V. La realtà e il valore sensibile

1. Il soggetto, per sè stesso, è sempre pratico. Praticità e finalità sono i caratteri coi quali denotiamo la pura soggettività: il primo termine allude a ciò che possiamo chiamare la natura soggettiva dell'esperienza (il soggetto psicologico), ma è sinonimo del secondo che indica il rapporto di mezzo a fine costituente i valori, in quanto soggettivi, della medesima. Non appena scorgiamo degli infusori natanti in una provetta i quali s'affollano verso il raggio di luce che vi facciamo cader sopra, siamo indotti a parlare di esseri «animati», pur sapendo che questo elementare tropismo si riduce a leggi di necessità naturale, e che in essi manca la consapevolezza così del fine come del mezzo. Del pari, all'estremo opposto, l'azione umana, per quanto sia naturalmente condizionata, la chiamiamo spirituale in quanto diretta a un fine libero.

Perciò quando consideriamo la vita animata – quando cioè essa è già un «dato», un contenuto della nostra attuale conoscenza –, la dobbiamo sempre pensare come una relazione di soggetto a oggetto: obbiettivamente, azione e reazione (causale) dell'uno su l'altro, ma inteso anche il soggetto nella sua organica concretezza reale ossia in natura (unico modo possibile di conoscere realmente il soggetto, di realizzarlo in un oggetto); subiettivamente, antinomia od accordo sentiti come coscienza, ossia valutazione e conoscenza.

Il rapporto cosciente fra un soggetto, presente (esistente) come sentimento rappresentativo della finalità puramente soggettiva (pratica), e un oggetto, dato come sensibile rappresentativo dialtro fuori di sè (e quindi fuori del me attuale), lo chiamiamo volere: una parola, giusto per indicare il rapporto di valore, il dislivello tra il fine sentito (o il dover essere rappresentato) e l'esistere dato attualmente. Questo dislivello sentito, quest'antinomia o coscienza pratica è la ragione del pensiero, destinato a colmarlo. Come ciò avviene? Il «come» è una questione di fatto, e perciò psicologica e obbiettiva (naturalistica, correggendo il sovrannaturalismo della psicologia corrente); la «ragione» è una questione filosofica, che poi vedremo meglio.

Per la psicologia, come dissi, il pensiero non è un'attività diversa dal volere. Questo si riduce a un rapporto finalistico, che l'osservatore pone per partecipazione (rivivendolo) fra una sensazione, ch'è uno stimolo sentito come spiacevole o men piacevole, e una nuova sensazione appagante, ch'è poi l'atto pratico e la modificazione che ne consegue del rapporto di soggetto a oggetto in quanto qualcosa muta di fatto, sensibilmente (l'atto pratico trasforma il mondo, produce qualcosa). La volontà diretta e immediata («pratica» in senso più stretto) è detta spontanea e impulsiva; ma essa implicitamente già possiede un valore teoretico, la percezione, e un valore pratico (in senso largo), la valutazione del percetto come mezzo o fine piacevole. Risale anche oltre il Taine l'osservazione, che una percezione non è che un ragionamento abbreviato (o meglio, automatizzato); e del pari un sentimento implica la valutazione pratica di tutta la sensazione onde emerge, anche se non pongo in evidenza il mio fine come dover essere e il rapporto di questo con l'essere reale, col percetto.

Il pensiero è quel volere per cui si esplicano ed evidenziano i valori impliciti (si scopre) e se ne producono dei nuovi (s'inventa). Lo psicologo non trova, non può trovare, una realtà, una natura diversa da quella del volere in genere: trova soltanto condizioni più complesse nell'unità degli elementi contingenti (per es. lo stimolo dubbio, che può esser diversamente percepito; o una ambiguità o pluralità di fini possibili, ossia una plurivocità di sentimento ecc.), per cui l'atto pratico, quello che modifica il reale dato, viene sostituito da un atto conoscitivo (per es. la parola). Il pensare, come il volere in genere, lo diciamo un'attività proprio e soltanto nel significato naturalistico del termine: per indicare la causalità che lega due dati dell'esperienza (per es. la sensazione di sforzo dell'attenzione e la sensazione dell'atto, della parola che lo attua). Il pensiero è attivo in quanto diviene realmente, in quanto fa qualcosa; non è una misteriosa potenza che stia sotto il suo atto, è un modo di agire di quella concreta esistenza obbiettiva, ch'è l'essere individuale dato in una sensazione.

L'atto del pensiero, il suo esistere, si chiama «idea»; ma non è una «cosa» diversa dal dato sensibile: la differenza sta unicamente in ciò, che un atto (il percepire attento come il fare di proposito, l'agire come il parlare) è un'idea in quanto rappresenta un fine e un valore che lo trascende (che non si realizza tutto nel sensibile). Si potrebbe anche dire, che un'idea è quel sensibile che è cosciente del sovrasensibile: è cosciente dei valori ch'esso rappresenta ma non esaudisce e per i quali esso «vale»; e questa coscienza è almeno il sentimento del dislivello fra l'esistere attuale e il fine soggettivamente sentito. Allora l'attività pratica, il volere, si serve dell'atto (e specialmente della parola) per rappresentare il valore, il dover essere: l'essere di un atto (qual'è per es, la parola) non conta più niente per sè.

La coscienza che, non paga dell'esistenze sensibili, le nega o se ne serve sol per affermare (per produrre idealmente) i valori (soggettivi e oggettivi) che le trascendono, è il conoscere: un modo del fare (ossia del divenire); però, un fare per valutare, un giudizio. Ma evidentemente la conoscenza, l'idea, non è che un mezzo, una tappa dell'essere, che mette in evidenza i suoi valori impliciti e li prende come idee del dover essere per realizzarli come esistenze. Anzi, il parlare medesimo, il costruire i valori in linguaggio, è già un attuarli realmente; e in generale, il fare pensatamente, la volontà cosciente, è un attuare nella contingenza (ossia, come «si può», realmente) i valori trascendentali. Nessuno mai riconoscerà più di me, sensista, il valore di un'idea!

2. – Ciò ricordato, mettiamoci ancor una volta nella posizione galileiana, di chi, data un'esperienza qualunque, per es, un pezzetto di ferro attratto da una calamita, in assenza o astraendo da ogni altro interesse o fine soggettivo, si pone a fine l'oggetto stesso, la pura conoscenza teoretica: conoscere per conoscere. Conoscere per idee significa semplificare ancor più quella semplice esperienza; impoverire l'esperienza di tutte le sue contingenze per ridurla a immagini generiche o astratte di sostanza e causa – per es. di corpo e moto, materia ed energia, e simili (mettiamo, «ferro» e «attrazione») –; poi, se vi riusciamo, a semplicissimi rapporti d'identità esplicati in parole di valore astraente, come il linguaggio matematico, che non conservano nulla di sensibile, nè quindi d'immaginativo (fuor che sè stesse!), e possono pertanto rappresentare l'identità logica senza residui di molteplicità empirica, fuori del tempo storico e perciò, valevole anche per l'avvenire.

Il nominalismo contemporaneo non ci obbliga punto a dispregiare la conoscenza oggettivante e la scienza: ne induce soltanto a sapere ciò che vogliamo. Vogliamo contentarci di vedere, di toccare, di conservare in tutta la sua contingente realtà questo singolo ricco originale spontaneo farsi attuale della nostra esperienza? Ne istituiremo la storia; ossia, per quanto è possibile, lo rivivremo e lo faremo rivivere nella sua individualità qualitativa. Vogliamo invece conoscer per concetti, ossia «spiegare» il fenomeno, trascender l'esperienza particolare per fissarne le «ragioni» universali? Allora, ripeto, prima parleremo di ferro e d'attrazione, e poi via via di campo magnetico immaginato come uno spazio in cui un imponderabile mezzo elastico agisca per spostamenti; fin che giungeremo a pensare il fatto in una formula, in una legge: la natura. Sol che questa natura o dover essere in sè del fenomeno, non è più un qualcosa trascendente – poi che è un'ipotesi da noi stessi inventata –, ma è il valore trascendentale, razionale (nel nostro caso, scientifico) dell'esperienza.

Nessuno dunque sarà oggi così dogmatico da credere che, anche nel caso della conoscenza più obbiettiva e scientifica, si sia eliminato il soggetto, nè dall'oggetto conosciuto come reale, nè tanto meno dalla conoscenza. Tutti sanno che conoscere non è riflettere passivamente qualcosa che stia fuori di noi, ma un costruire la realtà come verità oggettiva; e mai quanto nel citato esempio del conoscere strettamente teoretico, il soggetto è altrettanto attivo, la volontà attenta e disciplinata, il pensiero formativo e concettuale. Il metodo galileiano non elimina il soggetto pensante dall'oggetto pensato: vuol solo evitare che la praticità soggettiva e gli «idola» che ne derivano limitino la teoreticità del fine oggettivo puro.

