quei giorni di spensieratezza, non penso mai al mio scimione senza sorridere. Il semi-uomo cominciò dall’impugnare l’istrumento a piene mani e dall’annasarlo come se si fosse trattato di assaggiare una mela. La sua aspirazione nasale fece probabilmente rendere una sorda armonia al legno sonoro, e allora l’orang-utang crollò la testa, girò, rigirò, alzò e abbassò il violino, lo pose tutto dritto e lo agitò, se lo recò alle orecchie, lo lasciò e lo riprese con una rapidità di movimenti, la cui prontezza non appartiene che a questi animali. Egli interrogava il legno muto con una sagacia senza scopo, che aveva un non so che di meraviglioso e d’incompleto. Finalmente procurò nel modo il più grottesco di porsi il violino sotto il mento, tenendo il manico da una mano: ma, come un fanciullo viziato, si stancò d’uno studio che reclamava un’abilità troppo lunga ad acquistarsi, e toccò le corde senza ottenere altro che suoni discordi. Si stizzì, posò il violino sul davanzale della finestra, e afferrando l’archetto si pose a spingerlo e a tirarlo violentemente come un muratore che sega una pietra. Questo nuovo tentativo non essendo riuscito che ad affaticar viemmaggiormente le sue sapienti orecchie, prese l’archetto a due mani e quindi si mise a picchiar sul violino, sorgente di piacere e d’armonia, a colpi precipitati. Mi parve vedere uno scolare che tenesse sotto di sè un collega rovesciato e gli amministrasse una scarica di pugni per correggerlo d’una vigliaccheria commessa. Appena giudicato e condannato il violino, la scimia si sedè suoi rottami, e si divertì con stupida gioja a intrecciar la bionda capigliatura dell’archetto fracassato.
Giammai dopo quel giorno non ho potuto veder l’unione di due predestinati, senza paragonar la maggior parte dei mariti a quell’orang-utang che pretendeva suonare il violino.
L’amore è la più melodiosa di tutte le armonie, e noi ne abbiamo il sentimento innato. La donna è un delizioso strumento di piacere, ma bisogna conoscerne le frementi corde e studiarne la posa, la timida tastiera, e il meccanismo cangiante e capriccioso. Quanti orang!… uomini, volevo dire, si ammogliano senza sapere ciò che è una donna! Quanti predestinati hanno proceduto con esse come la scimia di Cassan col suo violino! Essi hanno spezzato il cuore che non comprendevano, come hanno vilipeso e sdegnato il giojello il cui segreto era ad essi sconosciuto.
Fanciulli per tutta la loro vita, essi dalla vita se ne vanno a mani vuote, dopo aver vegetato, dopo aver parlato di amore e di piacere, di libertinaggio e di virtù, come gli schiavi parlano della libertà. Quasi tutti si sono ammogliati nell’ignoranza la più profonda e della donna e dell’amore. Hanno cominciato collo sfondar la porta di una casa straniera, ed hanno voluto esservi ben ricevuti. Ma il più volgare artista, sa che esiste fra lui e il suo istrumento (il suo istrumento che è di legno o di avorio) una specie d’amicizia indefinibile. Egli sa per esperienza che gli sono abbisognati degli anni per stabilire questo misterioso rapporto fra una materia inerte e lui. Egli non ne ha subito indovinato le risorse e i capricci, i difetti e le virtù. Il suo istrumento non diventa un’anima per lui, e non è una sorgente di melodie se non dopo lunghi studii; essi non giungono a conoscersi come due amici, che dopo le più sapienti interrogazioni.
È forse rimanendo segregato dalla vita come un seminarista nella sua cella, che un uomo può imparare ciò che sia la donna e saper decifrare quell’ammirabile solfeggio? Forse lo può un uomo che fa il mestiere di pensar per gli altri, di giudicare gli altri, di nutrire, di guarire, di ferire gli altri? Sono forse tutti i nostri predestinati, infine, che possono spendere il loro tempo a studiare una donna?
Essi che vendono il loro tempo, come lo darebbero alla felicità?
Il denaro è il loro Dio. Non si servono due padroni al tempo stesso. Così il mondo è pieno di giovani donne che si trascinano pallide, malate e sofferenti. ‒ Le une sono la preda di infiammazioni più o meno gravi; le altre restano sotto la crudele tirannia d’attacchi nervosi più o meno violenti. Tutti i mariti di quelle donne sono degli ignari e dei predestinati. Essi hanno causata la loro disgrazia, con la cura che un marito artista avrebbe adoperato per fare sbocciare i tardi e deliziosi fiori del piacere. Il tempo che un ignorante passa a consumar la sua rovina, è precisamente quello che un uomo abile sa impiegare nell’educazione della sua felicità.
XXVI.
Non cominciate mai il matrimonio con uno stupro.
