III.

Possiamo oramai stringere più da presso la questione ch'è di mira precipua a quest'indagine, i rapporti che intercedono tra i fatti psichici più elementari: quei fatti che si ritrovano procedendo analiticamente, fin che si può, a ritroso dei fenomeni associativi. Ora , fin dove è permesso al positivismo di spingere l’analisi? in altre parole, quale può essere il limite oltre cui la psiche è impervia e chiusa alla ricerca scientifica? Porre questa questione significa perdersi in quel circolo vizioso, in cui tanti illustri psicologi si sono aggirati. Noi abbiamo cercato dimostrare che dove è psiche quivi è pure coscienza: l’un vocabolo è sinonimo dell'altro, perchè coscienza non vuol dire il tale o il tal altro complesso di fatti psichici, ma esprime la qualità che differenzia il fatto psichico dal biologico, dal chimico, ecc.

Dire che prima della coscienza vi sono fenomeni psichici e incoscienti, è dire un assurdo; è cadere in contraddizione al pari di chi afferma la divinità come inconcepibile, cioè come inaffermabile. Se dunque tutto quello che ha carattere psichico sta, o può stare nel campo della coscienza, se la sensazione e la percezione già fin dal loro inizio sono come tali coscienti, non si può disperare di giungere a separare i fatti elementari dai gruppi più complessi che in noi adulti si presentano chiari e distinti all'osservazione.

Ho parlato di sensazione e percezione al tempo stesso, perchè presso gli autori contemporanei troviamo sempre descritti come primi e più semplici questi due fatti. Le due espressioni hanno però un valore molto ondeggiante, e non da tutti sono adoperate con lo stesso significato; non solo, ma spesso l'una è scambiata con l'altra. Per il Bain, tra i modi primari di coscienza pare che si comprenda solo la sensazione: la quale sarebbe costituita da impressioni mentali, sentimenti, stati di coscienza risultanti dall'azione di cause esterne su qualche parte del corpo. Comprenderebbe dunque tutto ciò che immediatamente ci è dato dal senso interno (senso muscolare, cenestesi ecc.) e dagli organi di senso esterni. Percettiva in vece è l’attitudine oggettiva: quindi il ricordo, il risveglio di una somma totale di sensazioni passate essendo un effetto che varca di molto quello speciale della sensazione attuale, noi possiamo chiamare questo stato mentale una percezione, vale a dire qualcosa di più che la semplice sensazione chiusa nell'impressione del momento. Tale, sempre secondo il Bain, sarebbe lo spazio.

Per il Wundt , nella sensazione pura si trovano già, come elementi costitutivi, qualità, intensità, tono di sentimento. La percezione è invece il campo visivo della coscienza, che diventa punto visivo con l’appercezione, ed ha carattere volontario: così che sarebbe complemento necessario della sensazione, e al tempo stesso, rispetto a questa considerata come pura, un tutto complesso, ossia una rappresentazione (Vorstellung).

Citerò ancora l'Ardigò, secondo il quale la sensazione è una osservazione attuale; la percezione per l’associazione di atti psichici che vi si effettua, è un esperimento. Questa è costituita da un ragionamento particolare, istintivo, abbreviato con l'abitudine e reso così inconsapevole. Abbiamo già riportata la distinzione tra sensazione e percezione stabilita dal Sergi; per cui la prima sarebbe avvertita semplicemente come una modificazione organica diffusa, e la seconda invece riferirebbe questa modificazione a una causa eccitatrice esterna, ossia localizzandola. In un'opera posteriore sembra si limiti a identificare la sensazione come funzione della sensibilità, attribuendo poi alla percezione qualità e sentimento.

Se a queste si aggiungessero le opinioni di tutti gli altri psicologi, apparrebbe sempre più visibile la disparità, l'incertezza e spesso l’oscurità loro: il che dimostra che la distinzione tra sensazione e percezione è artificiosa e infondata, cioè non segue le linee naturali di demarcazione, secondo le quali si può scientificamente isolare l’un fatto dall’altro.