Ma qui bisogna approfondire. Risolvere il problema della scienza è come risolvere il problema della conoscenza in genere, in quanto è conoscenza teoretica: la scienza non è che la forma più squisita e controllata del modo comune di pensare per concetti; l'osservazione scientifica non è che una percezione metodica, l'analisi e la sintesi delle scienze non fanno che perfezionare la comune astrazione e generalizzazione; la «natura» dello scienziato non è che il «mondo reale» dell'uomo comune, reso del tutto obbiettivo. Se si dubita del valore di questa obbiettività, ossia del valore di realtà della «natura» – perchè si pone in altro la realtà del valore (nel sovrannaturale, come un tempo; nella soggettività, oggi) –, si dubita inclusivamente del «mondo» affermato dal senso comune.

Alla parte più superficiale dell'odierno prammatismo è facile rispondere. È vero che i concetti dell'intelletto, e tanto più le leggi scientifiche, sono strumenti economici della vita e obbediscono a esigenze pratiche o affatto utilitarie. Sì, anche una qualunque idea generale, per es. «seggiola», io l'applico deduttivamente, quando n'ho bisogno, a un nuovo percetto cui si possa estendere. Ma ciò non implica che sia soggettivo e pratico (in senso stretto) il processo induttivo con cui quell'idea s'è formata; anzi, l'applicabilità dei concetti ai fini pratici è in ragione della lor oggettività teoretica. Affinchè una legge scientifica sia fonte di applicazioni utilitarie, è necessario che sia reale e vera in sè. Perciò la volontà pratica, pur agendo da stimolo della ricerca oggettiva, dovrebbe pur sempre, per così dire, restarne fuori: l'uomo ha ben appreso che, per dominare la natura, bisogna conoscerla così com'è indipendentemente da lui.

Inoltre, pur convenendo che il conoscere è una costruzione del soggetto, è un fare, e quindi soggettivamente è un volere; che pertanto è un modo e un mezzo dell'attività pratica, si deve subito aggiungere che il conoscer teoretico, e tanto più la scienza, sono un voler conoscere, e realizzeranno il volere in quanto vogliono e raggiungono una realtà obbiettiva, costruiscono qualcosa che non è più «io» ma «mondo» e «natura» quali debbon essere in sè. Il prammatismo stesso, che valore avrebbe, se non fosse e volesse essere una verità oggettiva, un concetto reale? Allora il problema si converte in quest'altro: la praticità soggettiva in che modo diviene teoreticità? Il che è come chiedere: in che modo il soggetto si oggettiva? Basta forse volerlo, basta convertire in teoretico il fine pratico? Ma, data la praticità e soggettività di tutti i valori, non è la loro verità e realtà un'illusione?

3. – Qui il prammatismo epistemologico affonda le sue radici nel soggettivismo dell'odierna filosofia, benchè questo spesso ripudii quel suo figliuolo troppo americano. L'unica realtà di cui si possa parlare è la «nostra» realtà. Il soggetto è già reale in sè, perchè è il solo essere già dato quando incominciamo a conoscere, il solo di cui non si possa dubitare e da cui non si possa prescindere. Gli «oggetti» sono «momenti» del suo real divenire: le idee (ossia le conoscenze) sono le cose istesse, reali perchè attuazioni dell'io, non perchè miticamente corrispondenti a una inammissibile cosa in sè.

La posizione dell'antico realismo viene così doppiamente capovolta: in noetica, parlando del pensiero come rapporto conoscitivo (dialettico) di soggetto a oggetto, traduzione logica dell'antinomia di pratico e teoretico; in metafisica, considerando il reale divenire come l'attuarsi dello spirito nella natura. La natura è un'idea astratta del pensiero, ma che non possiamo astrarre dal pensiero. Il pensiero se la costruisce per antitesi all'io pensante, ma essa vale soltanto per lui, come momento oggettivo del pensiero stesso. Infatti l'idea di natura è un modo di unificare l'esperienza mediante le categorie di sostanza e causa, le quali non son degli enti esistenti in sè, ma strumenti puramente formali del pensiero per attingere quella necessità e universalità che deve valere obiettivamente, appunto come realtà dell'essere e del divenire. Ora, questa necessità e universalità obiettiva raggiunta coi concetti di natura unificanti l'esperienza, non potendoci venire dai particolari contenuti di questa, è a priori, è il pensiero che ce la mette: è il soggetto in quanto Spirito universale e assoluto. Più rigorosamente, dopo Kant, si dice che i valori del pensiero sono immanenti ne' suoi oggetti.

Teoreticamente, la realtà dello Spirito dà valore reale alla natura obbiettivandosi per conoscere: questo, se si parla del pensiero in astratto; ma in concreto poi, il pensiero si attua, il soggetto diviene e si realizza nell'esperienza, per la quale esso vale. La realtà immediata e metafisica del soggetto pensante (universale) è il suo attuarsi nell'oggetto contingente, nell'esperienza concreta. Perciò anche la conoscenza, che come astratta idea è natura (scienza), come idea reale è storia, è il divenire stesso reale così come diviene.

Tal contingentismo riaccosta gli hegeliani alla corrente intuizionista (proveniente, in fondo, dal positivismo), e per questa via, come già dissi, facilmente si giunge a convertire l'idealismo in un radicale empirismo: se la realtà dello spirito non è che il divenire storico e di fatto – e anzi questo «fatto» non è che astratto contenuto conoscitivo dell'atto reale, ond'è che la storia stessa vale, come sapere, in quanto è sempre attualità soggettiva –, quella famosa trascendentalità dei valori, quel dover essere dello Spirito, pratico (l'eticità) e teoretico (la verità), che costituisce il carattere di universalità e necessità del suo essere assoluto, dove mai andrà a finire? Su che ci fonderemo più per giudicare buono un atto, vero un oggetto? Immanentizzato del tutto nell'atto e nei contenuti, anzi in essi realizzato, il valore non li può più superare se non in quanto un atto (e quindi un oggetto) si relativizza col suo precedente, che diviene un disvalore, il male e l'errore del bene e del vero attuale.

Di ciò approfitta il prammatismo per svalutare l'intelletto e prenderne i concetti come mezzi strumentali ai servigi della soggettiva empirica esperienza. Ma questo soggetto empirico di cui ora parliamo, non è anch'esso un particolar contenuto, un oggetto astratto (se preso in sè) di quella vera, di quella necessaria e universale realtà, ch'è propria soltanto del pensiero in atto, ossia che è già data, per l'idealismo, come assolutamente a priori? Il Soggetto assoluto, lo Spirito, preso come realtà di tutti i valori, non è l'oggettività stessa?

Piuttosto chiediamo: questo Oggetto assoluto, che si chiama Soggetto perchè si attua in quelle idee, ossia in quegli oggetti che sono i miei particolari oggetti, è un principio, oppure è proprio il farsi, il divenire reale? Evidentemente è un principio, è un postulato o idea formale, reale come idea della oggettività: principio della realtà, ma non real divenire se non in quanto si attua particolarmente. È negli oggetti particolari che noi lo troviamo come coscienza conoscitiva; e ad esso, come a un postulato, rinviamo la certezza reale. La realtà come oggettività universale e necessaria rimane un dato a priori, di «natura» soggettiva perchè postulato del soggetto, ma unica «ragione», misticamente addotta, del suo farsi oggettivo come particolare atto ed oggetto. Il problema resta al punto preciso in cui lo aveva lasciato il Kant.

L'idealismo non ha risolto che il problema interno della filosofia, dando a questa il compito strettamente teoretico che la distingue dalla religione come dalla conoscenza empirica, le quali rimangono nell'antinomia di soggetto e oggetto escludendo l'uno dall'altro (pensano per antitesi pratica invece che per sintesi teoretica pura). L'antinomia pratica di soggetto a oggetto – l'incontentabilità morale, ma anche il dubbio conoscitivo –, vissuta come sentimento e volere (conoscenza pratica), si esplica come dialettica del pensiero mediato, il quale traduce quell'antitesi assoluta in un'opposizione relativa, presupponente l'identità essenziale dei due termini (l'unità di coscienza). Questo fu il passo compiuto dallo Hegel sopra il Kant, il quale già aveva trasportato il dualismo delle sostanze cartesiane nell'interno del pensiero, ma ne aveva rinviato l'unificazione ai regni dell'inconoscibile noumenico. Perciò, come vedemmo, anche la filosofia kantiana rimane una posizione pratica e deontologica: la realtà dei valori è un dover essere.