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Nelle precedenti Meditazioni abbiamo indicato l’estensione del male, con la irrispettosa audacia dei chirurgi, che disviluppano i tessuti menzogneri, sotto i quali una vergognosa ferita è celata. La virtù pubblica trascinata sulla tavola del nostro anfiteatro, non ha neppur lasciato traccia di cadavere sullo scalpello. ‒ Amante o marito, avete sorriso o fremuto del male? Ebbene, gli è con gioja maligna che noi scarichiamo questo immenso fardello sociale sulla coscienza dei predestinati. Arlecchino che cerca di sapere se il suo cavallo può abituarsi a non mangiare, non fu più ridicolo degli uomini che vogliono trovar la felicità nel matrimonio, senza coltivarlo con tutte le cure che reclama. Gli errori delle donne sono altrettanti atti d’accusa contro l’egoismo, la noncuranza e la nullità dei mariti.
Adesso tocca a voi, a voi, lettore, che avete spesso condannato il vostro delitto in un altro, tocca a voi a tener la bilancia. Uno dei piatti è abbastanza carico; vedete ciò che mettete nell’altro! Valutate il numero dei predestinati, che può incontrarsi nella somma totale delle persone ammogliate, e pesate: saprete dov’è il male.
Tentiamo di penetrar più addentro nelle cause di questa malattia conjugale.
La parola amore, applicata alla riproduzione della specie, è la più odiosa bestemmia che i costumi moderni abbiano insegnato a proferire. La natura, elevandoci al di sopra delle bestie col divino presente della parola, ci ha resi atti a provare sensazioni e sentimenti, bisogni e passioni. Questa doppia natura crea nell’uomo, l’animale e l’amante. Simile distinzione rischiara il problema sociale che ci occupa.
Il matrimonio può esser considerato politicamente, civilmente e moralmente, come una legge, come un contratto, come una istituzione; legge, è la riproduzione della specie; contratto, è la trasmissione della proprietà; istituzione, è una garanzia i cui obblighi interessano tutti gli uomini: essi hanno un padre ed una madre, e avranno dei figli. Il matrimonio deve dunque esser fatto segno al generale rispetto. La società non ha potuto considerare che quelle sommità che per lei dominano la questione conjugale.
La maggior parte degli uomini non hanno avuto in vista, col loro matrimonio, che la riproduzione, la proprietà o il bambino, ma nè la riproduzione, nè la proprietà, nè il bambino non costituiscono la felicità.
Il crescite et multiplicamini non implica l’amore. Chiedere ad una fanciulla che si è veduta quattordici volte in quindici giorni, amore in nome della legge, del re e della giustizia, è una assurdità degna della maggior parte dei predestinati!
L’amore è l’accordo del bisogno e del sentimento; la felicità nel matrimonio risulta da una perfetta armonia delle anime fra gli sposi. Deriva da ciò che per esser felice un uomo è obbligato ad attenersi a certe regole di onore e di delicatezza. Dopo avere usato del benefizio della legge sociale che consacra il bisogno, egli deve obbedire alle leggi segrete della natura che fanno sbocciare i sentimenti. Se fa consistere la sua felicità nell’essere amato, bisogna che ami sinceramente; nulla resiste ad una vera passione.
Ma essere appassionato è desiderar sempre. Si può sempre desiderar la propria moglie?
Sì.
È altrettanto assurdo pretendere che è impossibile di amar sempre la stessa donna, quanto può esserlo il dire che un artista celebre ha bisogno di parecchi violini per eseguire un pezzo di musica e per creare una melodia incantevole.
L’amore è la poesia dei sensi. Egli ha il destino di tutto ciò che è grande nell’uomo, e di tutto ciò che procede dal suo pensiero. O è sublime, o non esiste. Quando esiste, esiste per sempre e va sempre crescendo. È questo l’amore che gli antichi facevano figlio del cielo e della terra.
La letteratura si aggira sopra sette situazioni; la musica esprime tutto con sette note; la pittura non ha che sette colori; e come queste tre arti, l’amore si forma di sette principii; noi ne abbandoniamo la ricerca al secolo seguente.
Se la poesia, la musica e la pittura hanno espressioni infinite, i piaceri dell’amore debbono offrirne assai più; perchè nelle tre arti che ci ajutano a cercar, forse infruttuosamente, la verità per analogia, l’uomo si trova solo con la sua immaginazione, mentre l’amore è la riunione di due corpi e di due anime. Se i tre principali modi che servono ad esprimere il pensiero domandano studii preliminari a quelli che la natura ha creato poeti, musici o pittori, non cade sotto il senso che è necessario iniziarsi nei segreti del piacere per esser felici? Tutti gli uomini risentono il bisogno della riproduzione, come tutti hanno fame e sete; ma essi non son tutti chiamati ad essere amanti e gastronomi.
La nostra civiltà attuale ha provato che il gusto era una scienza e che non spettava se non a certi esseri privilegiati, saper bere e mangiare. Il piacere considerato come un’arte, attende il suo fisiologo. Quanto a noi, ci basta d’aver dimostrato che la sola ignoranza dei principii costitutivi della felicità produce l’infortunio che aspetta tutti i predestinati.
È con la più gran timidità che oseremo arrischiar la pubblicazione di alcuni aforismi che potranno dar origine a questa nuova arte, come alcuni gessi hanno creato la geologia e noi li abbandoniamo alle meditazioni dei filosofi, dei giovani da ammogliarsi e dei predestinati.
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