Generalmente pare che si trovi una certa preponderanza del tono di sentimento o sensibilità nella sensazione, e dell'attitudine conoscitiva o rappresentativa nella percezione. Allora, o si considera la sensazione come l'equivalente della impressione, ancora incosciente, che ha luogo nell'organo e si trasmette al cervello, dove si verifica la percezione quando noi riconosciamo l’impressione. Sappiamo quanto ciò sia errato; in ogni modo parrebbe assurdo annoverare la sensazione tra i fatti psichici, e noi dovremmo incominciare dalla percezione e non da ciò che la precede. O la percezione è una complicazione della sensazione per cui ciò che impropriamente si dice coscienza, cioè una coscienza di secondo grado, rovescia e oggettivizza il contenuto della sensazione. Perchè si compia tale operazione bisogna che agisca un’associazione tra la nuova sensazione e altre già prima realizzate, che permettono di prendere l'atteggiamento con cui si esplica questa coscienza di secondo grado: ma queste sensazioni anteriori già devono essere state conosciute, cioè percepite. O la percezione è l’atto stesso conoscitivo che si unisce al sensitivo, già nel momento stesso della sensazione; cioè indica la proprietà medesima del nostro spirito di conoscere il contenuto della sensazione mentre ci è dato. A ciò si potrebbe giungere seguendo il Wundt, se questi non confondesse il concetto di una percezione pura con quello di una percezione rappresentativa. In tal caso, l'unico possibile, non vi sarebbe differenza alcuna tra sensazione e percezione. Si giungerebbe alla conclusione che i due fatti sono il medesimo visto sotto due diversi aspetti.

Quando si estenda il concetto di coscienza a tutto il campo dei fenomeni psichici, non vi sono ragioni sufficienti per distinguere, nonchè nel tempo, neppure nello spazio una sensazione da una percezione. Aspettando chi abbia autorità di confermare, per designare il primo dei fatti psichici, l’uno o l’altro di questi vocaboli, sarà meglio, per intenderci, ritornare alle denominazioni dei fatti emotivi, conoscitivi (o intellettivi) e volontari, ove tutte le proprietà della sensazione-percezione sono comprese, e ricercare le loro reazioni reciproche.

Oggi si suol chiamare tono di sentimento il fatto emotivo, nel suo modo di essere più generale e indeterminato. Esso è costituito dal piacere o dal dolore. Sembra indiscutibile oramai che il dolore debba esser considerato come correlativo di azioni nocive all'organismo o alla specie, e il piacere di azioni utili, e manifestantesi negativamente come cessazione del dolore o positivamente. Quanto a quest'ultima distinzione, si potrebbe forse con buone ragioni cercare le prove per affermare che ogni piacere consiste solo nella cessazione di un dolore; e forse si riuscirebbe a provare con certezza che il dolore precede il piacere. Ma la discussione non ha molta utilità per la psicologia, e, per ora, sarebbe d'imbarazzo, quando si tratti di spiegare alcune emozioni piacevoli di ordine molto complesso, appartenenti alla psiche umana e di animali, superiori. Invece quanto all'attribuire al piacere e dolore una funzione protettiva dell'organismo e della specie, invano si potrebbe opporre, come prova in contrario, la descrizione di alcune emozioni complicate, dove lo stimolo piacevole è dannoso all'individuo; si pensi che una semplice associazione per somiglianza basterebbe a spiegare uno di questi fatti (per esempio, ingerire una sostanza tossica di sapore o di odore o di aspetto simile ad altra nutritiva), senza con ciò infirmare la legge.

Fra il piacere minimo e il dolore minimo si ammette che vi siano stati sprovvisti di tono. Il Bain chiama questi, stati neutri di eccitazione. È per noi importante ricordarlo, perchè ne deriva un primo rapporto, stabilito dal Bain, col fatto intellettivo. Egli crede che gli stati di coscienza troppo deboli per eccitare una emozione bastino all’intelligenza che se ne serve fino a raggiungere scopi elevatissimi. Mentre gli stati piacevoli o dolorosi sospendono l'esercizio del discernimento, non fanno il medesimo gli stati neutri in genere; per cui la eccitazione neutra si trova come transizione che conduce alla coscienza intellettiva, la quale si basa sulla differenza e somiglianza delle percezioni.