La posizione dialettica invece è, o vuol essere, teoretica (anche riguardo ai valori pratici): dal punto di vista logico, il soggetto pone l'oggetto e lo distingue per negazione della sua propria soggettività, ma l'oggetto non cessa, d'esser tale per un soggetto, d'esser un'idea (e non una realtà in sè); dal punto di vista metafisico, il soggetto si attua di volta in volta in quel reale oggetto ch'è la sua propria (e unica!) realtà. Allora non c'è più una materia separata dallo spirito, un corpo separato dall'anima, una cosa separata dal suo valore; e nemmeno ci dev'essere una conoscenza oggettiva teoretica separata kantiananiente da una conoscenza puro pratica. La forma vale sempre ne' suoi contenuti, l'essere si realizza nel divenire; esistenza e trascendenza si conciliano nell'immanenza del trascendentale nell'attuale esistere (soggettivo), il quale diviene così l'essere teoretico del dover essere kantiano.

4. – Di questo sviluppo dal Kant dobbiam esser grati allo hegelismo. È come se una mano potente ci obbligasse a piegare il collo e lo sguardo, dal cielo delle idee platoniche al concreto «sinolo» aristotelico, escludendone ogni residuo di realismo, perchè l'atto del pensiero, quand'è giunto all'autocoscienza della filosofia (teoretica pura), non presuppone altro che sè stesso: non v'è più un oggetto dato a posteriori; una materia esistente come fenomeno, che si riduce a un'idea già pensata, o meglio a un pensiero ripensantesi; come non v'è un'intelligenza esistente fuori di noi e identica a sè stessa che faccia da motore immobile del divenire, perchè la ragione esiste nel real divenire, è l'esperienza stessa che si fa ragione.

Se ne dovrebbe dedurre, come criterio filosofico, il bisogno di riportare tutti i problemi in termini di pura esperienza criticando ogni realismo (idealista) che cercasse ancora il fondamento reale fuori dell'attuale esperienza per obbedire a esigenze religiose oppure pratiche; e infatti perfino la teologia, sotto quell'impulso, ha tentato di diventare una filosofia della «esperienza religiosa» e della «azione». Quanto alla scienza, la critica che il nuovo idealismo (realista) muove al naturalismo, non è dunque di esser oggettivo, ma d'esserlo astrattamente, di prender l'idea di natura come un reale oggetto. La natura non ha dunque realtà? Sì, come ogni idea, anche l'idea di natura è reale; ma questa (parziale) realtà del sapere obbiettivante consiste nel suo stesso farsi, come storia del pensiero scientifico: non in una realtà di natura fuori dello scienziato. Del resto gli scienziati, queste cose ormai le sanno fin troppo; e di qui appunto rinasce il problema del sapere oggettivo come l'abbiamo di sopra impostato. Ma, pregiudizialmente, rinasce in filosofia il problema della realtà!

Osserviamo intanto, che lo stesso criterio che non lascia sussistere un oggetto in sè fuori dell'esperienza, non dovrebbe più lasciar credere a un Io puro fuori del particolare empirico io, o anzi del suo attuale oggettivarsi nel non-io contingente: in quell'idea e in quell'atto, cioè, di cui l'Io puro non sarebbe che il principio trascendentale, la forma – soggettiva in quanto pratica e deontologica, non in quanto realmente esistente – dei contenuti, esistenti in quanto sensibili. Tale a rigore dev'esser, secondo me, la posizione consequenziale del criticismo, che un larvato misticismo risospinge allo «Spirito» a traverso l'ambiguità dei termini.

«Esperienza», è vero, significa ormai «coscienza»; e perciò l'idealismo sembra metter capo al soggettivismo, anzi al solipsismo. Ma «coscienza» non è più un termine psicologico (ne abbiam visto l'assurdo); non indica un qualcosa, una natura del soggetto (il soggetto empirico), che sarà uno de' suoi oggetti, quando lo pensiamo in accordo con gli altri. La coscienza in quanto pratica è il dislivello, l'antinomia del sentimento con le sue condizioni di fatto (è il volere); in quanto teoretica, è la mediazione fra gli opposti, la conoscenza del fine e del mezzo oggettivo, la costruzione dell'oggetto reale e ideale, e, insomma, tutto il mondo conoscibile: esperienza, appunto. Tale mediazione conoscitiva è pensiero? Benissimo; ma il pensiero, in questo caso, non esiste in sè dietro l'esperienza: n'è il nome teoretico, come praticamente è un atto, un fare, un esistere sensibile del rapporto finalistico fra i due astratti termini di forma e contenuto del pensiero.

Se dunque postuliamo un «pensiero pensante», una causa causante di tutto il pensiero pensato, ossia oltre il mondo definito «reale», non si tratta più di uno Spirito reale e universale al tempo stesso, che sarebbe un'ipostasi di vecchio stampo: si tratta del principio stesso di universalità e necessità immanente nel conoscere teoretico; la «regola», per dirla kantianamente, del farsi reale. Ancor più esattamente, si tratta della praticità del teoretico, perchè la finalità teoretica si pone per sua regola il dover essere in sè, la sostanza e la causa assoluta.

Concludendo, il criticismo non risolve il problema del reale, ma lo pone in termini di esperienza e di coscienza. Noi ora dobbiamo con l'esperienza dimostrare il trascendente: dobbiamo cioè cercarne l'immanenza nel sensibile, senza ritornare ad affermare il sovrasensibile in sè, opposto all'esistere, quale apparisce alla coscienza pratica. Questo superamento dell'eticismo filosofico era la consapevole missione dell'hegelismo. Dopo l'accennata revisione, noi non abbiamo alcuna difficoltà a metterci da questo punto di vista, che spinge a cercare i valori reali nelle contingenti esistenze, e in ultima analisi, nei sensibili, negando esistenza reale ai valori puri.

Storicamente parlando, possiamo enunciare il problema così: dimostrata dal Kant «impossibile» la prova ontologica di S. Anselmo e di Cartesio, perchè di astratta logica formale, la filosofia contemporanea vorrebbe sostituirvi la prova di fatto, la prova dell'immanenza dei valori nel concreto farsi attuale. La logica reale pàrte dall'identità dell'idea e della cosa nell'esistere attuale: nulla dimostra meglio la realtà che la presenza di fatto vero come quel fatto. La scienza più reale è la storia; la filosofia più teoretica è quella che riconosce che ogni cosa dev'essere quello che è... Naturalmente, una simile constatazione non ha più alcuna praticità e lascia, ossia ritrova al punto di prima tutte le cose, si chiamin pure idee; e quindi anche i problemi filosofici in quanto problemi, aspirazione a sapere e a fare, risorgono per superarla: il «concetto puro» vuol superare il concetto-cosa (l'oggetto), l'autocoscienza vuol superare la coscienza. Dovrebbe tuttavia restar fermo il criterio. che quei problemi non si posson risolvere trascendentalmente (se non praticamente).

5. – E invero, che cosa saran mai il pensiero «puro» e i concetti «puri» dell'odierno idealismo, se non sono la ragion pura e l'«idea» kantiana? Un concetto è puro in quanto si spoglia di tutti i contenuti dell'esperienza – che abbiamo ormai chiamata conoscenza (teoretica) reale (storia) –, per diventare formale, per rappresentare l'universalità del valore. In questa pura forma, che il Kant chiamava sintesi a priori, il pensiero, come ben vedemmo, esprime soltanto una regola o una legge in sè, e non ha più altro contenuto che, il pensabile stesso, che pertanto si può dir noumenico.

La storia della filosofia e la psicologia del pensiero umano son lì a dimostrare, che è sempre esistito ed esiste, fiore estremo d'ogni civiltà, questo pensiero puro come attività separata e anzi antitetica a quell'esperienza e a quel fare, che pure abbiam detto pensiero (reale). In tal caso, il pensiero «puro» trovasi come una realtà storica e psicologica accanto, e sia pure al di sopra del divenire reale empirico, e, se si vuol distinguere da questo, non si può al tempo stesso confonderlo nella famosa formula hegeliana dell'identità di realtà e pensiero. Il pensiero puro, la filosofia in senso largo, sarà una realtà (storica), un momento del divenire, come psicologicamente è un'attività, un fare: ma esso fa, produce delle idee, rappresentate dalle parole, che sono inconfondibili con le cose e i fatti dell'essere e del divenire esistenti (esistono come parole).

Proprio perchè prescinde dalla «realtà», il pensiero può farsi puro, e formare i valori in sè, o, come si suol dire, «creare»: io direi «inventare», termine che indica la essenziale praticità del pensare. Tal'è, squisitamente, il pensiero etico; etico non soltanto perchè posizione pratica, pensiero rivolto al dover essere; ma anche perchè questo dovere non è pensato come condizionato da alcun essere esistente, risolvendosi in una regola di condotta che vale per tutti anche se nessuno l'ha mai seguita o la potrà mai seguire. L'imperativo categorico è «vero» anche se non esige realtà fuori di quella della sua enunciazione. Aveva ragione il Locke di osservare (giudice non sospetto) che il pensiero etico, proprio perchè costruisce liberamente le sue idee come idee «morali» e le sue regole conformi al suo volere, è la forma di ragione più vera, nel senso ch'è la più certa e probante, potendo formare i suoi concetti in perfetta coerenza col fine ideale e non attendendone prova che dal proprio assenso (pratico).

Ma lo stesso si può dire di tutto il pensiero puro, proprio perchè, in fondo, il pensiero è puro (o si purifica) in quanto è pratico, è trascendentale, è rivolto al dover essere. Tali sono tutte le idee metafisiche. Il principio metafisico di una sostanza assoluta e di una causa prima è vero, verissimo come principio necessario al pensiero e non esige altra esistenza che il suo esser pensabile (esistenza noumenica); falso sarebbe solo il pensare che lo si possa incontrare domani per la strada, come un reale teoretico. Tutte le scienze pure, del resto, partecipano del vantaggio d'esser «vere» assolutamente in proporzione del loro grado di formalismo, ciò che le rese l'ideale del sapere per tutto il razionalismo. Una scienza formale (come le matematiche, la logica formale, la logistica o logica matematica), o una scienza in quanto formale (come la meccanica «razionale»), è pensiero che, almeno temporaneamente, prescinde dai contenuti dell'esperienza per cercare rapporti universali e leggi in sè. Esso costruisce e inventa col sostituire tipi, simboli, modelli ai contenuti reali, e col partire da ipotesi o postulati ideali invece che dai dati dell'esperienza. Ne risulta una dottrina certa come dover essere, vale a dire una verità certa come pensiero, ma distinta, e anzi antinomica (in quanto, in fondo, pratica, ossia dogmatica) alla verità semplicemente «probabile» del concreto pensiero «reale».

La filosofia dallo Hume in poi non è uno di questi pensieri puri e formali, perchè è la loro critica. È «autocoscienza» solo nel senso ch'è riflessione sulla coscienza (su l'esperienza), e quindi critica della conoscenza. La critica, non avendo un contenuto proprio da realizzare, ma dovendo soltanto riflettere sul valore delle altre attività, è disinteressata scepsi, ossia diviene puro metodo teoretico; e questa è la sola purezza della filosofia odierna. Allora, tutta la critica si aggira intorno a quei due problemi di cui parlammo fin da principio: l'uno sulla realtà dei valori, problema pratico e definizione del soggetto (o meglio, della soggettività del reale); l'altro sul valore di realtà, che definisca l'oggetto come realmente oggettivo, problema teoretico (critica della conoscenza). Ma ambedue questi problemi si debbon incontrare e mediare nella ricerca del fondamento del reale ut sic, senza di che il valore sarebbe sempre un «come se» e un'illusione dei metafisici, e il reale sarebbe soggettiva «impressione» e illusione dei fisici. Lo scetticismo diverrebbe allora l'unica conclusione «possibile» d'una critica puramente teoretica.

Restando nel criticismo, che riflette la coscienza in tutta la sua infinita estensione (l'infinito divenire dell'esperienza), ma nulla «fuori» di essa (e come lo potrebbe?), pareva assodato che la coscienza sia relazione di soggetto e oggetto, i quali non esistano l'uno esterno all'altro, ma siano, cioè valgano e si facciano, in questa relazione o sintesi della lor pratica antinomia e quindi analitica e astratta antitesi teoretica. Questa relazione dunque costituisce il «valore»: valore soggettivo dell'oggetto, che per lo meno è la sensazione sentita (la coscienza pratica), e anche quando col pensiero raggiunge la sua massima chiarezza teoretica resta sempre un'idea implicante la finalità; e valore oggettivo del soggetto, che per lo meno è reale come un atto, e anche quando afferma la pura soggettività (il libero volere) si realizza obbiettivamente nella necessità di una legge che ce lo rappresenti. Allora, quali le conclusioni di un criticismo che voglia restar coerente, e non voglia (per fini pratici) nuovamente uscire dalla coscienza, vale a dire dall'esperienza?

6. – Ritorniamo per l'ultima volta alla posizione kantiana, ch'è il punto di partenza più chiaro. Il pensiero è soltanto pensiero in quanto produce ad libitum delle forme, delle idee pure, in giudizi sintetici a priori. La realtà, di queste forme è la lor esistenza storica e di fatto, che la storia e la psicologia conosceranno teoreticamente come un qualsiasi altro contenuto. Il loro valore è pratico (sono invenzioni): infatti esprimono – e «rappresentano» per una conoscenza pratica – il soggetto, la trascendentalità del volere su l'esistere; determinano una regola per il fare (e per il pensare stesso), ma non ne determinano la realtà. Purificando il pensiero da ogni contenuto e riferimento empirico (non restando di empirico che quel pensare medesimo), e purificando il giudizio da ogni particolar soggetto e quindi da ogni fine particolaristico (non restando di finalistico che il volere libero, il soggetto trascendentale), l'idea non rappresenterà l'essere oggettivo, il reale, ma il dover essere soggettivo, l'etico: la pura esigenza che il valore sia valore.

Questa è, criticamente, la realtà del valore, il vero etico: un'esigenza, un postulato di ragion puro pratica, che diviene il fondamento trascendentale del criterio di tutti i nostri giudizi morali. Infatti, applicando quel principio ai soggetti e fini particolari – secondo i sentimenti che la esperienza suscita come empirici motivi all'azione – giudichiamo praticamente del bene e del male in particolare, con giudizi di contenuto utilitario, economico, giuridico, politico, morale, e relativizziamo anche fra loro questi valori.

Essi però non hanno ancora che un fondamento soggettivo. La posizione etica non è che il primo momento, il primo atto del dramma dell'umano pensiero: è l'affermazione dell'io come soggetto volontario, come praticità che, in quanto diventa pensiero e conoscenza, non è conoscenza reale, ma consapevolezza di un'esigenza ideale, che condiziona il giudizio di valore a un principio trascendentale. Ma dallo stesso antinomismo pratico fra il volere e l'esistere, fra il dovere e il fare, e tra la-forma pura (il principio) e i contenuti empirici del divenire, sorge la posizione teoretica, condizionata da questi. Il fine cerca i suoi mezzi, il dovere si deve attuare secondo che può. Il pensiero, se è un volere, non vuol soltanto giudicare e negare, vuol anche fare e affermare: attuare i fini. Il prammatismo e il volontarismo in genere han dunque ragione quando dicono che il pensiero teoretico è un modo e mezzo del pensiero pratico; ma la conoscenza si fa reale, non per un arbitrio del volere nè per un particolare interesse; al contrario, il volere non si attua, il dovere non può essere, che teoreticamente. Il valore deve valere realmente, universalmente.

Allora (secondo momento) il pensiero – e si dica pure il soggetto come volere – afferma e definisce l'oggetto, il non io. La forma pura, esprimente la pura trascendentalità, diviene (e si limita come) a priori teoretico, categoria (per es. la libertà diviene causalità): vale a dire ch'è forma per i contenuti dell'esperienza, «ragione» di questi. Infatti, l'essere reale noi lo conosciamo come un dover essere (sostanza e causa) di ciò ch'esiste (sensibilmente). Nell'analisi kantiana dell'intelletto, la conoscenza è certa come reale quando è sintesi formale dei contenuti intuitivi: ciechi questi senza la forma (nè veri nè falsi), ma vuota la forma (irreale) senza di quelli.

Proprio perchè quella kantiana è analisi della coscienza comune e della scienza, i contenuti son presi come già dati (esistenti) con qualità (sensibili) indipendenti così dal soggetto in genere (come volere), come dal pensiero in ispecie (dalle forme intelligibili); «noi» regoleremo questi contenuti nelle forme spaziotemporali e li spiegheremo nelle unificazioni concettuali, senza poter aggiungere o toglier nulla alle qualità che sono così come esistono. La conoscenza, il pensiero, si fa conoscenza teoretica e scienza (l'idea pura si fa concetto) in quanto prende contenuti empirici, di cui rimane forma unificatrice a priori.

Qui bisogna camminare con estrema prudenza, e non anteporre la soluzione metafisica del problema a quella gnoseologica, che, secondo il Kant, deve precedere, dovendo dirci se i giudizi metafisici sono «possibili» come giudizi reali. Ora, dalla critica gnoseologica kantiana non si deduce ancora che il pensiero crei, produca il suo oggetto – o che il soggetto divenga quell'oggetto –: nel qual caso il soggetto perderebbe la sua trascendentalità, e quindi anche l'oggetto perderebbe la sua vera realtà, e ambedue si ridurrebbero all'esistere come si esiste, senza valore. Altro è dire che il pensiero è sintesi formale dei contenuti dati – che conoscere significa porre dei rapporti fra i contenuti esistenti – conclusione kantiana della critica del conoscere; e altro è dire che il pensiero è sintesi di forma e contenuto, unità essenziale dei due, problema metafisico che per il Kant è insolubile teoreticamente: allora sì tratterebbe del terzo momento del pensiero, la riflessione, mentre dobbiamo ancora concludere sul secondo, della conoscenza reale, per determinare che cos'è un oggetto reale per la coscienza.