Si vede che il Bain ha esagerato l'induzione che si poteva fondare su alcuni fatti. L'intelligenza umana, è vero, raggiunge gradi elevatissimi, in cui non solo ogni sentimento tace, eccettuato il piacere intellettuale, ma è assolutamente necessaria la tranquillità d'animo come condizione al potere analitico e sintetico di agire con tutta la propria potenza. È anche vero il caso più semplice, che un'emozione intensa toglie il potere di esaminare persino l'oggetto che ne è cagione. Il piacere e dolore, fisici e morali, turbano l'osservazione, sia sopprimendola, sia influendo in modo che le comparazioni riescano monche e parziali, e la conoscenza delle cose inadeguata. Perciò le donne, i fanciulli, i caratteri impressionabili e sentimentali vedono male o a modo loro ogni cosa. Nessuno potendo sottrarsi all'influenza del sentimento e delle passioni, non esisterà mai uno scienziato perfetto. Ma tutto ciò può bastare perchè si affermi che ogni fatto intellettivo ha per condizione la mancanza, o l'abbassamento del tono di sentimento? Tutt'altro. Qui si parla di quei fatti intellettivi che potrebbero dirsi disinteressati; dovuti cioè al bisogno scientifico, o alla curiosità; o pure a un bisogno non diretto nè immediato. E si noti che anche qui il sentimento agisce come stimolo, e risulta poi come conseguenza, il piacere del vero. Dunque non sono fatti assolutamente disinteressati; spesso lo sono pochissimo, e la tranquillità d'animo, che li condiziona, è data dalla lontananza nel tempo o nello spazio dell'oggetto che arreca piacere o dolore. Ma interessamento significa appunto il dolore e piacere stessi, fisici o morali. Ora questo fatto emotivo non abolisce per nulla ogni altro intellettivo, ma solamente quello disinteressato: in altri termini, pone ai propri servigi l’atto discernitivo. E questo è il vero rapporto che bisognava stabilire tra i due fatti, e su cui in seguito ritorneremo.

Inoltre, la legge del Bain, che già non ha valore trattandosi di psiche umana o molto evoluta, diviene assurda trattandosi di psiche in generale, dove il fatto disinteressato è l'eccezione, e, in ogni modo, segue e non precede i rimanenti.

Anche per lo Spencer la cognizione segue ed è condizionata dal tono di sentimento. Ma questa condizione non è data soltanto dalla mancanza di piacere e dolore, ma più tosto dal fatto che mentre i toni di sentimento producono gli stati di coscienza, la cognizione consiste nell'avvertire le relazioni fra questi stati. L'espressione – stato di coscienza – è errata, e racchiude un concetto da cui la psicologia oggi tende a liberarsi, essendo contrario alla logica dei fatti: non si può considerare la psiche come un casellario dove vanno a schierarsi, ognuna a posto suo, le modificazioni della coscienza, serbandosi tal quali, pronte al richiamo di stati consimili. Questo modo di vedere, assai comodo all'associazionismo, ma senza possibile fondamento, deve cedere il posto al concetto moderno dell'attualismo, secondo cui ogni fatto è nuovo e attuale. Ma, per non complicar troppo la questione, ci basti, per appagare le esigenze scientifiche, di cambiare l'espressione – stato di coscienza – nell’altra – modo di coscienza. – E osserviamo se il rapporto stabilito dallo Spencer si verifica, portandolo nel campo dei fenomeni elementari. Allora un modo di coscienza semplicissimo ci è dato da un piacere o dolore puro; e la cognizione più semplice ci è data dalla localizzazione di questo piacere o dolore. Per lo Spencer, il primo dei due fatti è primario, il secondo secondario, e condizionato non solo dal primo, ma da altri della stessa natura con cui il primo viene paragonato.

Noi or ora vedremo che ciò non è esatto, perchè la localizzazione anch'essa può esser data come fatto primario, indipendentemente dal ricordo e dal confronto con altri modi di coscienza. Per lo Spencer, al contrario, quella e ogni altro fatto discernitivo, consistendo nell'avvertire una relazione fra i modi di coscienza, sono fatti secondari e associativi, che presuppongono il ricordo, cioè il richiamo di altri modi; e il medesimo si dica della coscienza intellettiva del Bain, la quale, esplicandosi con un rapporto di differenza (o di somiglianza, che è un modo di differenza), ha dunque bisogno di rievocare qualcosa che non è più presente.

Ora, se il fatto discernitivo non trovasse posto tra quelli primari, costituirebbe semplicemente un fenomeno associativo e dovrebbe escludersi dai fenomeni elementari della psiche.

Si badi però che, ad escludere il fatto discernitivo da quelli elementari e fondamentali, non basta provare che esso viene dopo quello emotivo, ma bisogna dimostrare, come dicevamo, che esso si basa su un'associazione.