È un concetto (per es. «calamita» o «attrazione»); ossia un'idea condizionata dai contenuti sensibili, unificati secondo le categorie o funzioni formali del pensiero che ce li rendono intelligibili. Un concetto è dunque una costruzione del pensiero, ma non una «creazione», dovendo, per valere realmente, convenire ai contenuti fra i quali viene «scoperto» il rapporto. Un giudizio sintetico a priori (per es. «Ogni accadimento ha la sua causa») è, sì, un'invenzione formale, di valore universale in quanto è una «legge» – e in tal senso, in fondo, è pratica («Ogni accadimentodeve avere una causa») – ma la realtà di una tal conoscenza teoretica sta nelle deducibilità dei particolari giudizi su soggetti esistenti ai quali essa fa da predicato, il che dipende dal processo induttivo che l'ha condizionata.

S'intende che il pensiero può lavorare, per così dire, a vuoto: sia perchè la conoscenza teoretica diviene fine a sè stessa – è teoretica in quanto disinteressata e in tal senso obiettiva –, e si può pensare per pensare (fare un giuoco di pensiero), come accade nelle parti puramente formali delle scienze (per es. in matematica); sia perchè si spera di raggiungere un vero più universale, come in metafisica, volando oltre la resistenza dei contenuti dell'esperienza. In questi casi, il pensiero prende a contenuto concetti già formati e ne deduce dei nuovi per via puramente e astrattamente logica, ma senza prova; però, così facendo, ritorna pensiero formale essenzialmente pratico, sebbene guardato teoreticamente. Per es., se ogni accadimento ha la sua causa, è pensabile una causa prima (libera) di tutta la serie; ma quest'idea non è più un concetto reale, pur rimanendo formalmente teoretica: infatti io non la «posso» formulare che in un giudizio apodittico («Ci dev'essere una causa libera!»), ch'è un giudizio teoretico della ragion pratica ma di valore pratico; oppure in un giudizio ipotetico («Se la libertà è pensabile, essa può esistere in un mondo noumenico, vale a dire ch'è reale come noumeno»), che è la soluzione critica: conoscenza riflessa e non più diretta del reale.

7. – Soltanto in questi limiti e condizioni è possibile la scienza come conoscenza reale, che approfondisce e perfeziona la conoscenza empirica e il «senso comune», di cui è la forma metodica e disinteressata. Metodo significa consapevolezza e controllo dell'operazione stessa conoscitiva, che diviene una tecnica volontaria (ossia una pratica della teoretica); il disinteresse ne fa parte in quanto si elimina la soggettività dei fini particolari e, almeno temporaneamente, si sospende la spinta pratica del nostro volere. In altri termini, il conoscere teoretico costruisce l'oggettività del reale (il valore di realtà) ma non le esistenze che lo condizionano; è contemplazione, pensiero «riflettente», e quindi pensiero dell'oggetto, ma non ancora pensiero che sia o divenga il suo oggetto.

Il sapere scientifico si costruisce dunque fra quei due presupposti antinomici, l'a priori della ragione (il valore) e l’a posteriori dei sensibili (l'esistenza), che non spetta ad esso unificare: per la scienza son due condizioni generali del sapere, e cioè due esigenze soggettive e, oggettivamente, due dati dogmatici, ai quali corrispondono i due atteggiamenti della ricerca, parimenti orientata verso l'osservazione e l'esperimento nelle parti descrittive e analitiche, come verso la ipotesi e la legge nelle parti razionali o matematiche. Di qui le opposte critiche alla scienza. Il contingentismo l'accusa di intellettualismo e nega realtà al concetto scientifico, che gli sembra una semplice ipotesi di comodo; l'idealismo le rimprovera il suo empirismo e il suo astratto realismo. Tutti poi sono scontenti – gli scienziati per i primi – dei ristrettissimi limiti d'estensione dei concetti scientifici, e sono insoddisfatti di una conoscenza che non può nè sa conoscere e ridurre a nozione esatta proprio quello che più ci sta a cuore, ossia il mondo dello spirito, i valori morali, il soggetto (il che è come dire, che non sa ridurre il soggetto a un reale oggetto!).

Nondimeno il metodo galileiano è l'unico modo di conoscere oggettivamente gli oggetti percepiti: di costruire un valore in sè delle esistenze. «In sè» non vuol dire «fuori di me» che per il realismo filosofico; per il relativismo scientifico, basta che significhi «universalmente», ossia, subiettivamente, per tutti gli esseri razionali, e obiettivamente per tutte le possibili esperienze. Su l'analisi di questo pezzetto di ferro che si sposta verso la calamita – e cioè, infine, su l'analisi dei sensibili già spontaneamente obbiettivati nella percezione – formare dei concetti con parole e simboli che possono rappresentare in astratto l'universalità del rapporto, la sua razionalità (la sua trascendentalità) e nel contempo la sua convenienza e applicabilità alle esistenze empiriche.

Questa è la scienza, sempre relativa perchè sempre limitata nell'accordo fra il soggetto come pensiero e l'oggetto come esperienza – laddove il pensiero puro pratico è assoluto perchè in antinomismo pratico con l'esperienza –; e vie più specializzata e particolarizzata secondo i molteplici rapporti che l'analisi le suggerisce, data la molteplicità delle qualità sensibili o immaginabili per analogia. Ma, pur fra tali condizioni di relatività, la scienza è illimitata, perchè può sempre scoprire nuove note di comprensione de' suoi concetti e nuovi oggetti a cui estenderli. Non ci stupiremo ch'essa ancor si trovi alla sua infanzia se ricordiamo che cosa sia la storia del sapere scientifico e della ricerca obbiettiva. La maggior parte delle stirpi umane preferirono vivere la vita del sentimento contentandosi di conoscenze mitiche, ossia di tipo pratico, e di restar passivi di fronte alla natura, a cui antepongono il sovrannaturale. A parte la breve parentesi del pensiero cosmologico greco, bisogna venire all'utilitarismo dei popoli occidentali dell'epoca moderna per trovare il terreno adatto, nella specializzazione del lavoro, alla ricerca obbiettiva e disinteressata.

L'apparente paradosso si spiega facilmente. L'utilitarismo è un edonismo, ma è un edonismo razionale, che ha appreso a servirsi della conoscenza teoretica per meglio attuare i fini soggettivi. L'utilitarismo appartiene al razionalismo perchè è la risoluzione teoretica dell'antinomia pratica: il volere è potere a traverso il sapere. Perciò lo spirito realizzatore dei popoli europei promulgò fin dal nostro Rinascimento quel «Sàpere aude», quel coraggio della verità, ch'è la volontà di sapere per fare (ma anche per amare)...

Allora Dio e la Ragione diventan natura e conoscenza reale. La «natura» però è un concetto in continuo sviluppo; esso oggi non implica più un sostanzialismo nè materialista nè spiritualista, e combatterlo in ciò è un combattere una scienza, o meglio una filosofia oltrepassata, chè la scienza, come dicemmo, segue la filosofia del proprio tempo. Le stesse categorie di sostanza e causa, funzioni necessarie in quanto spontanee nella percezione comune, e ancor utili alla scienza odierna nelle unificazioni fenomeniche particolari più concrete, son oggi intese come pure forme logiche, il fondamento delle quali si lascia alla filosofia, com'è suo còmpito, di ricercare. Ciò è ben visibile in tutt'e due le direzioni del pensiero scientifico, sia che si guardi verso l'esperienza, sia che si guardi verso la ragione e l'esplicazione di quella.

Si capisce che una scienza «concreta», come la geologia o l'astronomia, dovendo studiare un oggetto o gruppo di oggetti in tutte le loro proprietà, deve dare a questi attributi un sostantivo comune («terra», «astri»); e deve intendere le cause che determinano il divenire di questi oggetti come cause «genetiche», come il prodotto della «cosa». Ma le proprietà di un particolare oggetto vengono poi ridotte a proprietà fondamentali comuni, come materia ed energia fisica, affinità chimica, vita ecc., studiate dalle scienze fondamentali in astratto; e le leggi particolari vengon dedotte da quelle generali (per es. l'astronomia dedurrà i suoi principii da quelli della meccanica e della fisico chimica). Ora, queste scienze fondamentali, che il Comte chiamava «astratte» e lo Spencer «astratto concrete» (meccanica, fisica, chimica, biologia, psicologia), non soltanto considerate ciascuna per sè come un corpo scientifico formato di tante parti, da quelle descrittive e analitiche a quelle generali e sintetiche, ma considerate anche nella lor serie di complessità crescente e generalità decrescente, s'incatenano e formano un sistema, che in un senso rinvia dal concreto all'astratto, dal complesso al semplice, dalle cose alle cause e da queste alle ragioni ultime e più generali di tutti i fenomeni; e per l'altro verso ritorna alla qualificazione dei fatti, dal necessario e universale al contingente e particolare. Questa sistemazione e coordinazione è in continuo incremento, sebbene non tutti gli anelli della catena siano oggi saldati (per es. la chimica s'è già unificata alla fisica, ma la biologia non riesce ancora a dedurre i suoi principii da quelli fisico-chimici).

8. – Ebbene: considerando il sapere scientifico, non nelle sue specializzazioni tecniche, ma nella sua unità filosofica: si può scorger molto bene come il valore di realtà venga affannosamente e progressivamente cercato nelle stesse direzioni in cui lo pone l'odierna filosofia, che per la scienza divengon soltanto due concetti limite, due condizioni del sapere ch'essa obbiettiva in quanto controlla nelle esistenze per realizzare le forme logiche nei contenuti.

Infatti, nel senso della causalizzazione e spiegazione razionale dei fenomeni, la scienza risolve o tende a risolvere tutte le sostanze in cause, e queste in rapporti costanti del variabile divenire, riducendo l'essere della natura (l'essere reale) a rapporti spazio temporali, ossia a movimenti – sogno di tutta la scienza da Democrito ai nostri giorni –, cosicchè, nelle scienze e nelle parti loro più costruttive e matematiche, la causalità è retta dai soli principii logici d'identità e contraddizione. Per questo verso, ogni scienza o parte delle scienze più concreta e sperimentale rinvia alla unificazione di quelle astratte e razionali; nè si considera più come assolutamente insuperabile il limite segnato dalla presenza d'una proprietà che ci sembri nuova perchè ancora indeducibile da altre già note.

Ma nel senso opposto, ogni accadimento apparisce «nuovo» in concreto, e la contingenza d'un fatto o l'individualità d'un oggetto si presentano ogni volta con caratteri specifici o individuali indeducibili anche dalle loro cause. Non soltanto, per es., la vita è irreducibile all'affinità chimica, benchè prodotto di fatti chimici; ma (vecchio esempio!) la ruggine è irreducibile al ferro e all'ossigeno che l'hanno prodotta, avendo peculiari proprietà che non son quelle del ferro e dell'ossigeno; e ogni cosa, poi, come quella cosa, ogni accadimento come quell'accadimento è originale e quindi indipendente dalle sue cause e condizioni – irriducibile all'identico del «tutto e uno» –, in quanto esiste contingentemente con le proprie note di distinzione! Per questo verso, la corrente del pensiero oggettivo rifluisce verso l'esperienza, che vuol definire per sè stessa o adoperare in atto, e tanto più, quanto più ciò che interessa sapere e fare riguarda la singolarità del divenire (come nei fatti umani) e non la sua unificazione nell'essere. Così dall'astrazione e generalizzazione si ridiscende di continuo, sia verso le scienze tassinomiche e storiche, che attuano conoscitivamente i principii nella definizione degli oggetti e dei fatti, cioè nella conoscenza in particolare; sia verso le scienze applicate, che li attuano praticamente adattandoli alle circostanze.

È fuor di posto chiedere alla scienza se sian più reali le leggi dell'elettrodinamica, o la teoria quantica (più contingentista), o la singolarità di questo pezzetto di ferro. Bisogna chiederlo al filosofo. Per la scienza, il valore di realtà è la convenienza delle due condizioni limite, l'unità nell'identità a cui aspira la nostra ragione come ragion pura teoretica (l'«appercezione trascendentale» di Kant), e l'esistenza del fenomeno come già data nella molteplicità empirica. Ma se lo scienziato intendesse invece come reale l'idea trascendentale per sè (platonicamente), o il contenuto dell'esperienza (empiristicamente), allora davvero la scienza sarebbe senza progresso – che cosa più si dovrebbe cercare? –, ed anche senza praticità. Infatti nel primo caso avremmo un ascetismo teoretico a cui non può corrispondere che una pratica mistica; nel secondo, un cinismo teoretico a cui non può corrisponder che una pratica cirenaica (se tutto è così come esiste e l'intelletto non è che astrattezza convenzionale, non resta che vivere come si vive, non essendovi altro valore che la sua attualità sensibile, il piacere).

La critica della conoscenza teoretica e della scienza introduce alla metafisica, terzo momento del pensiero che vuol superare i suoi limiti conoscitivi per ritornare assoluto; ma nel tempo stesso gl'impedisce ormai di farlo nella direzione del soggetto puro – della posizione puro pratica – attribuendo a un'idea morale le categorie della realtà che abbiamo appreso esser valide in rapporto all'esperienza. Perciò vi si dovrebbe giungere teoreticamente, sulla stessa via dell'esperienza come conoscenza reale, cercando di afferrare l'assoluta realtà per mezzo d'un'idea che senza antinomia unificasse le due condizioni limite della conoscenza reale, l'a priori razionale rappresentato dalla pura forma, e l'a posteriori dei contenuti per i quali il valore – la finalità e il dover essere soggettivo – diviene concetto reale, essere oggettivo delle esistenze che ce ne rappresentan la realtà. Non si tratta più, ripeto, d'una sintesi formale dei contenuti, come nella conoscenza diretta e nella scienza: si tratta della sintesi metafisica di forma e contenuti, di valore ed esistenza e, infine, di soggetto e oggetto.

Però (si noti bene!), affinchè questa sintesi sia reale – affinchè l'idea metafisica rappresenti la realtà ut sic e non sia un ritorno a una posizione puramente soggettiva –, dev'essere cercata a parte rei, in accordo con l'esperienza, e non in antinomia con i contenuti sensibili; che altrimenti si finisce col dare un frego su tutta la critica della conoscenza, la quale ha definito il reale come concetto unificante i contenuti, ossia come lo concepisce la coscienza, per chiamar invece reale il soggetto puro, invertendo il segno a tutti i termini senz'altro risultato che il divorzio tra filosofia e senso comune.

Un'idea metafisica a parte rei, e quindi strettamente critica e teoretica, è invece la «cosa in sè» kantiana. Fu detta contraddittoria, perchè oggettiva e realistica in un mondo tutto costruito dal pensiero; e perchè causa in sè dei fenomeni in un mondo in cui la causalità riguarda i fenomeni e non l'in sè. Invero, essa è soltanto provvisoria: la «Estetica trascendentale», che introduce all'analisi della conoscenza, dopo di questa si deve risolvere nella sintesi estetica – nella sintesi di sensibile e intelligibile – nel senso accennato dal Kant nell'Introduzione alla «Critica del Giudizio». Ma procediàmo con ordine.

9. – Dapprima, per il criticismo, la «cosa in sè» è piuttosto un punto di partenza che un punto d'arrivo, perchè è l'idea metafisica presupposta da tutta la conoscenza in quanto teoretica e non un'idea costruita per sintesi dal pensiero filosofico. Questo si contenta di metterla in evidenza analiticamente allorchè critica una qualunque conoscenza «reale»; gli appare dunque come un postulato teoretico, allo stesso modo che, nel criticare il pensiero pratico, trova che la libertà n'è il postulato pratico che poi conosciamo come idea senza concetto (senza realtà se non analogica).

In altri termini, parlando della «cosa in sè», non si tratta di un'invenzione e di un valore prodotto dal pensiero, quali sono le idee metafisiche della precedente filosofia, teoreticamente «impossibili» appunto perchè non si può, per esempio, predicare degli oggetti reali quell'infinito e incondizionato che vale per i fini soggettivi nè si può predicare del valore spirituale quella «cosalità» che règola le conoscenze reali. La «cosa in sè» vien semplicemente scoperta dalla critica della conoscenza: in ogni pensiero reale, anzi in ogni percezione, anzi in ogni intuizione dei contenuti sensibili vi ha coscienza del soggetto come volere (e quindi valore) antinomico all'esistere, e vi ha nel contempo coscienza dell'oggetto come necessità (e quindi essere in sè) di quelle esistenze, che divengono il contenuto (lo stimolo e l'atto) del volere subiettivo, e perciò delle forme che le riducono a un qualche cosa per noi. Piuttosto che del «fuori di noi» si tratta, del «più di noi». Io non posso guardare quella casa senza implicare che esiste qualcosa in sè che per me è quella casa lì.