Quanto al primo di questi due quesiti, anche partendo da un punto di vista diverso da quello degli psicologi sopra ricordati, sembra che si debba pervenire all'affermazione , che la conoscenza segue il tono di sentimento. Di fatti il piacere e il dolore hanno per base l'integrazione e la disintegrazione della sostanza organica; vale a dire che data la sostanza organica eccitabile, non vi è d'uopo di altro perchè vi intervenga il dolore e il piacere; e, in generale, data una sostanza e la sua eccitabilità, può verificarsi il dolore e piacere. Perciò in filosofia non è assurda l'ipotesi di una psichicità atomica; nella disgregazione di due o più atomi che hanno affinità chimica, vi è la condizione di un qualcosa che equivalga al dolore: bisogna però dimostrare che vi sia l'equivalente sottorganico della eccitabilità. Il medesimo non può dirsi del fatto conoscitivo; come vedremo esso ha bisogno come intermediario, di quello emotivo; se le relazioni fra l'organismo e l’ambiente fossero state tali, che, pur essendovi la eccitabilità, non vi si fosse mai suscitato un dolore (cosa assurda), si scorge facilmente che la psiche non avrebbe mai conosciuto cosa alcuna.

Quanto al secondo quesito, se il fatto discernitivo consista in un'associazione, cioè sia secondario, possa invece trovarsi come primario, cioè semplice, non ne sarà difficile la soluzione se, abbandonando gli autori, ci serviamo dell'osservazione diretta. Ricorro al solito esperimento: mi pungo una mano. Astraggo, analizzando la mia coscienza, da ogni fatto di memoria e da ogni associazione con i dati degli altri organi di senso. Quindi io non so che cosa mi ha punto; anzi, non riferisco neppure la mia percezione a un oggetto posto fuori di me: ogni associazione manca, e il non-io s'identifica col me. Ho il sentimento di un modo di essere diverso dal precedente, cioè nuovo, doloroso. Sappiamo già che il contenuto di questa percezione di dolore è una modificazione del sistema nervoso, che ha luogo nella parte modificata, e poi si propaga e rinforza per l'intervento indiretto di tutta la massa nervosa, e diretto delle cellule dei corni non solo posteriori ma anche anteriori del midollo spinale e di quelle, probabilmente, dei nuclei della base.

In questa mia percezione, una puntura, posso ancora distinguere qualcosa di intellettivo? Si dirà: la puntura stessa. Cioè oggettivizzo il fenomeno di cui sono cosciente. Ma questa è già una rappresentazione ch'io faccio dopo, sia pure in un lasso minimo di tempo, per l'esperienza che abbrevia il lavoro. La rappresentazione è a punto ciò che si sovrappone ai fatti elementari e li complica in associazioni.

Parrebbe dunque che il fatto intellettivo non esista prima della rappresentazione, cioè sia secondario, come risulta dalle investigazioni degli autori. Ma no: perchè già insieme col sentimento del mio modo di coscienza io ho almeno una intuizione di spazio. Forse perciò la mente acuta del Kant poneva lo spazio a priori. Per la maggior parte degli autori positivisti lo spazio è dato molto dopo in seguito a ripetute e comparate esperienze. Ciò è vero non per lo spazio in sè, ma per la rappresentazione dello spazio a tre dimensioni.

Giova riportare l'opinione del Panizza, che si oppone a quella degli psicologi. La percezione ha per forma fondamentale lo spazio, della stessa ampiezza della sfera di percezione. Ogni organismo percepisce lo spazio a tre dimensioni già per il fatto che percepisce se stesso come corpo solido. Anche il tempo è una forma fondamentale della percezione, perchè gli organismi sono nel tempo solo in quanto sono percepiti. Qui noi possiamo negare che il tempo sia una forma fondamentale della percezione al pari dello spazio. Di fatti il tempo è dato dall'associazione di rappresentazioni delle percezioni precedenti con quella attuale. È dunque alcunchè di posteriore rispetto allo spazio che è dato immediatamente con la percezione, in quanto questa si riferisce sempre a un oggetto esteso, che può essere il sistema nervoso. In questo senso abbiamo prima affermato che la coscienza di una estensione, cioè di un luogo, è la forma più semplice di conoscenza.

Questa intuizione di un luogo, cioè di uno spazio esteso, non è il medesimo di ciò che il Panizza intende come percezione idionervosa. Egli, passando a discorrere del contenuto della percezione, afferma che, prima ancora che le modificazioni degli organi dei sensi vengano a porsi nel campo della percezione, questa trova già qualcosa come oggetto che si dispone nello spazio, ed è la sostanza nervosa medesima: questa percezione idionervosa non ha dunque per contenuto nè luce, nè tatto, nè odore, nè sapore, e neppure sentimento; è una semplice intuizione vaga di uno spazio esteso quanto il sistema nervoso, senza altra determinazione o particolare contenuto. Il che ci condurrebbe ad ammettere che questo fatto conoscitivo, contrariamente a quanto abbiamo detto, precede quello emotivo. Ma il fatto emotivo, alla sua volta, nella sua espressione più semplice, è una eccitazione dolorosa o piacevole. Ora, la percezione idionervosa non avrebbe contenuto, cioè non potrebbe esistere se il sistema nerveo, ch'essa abbraccia, non venisse in qualche modo eccitato; perchè il sistema nervoso è la base fisiologica di ogni fatto psichico a punto in quanto ha la proprietà, o funzione di essere eccitabile. Cosí, tutto al più, per percezione idionervosa si potrebbe intendere quella, ipotetica, dovuta a un certo stato di eccitamento, che si potrebbe chiamare tonico, del sistema nervoso, all'infuori di ogni eccitazione esterna.