La filosofia ha poi rifiutato la metafisica della cosa in sè, dicendo che si tratta d'un «realismo ingenuo». Però, intanto, come filosofia critica deve convenire che quell'idea è presupposta in tutti i concetti reali che si relativizzano ai contenuti dell'esperienza. La critica del pensiero – il quale le apparisce come un'attività sui generis attuantesi in giudizi espliciti nelle forme pure d'idee e concetti espressi in parole e simboli (nel qual caso preferisce chiamarlo «ragione») – rinvia all'analisi della coscienza, cioè della conoscenza implicita in qualunque percezione e atto pratico. Per il criticismo, è la coscienza che deve giustificar la ragione e non viceversa. Allora, criticamente, la conoscenza certa come reale – per questo appunto noi la diremo «ipotetica», ossia men certa dell'apodittica certezza morale – non potrebbe trovar altra giustificazione del suo trascendere il sensibile, del suo unificare i contenuti in concetti razionali, del suo farsi scienza e metafisica, che nel bisogno di raggiungere in un'approssimazione (all'infinito!) quella «cosa in sè», ch'era il primo presupposto del primo conoscere e divien ora l'ultima mèta della conoscenza teoretica.

Solamente a questo punto la «cosa in sè», scoperta dalla critica della conoscenza come un postulato della conoscenza teoretica – ormai identificabile con la condizione limite a parte rei o esistenza dei contenuti –, potrebbe diventare l'idea metafisica d'un realismo filosofico, ossia la conclusione teoretica del criticismo (come avvenne nel positivismo). Il Kant, come si sa, fu assai titubante a tal proposito. Però, le conclusioni metafisiche del criticismo secondo lo spirito kantiano sono coerenti alla sua posizione essenzialmente pratica, chè da tutte le parti ormai le condizioni e quindi i fondamenti del valore di realtà come della realtà dei valori sono ideali, sono postulati puro pratici enunciabili come regole e leggi del volere e del conoscere. Essi rinviano quindi l'unificazione reale e l'unità stessa di soggetto e oggetto a un mondo noumenico teoreticamente inconoscibile. Proprio perchè ci dev'essere unità di soggetto e oggetto, noi siamo spinti a unificare l'esperienza in particolari leggi dirette dall'«appercezione trascendentale» verso una unità reale in sè.

Pertanto non è affatto contraddittorio che il Kant abbia concluso esser la «cosa in sè» un «inconoscibile», anzi la «causa» inconoscibile (dell'intelligibilità) dei fenomeni. La «cosa in sè», per la filosofia, non è, ripeto, che un postulato trascendentale – come a dire la ragion pura della teoretica –; è il principio di oggettività (non un oggetto) che troviamo nella coscienza e ritroviamo poi nell'intelletto come a priori; causalità dei fenomeni, appunto: «ragione». In questa ragione ci dev'essere, non soltanto l'unità oggettiva, l'unità del molteplice fenomenico nella realtà teoretica (l'unità dei modi, secondo Spinoza, nella sostanza e quindi il principio della loro determinazione); ma anche l'unità dei valori, come fini soggettivi, col loro esistere e col loro attuarsi oggettivo (l'unità degli attributi, l'unità di coscienza e cosa).

Ma per sapere se e come ciò possa avvenire, non possiamo che rivolgerci all'esperienza in quell'approssimazione concettuale, che sarà sempre parziale e provvisoria, pur non essendo falsa e illusoria. Mentre il razionalismo prima di Kant fu una continua ascesa dall'esperienza alla ragione, una volta che questa è apparsa un principio deontologico ma teoreticamente inconoscibile, non c'era che rinunciare a conoscer la «cosa in sè», il perchè dei fenomeni, e ridiscender dalla ragione all'esperienza, contentandosi di determinarne il come, la relazione. È una rinuncia alla metafisica per un'approssimazione soggettiva ma relativa al principio di oggettività, già implicito nel realismo scientifico.

Sotto questo aspetto, il positivismo della scienza è il più fedele interprete del Kant teoretico. Soltanto chi non la conosce può asserire ch'essa sia ritornata a un sostanzialismo materialista o a un causalismo determinista, oggi che perfino la fisica non è che la determinazione relativistica di una semplice probabilità! Piuttosto: avendo la scienza, come s'è detto, i suoi limiti, ch'essa rispetta; ma avendo il pensiero, kantianamente parlando, tutti i diritti, ossia la libertà, di varcarli in una conoscenza, sebbene non più teoretica; quale sarà la nuova metafisica, la metafisica che prolunga il fenomenismo scientifico? Oggi la troveremo al polo opposto all'antico razionalismo naturalista di Galilei, Newton e Cartesio: è la filosofia della contingenza.

Se la domanda «Perchè» è mal posta, non essendovi un perchè conoscibile come sostanza e causa assoluta fuori dei fenomeni, ma solamente un quia, una categoria o a priori teoretico riguardante il divenire fenomenico, alla nuova metafisica non resta che adeguare la ragione al fenomeno, l'universalità e necessità del valore alla singolarità e originalità delle esistenze. E siccome la conoscenza intellettiva e la scienza non riusciran mai a non trascendere il fenomeno – a relativizzarsi alle esistenze (come storia) senza relativizzarle al valore razionale (come teoria) –, ecco che il contingentismo, criticata la scienza col prammatismo; diviene intuizionista per tuffarsi nella «corrente della vita» e per sorprenderne lo «slancio» originale onde sorge il fenomeno come quel dato fenomeno. Però, com'era prevedibile, questo non è più fenomeno d'alcun noumeno, salvo la mistica affermazione d'un Essere consustanziale con la vita: il fenomeno non è più che l'attuale esistenza d'un «io» irrazionale che si sente vivere. È la metafisica dell'«ecceità», lo sbocco storico del nominalismo contemporaneo.

10. – Già vedemmo infatti come l'identica esigenza abbia trascinato anche il criticismo idealista verso un analogo attualismo; e qui come là, l'attualità è quella del soggetto. Dal naturalismo scientifico si ritorna a uno spiritualismo in re; dall'essere reale al divenire dello Spirito.

Perchè il criticismo idealista respinge con disprezzo il realismo della «cosa in sè»? Perchè non la può giustificare criticamente in un sistema divenuto tutto relativista. Il mondo è il mondo della nostra conoscenza; la oggettività dell'oggetto è dunque soggettiva, psicologica (sentimentale, io direi): il pensiero ingenuo pone come «non io», perchè lo crede in sè, quell'oggetto ch'egli medesimo costruisce; ma, criticamente, esso è una conoscenza, un'idea; e la «cosa in sè», l'idea di un'idea. Il mondo è il mondo delle idee, non più assolute e trascendenti (se non in quanto ce ne furono storicamente di tali), ma relativizzate l'una all'altra nella forma dialettica, ch'è logica del pensiero e non delle cose in sè; e, come valori spirituali, immanenti in quel divenire attuale, ch'è il divenire e l'attuarsi del pensiero: la sola realtà di cui si possa parlare.

Sembra che questo ragionamento non contraddica il kantismo, dal momento che per il Kant la «cosa in sè» è noumenica e dunque è un pensiero; ma soltanto lo renda coerente. Una volta negata la possibilità d'affermare teoreticamente la realtà del trascendente dalla parte delle forme razionali, perchè richiamarlo dalla parte dei contenuti, come esistenza d'una lor causa, in sè, da noi ignorata? Per giustificare le forme stesse della conoscenza? Ma in tal caso, ritorniamo all'«armonia prestabilita»! Il pensiero contemporaneo preferisce ritornare, se mai, alla posizione humiana: che sarebbe una posizione soggettivista e scettica, se alla realtà in sè della cosa non si sostituisse, quasi di soppiatto, la realtà dello spirito.

Infatti, già nel precriticismo inglese, dopo i vani tentativi del Locke, che ancor intendeva la «cosa in sè» come il coesistere di qualità prime comuni all'oggetto in sè e alla sensazione nostra; e del Berkeley, che riferiva a Dio l'essenza delle percezioni in quanto esse, pur formando tutto il nostro mondo, non dipendon dal nostro volere; con lo Hume l'impresa era apparsa disperata. Dove tutta la conoscenza è relativa e soggettiva, impossibile ammettere una realtà dell'oggetto. L'oggetto è un'illusione; ed in suo luogo non resta che chi s'illude, il soggetto...

Qui comincia l'istoria del soggetto puro, dello spirito reale che prende il posto dell'oggetto in sè. La filosofia critica dopo Kant introdurrà a una metafisica dello Spirito, sia questo un'assoluta realtà morale a cui il pensiero rinvia di continuo e da ogni parte ne riconduce, qual'è l'Io puro di Fichte; o sia invece lo stesso Logos, il Pensiero come soggetto unico di tutti quegli oggetti, che criticamente appariscon come idee e teoreticamente come divenire storico.