Contentiamoci di affermare che, dato un fatto emotivo semplicissimo, per esempio una puntura si ha come fatto conoscitivo più semplice la percezione di uno spazio dove la puntura è sentita. Io chiamerei ciò la localizzazione di questa puntura, se il termine non fosse pregiudicato; di fatti con questa espressione si suole intendere una operazione riflessa del nostro spirito, dove già interviene la rappresentazione della puntura. Notiamo anche, che in questo modo non c'è più bisogno di uno stato neutro di sentimento perchè sorga il fatto intellettivo.

Ora, se invece di pungermi con uno spillo, io mi servo di una serie lineare a bastanza fitta di aghi, esercitando una compressione di tutti questi aghi contemporaneamente sulla mia pelle, astraendo come prima da ogni rappresentazione, insieme col sentimento di dolore, io ho coscienza diretta di una forma, una linea: ciò perchè quel che prima era percezione di un punto nello spazio della mia sostanza nervosa, è divenuta percezione di molti punti messi in fila.

Insisto nel dire che fin qui non interviene nessuna rappresentazione. Non si può dire lo stesso di ciò che gli autori chiamano primo fatto conoscitivo. Perchè, ammettere che l'impressione vada dall'organo di senso al cervello, e vi susciti un moto, per cui il cervello la senta e riconosca, è come dire che tanto il fatto emotivo quanto il discernitivo sono secondarj, e i loro modi primarj rimangono nell'incoscienza: e tutto ciò è assurdo. D'altra parte, tutto ciò che è conoscienza, è già dato come una rappresentazione; cioè si crede che la nostra psiche conosce e discerne solamente quando oggettivizza il fatto che impressiona, e lo paragona con le immagini dei fatti precedenti. Come avviene questa oggettivazione? quale ne è il movente? Nè il Bain nè lo Spencer si pongono così il quesito: lo spirito appare come qualcosa di passivo su cui scorrano le immagini come parvenze identiche delle cose passate. Ma il Wundt giustamente toglie questa fissità alle rappresentazioni: le quali non si devono ritenere come riproduzioni di cose passate, ma come fatti sempre attuali, nuovi, modificazioni dei precedenti elementi di questi associati a nuovi elementi. Cosi l'associazionismo si ravviva. Perchè la rappresentazione è la chiave di tutto l'associazionismo, che non potrebbe sussistere senza le immagini. Chi muove tutto ciò, secondo il Wundt, è la nostra attività, cioè la volontà, che nella percezione e nell'appercezione suscita le rappresentazioni.

Vale a dire che, presso gli autori, il fatto intellettivo è sempre dato da una rappresentazione. Di fatti, il nostro spirito oggettivizzando il contenuto della percezione, non è più quello ma la sua immagine che contempla. Ma dunque ci troviamo in faccia a un atto associativo, per quanto semplice, perchè vi è almeno l'associazione con i dati di un altro senso, per lo più la vista, che formano l'immagine; giacchè se vi fosse un modo unico di percepire, come potrebbe oggettivarsi il contenuto di questa percezione, non rimanendo nulla che si ponga come soggetto di faccia al nuovo fatto?

Ma in ciò che abbiamo trovato non c'è ancora nessuna oggettivazione; l'atto di percepire un dolore come esteso in modo lineare viene prima ed è diverso dalla rappresentazione di esso, cioè dall'avere l'immagine di me che subisco una serie di punture contemporanee. Adunque il fatto conoscitivo è primario del pari che l’emotivo. L'unico rapporto che fin ora si può stabilire fra questi due fatti, è quello condizionale; già che senza piacere e dolore non vi sarebbe conoscenza. Altro non se ne può stabilire, e i due fenomeni restano statici e come schematici l'uno presso all'altro, perchè manca ancora l’analisi di ciò che li pone in movimento, cioè della volontà. Si tratta di esaminare se anche il fatto volontario sia primario ed elementare nella psiche, e di che rapporti stringa se stesso ai precedenti, e questi fra loro.

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