L'hegelismo, dapprima muta l'oggettività in pensiero: tutto ciò ch'è reale, è idea (e quindi ragione); poi, realizza il pensiero ne' suoi oggetti, i quali più non sarebbero che i suoi prodotti, o meglio atti: tutto ciò ch'è razionale, è reale. Il primo passaggio è ancora criticista, ma il secondo è metafisico in direzione che sembra perfettamente opposta a quella della «cosa in sè». Prima di accettare Hegel bisogna conciliarlo col criticismo, se ci riesce.

Intanto, nel confronto, ci troviamo davanti a un bel paradosso! Se noi prendiamo il real divenire delle idee nel senso hegeliano, e cioè teoreticamente, sembra che se ne debban escludere, proprio, tutte quante le «idee» nel senso kantiano, le idee pure, di cui non rimarrebbe che il fil di ferro che le regge, il pensiero come attività psicologica e accadimento storico nel tempo. Per esempio, un'idea morale – sia questa un postulato o un imperativo, come la libertà o il dovere; oppur sia magari la rappresentazione corrispondente di un dover essere, come il Bene, la Giustizia ecc. – non è certo una conoscenza reale, ma un valore ideale; perciò non si attua nel tempo e nel divenire storico che come quel particolare atto del pensiero. Allora, dell'idea pura e universale, che diremo noi? che il valore di un'idea pura è reale perchè c'è realmente quell'idea? In tal caso, tutti gli universalia sono reali; e se no, son reali soltanto le parole, flatus vocis perduti nel tempo...

Il Kant poteva parlare di «realtà morale», che avrebbe per soggetto la «persona morale» e per oggetto il «mondo morale». Questi vocaboli, che usiamo parallelamente per il soggetto e l'oggetto conoscibile (ossia sensibile), vengono presi analogicamente – tutto il linguaggio soggettivo è analogico – per dare un sostrato a dei predicati morali, i quali però, non essendo mai analitici ma sempre sintetici, non presuppongono alcuna loro esistenza in quel soggetto od oggetto. Fin che restiamo col Kant in una posizione pratica, non c'è pericolo di confonder la «realtà» morale con quella teoretica, che sono perfettamente antinomiche. La posizione pratica è affermazione volontaria del dover essere, non dimostrazione dell'essere: crolli il mondo (reale), fa' il tuo dovere! (anche se tu sei un pugno di cenere di fronte al Valore assoluto). Ma, una volta abbandonata la posizione antinomica e pratica, come dimostrammo assurdo e impossibile prendere quel soggetto morale, ch'è volontà e finalità, come un oggetto o essere reale, così sarebbe assurdo e impossibile andar cercando la libertà o il Bene per le strade come un fatto o una cosa.

Nel panlogismo hegeliano, la «realtà morale» kantiana non può esser più che l'idea del signor Emmanuele Kant in quel tempo e luogo; anzi, la mia attuale idea di quell'idea. E non manca un certo atteggiamento sardonico dello Hegel riguardo a tali idee pure: anche eticamente, a che servono le idee morali? a tenersele in saccoccia? Di solito, la cosiddetta «coscienza morale» giunge a cose fatte e segue la storia; ciò che conta è il fare, l'esser moralmente (il volere) ciò che si è realmente. Il divenire è il divenire reale, e i valori sono i valori esistenti storicamente, quelli che si fanno, e non soltanto si pensano.

11. – Resterebbe allora che intendessimo come real divenire delle idee, soltanto il prodursi di quelle idee «reali», che eran le idee teoretiche kantiane, i concetti. Ma anche qui ci accorgiamo subito d'esser fuori strada: o mutiamo il significato del vocabolo «idea» prendendolo come contenuto del concetto, o eliminiamo dal criterio di realtà proprio le... idee, il pensiero in quanto formativo, le costruzioni teoretiche in quanto sintetiche a priori e, insomma, il trascendentale kantiano, per adeguarci alle esistenze storiche di fatto. Non solamente dovremo negar valore reale a quelle costruzioni ottenute per sintesi di pensiero, che sono le generalizzazioni, le induzioni e la parte razionale delle scienze – l'hegelismo le tratta da pseudo concetti, e rispetto al vero reale (storico) la scienza non gli par meno vana della moralità aprioristica –; ma anche la «sostanza» e la «causa», e tutte le idee pure del pensiero teoretico, in che modo le potremo considerare ancora «reali»?

Unicamente al modo stesso di Kant; chè altrimenti le categorie sarebber dei reali in sè, metafisicamente. Ma noi sappiamo che la sostanza e la causa non sono reali in sè, perchè si tratta di principii formali per conoscere il reale e non di questo reale; esse sono categorie riducibili a idee pure che otteniamo per sintesi tutta a priori. E, si badi bene, le idee pure non son realtà nemmeno «in noi», dove non troveremo mai la sostanza e la causa come reali esistenze: troveremo sempre, psicologicamente, una particolare attività sensibile, un contenuto, e per conoscerlo dovremo ricorrere ai detti principii di sostanza e causa con cui definire le relazioni obbiettive di quell'attività con gli altri oggetti. In breve: il valore delle categorie conoscitive è a priori, trascendentale; il pensiero, anche come pensare teoretico, in quanto è valore puro, è formale, ossia normativo ma non costitutivo dell'oggetto reale. Non si può identificare con questo.

Non potendo ammettere una realtà in sè del valore (se non che come pensiero formale), resta che il valore sia immanente, e cioè che valga «nelle» esistenze. Qui (e non prima) è il punto di passaggio dal kantismo all'hegelismo, nodo di tutte le nostre controversie, bivio della filosofia con fanale rosso ancor acceso. Rallentare! e, intanto, corregger subito quel locativo appiccicato all'immanentismo come un indirizzo sbagliato. Dire che un valore, per sè trascendentale, è immanente «in» un'esistenza contingente, sarebbe come ripeter ancora, per esempio, che l'anima è «dentro» il corpo, dopo aver compreso che l'anima non è una cosa, ma volere e finalità di quella cosa, ch'essa medesima conosce come corpo. Sarebbe un non senso in Kant come in Hegel.

La differenza fra loro è piuttosto questa: presso il Kant, il valore (noumenico) vale per le esistenze; diviene pensiero «reale» in quanto si applica ai contenuti fenomenici. Perciò il pensiero, anche se teoretico, giudica ma non crea l'oggetto reale; questo si costituisce come concetto in quanto i fenomeni vi si accordano, vi trovano il «loro» principio di unificazione. Ecco perchè «ci dev'essere» una causa in sè del fenomeno, un reale assoluto, in metafisico accordo con il fondamento trascendentale del nostro pensiero verace. Allora, l'immanenza d'un valore sarebbe l’incontro, nel tempo e nello spazio fenomenico, di un Io trascendentale con un Non-io ugualmente noumenico?

Per lo Hegel invece i valori valgono in quanto reali, e sono reali in quanto valori del divenire fenomenico, che dunque non è più fenomeno d'alcun sottoposto o sovrapposto noumeno. Coraggioso passaggio, da un criticismo trascendentale, deontologico (romantico) e, infine, pratico (anche del teoretico), a un immanentismo tutto teoretico (anche se animato da un profondo spiritualismo), il quale vuol realizzare la Ragione nel divenire dei contingenti. Per la prima volta, il nominalismo eracliteo, che per secoli aveva sostenuto soltanto la parte ereticale di fronte alla ortodossia realista, incrociatosi con essa a traverso Kant, sàle al di sopra e in primo piano trascinando la filosofia a un idealismo in perfetta antitesi con quello che vi aveva trionfato fin che gli uomini le chiesero sol la ragione per credere e il conforto a sperare. Perciò, anche all'interno della filosofia hegeliana, il punto per noi più importante è il passaggio dallo spirito soggettivo a quello oggettivo: dal primo al secondo momento della sua stessa dialettica.

Infatti la prima posizione hegeliana è soggettivista e relativista: tutto ciò ch'è reale è razionale. Qui non si fa che applicar il criticismo kantiano allo stesso Kant: se il reale è conoscenza (idea), non c'è più alcun reale assoluto, e la realtà è il farsi delle idee nelle lor reciproche relazioni, dove non soltanto l'assoluto sta per il relativo e lo implica, e così la causa per l'effetto ecc., ma anche l'oggetto è per il soggetto, e il Valore (il dover essere) per il pensiero che lo pone. Sotto tale aspetto logico, un fenomeno kantiano è già un'idea, e il noumeno è ancora un'idea sviluppatasi storicamente in opposizione dialettica alla prima e con essa mediata: ecco il posto delle idee kantiane nel sistema hegeliano.

Ma la seconda proposizione hegeliana – tutto ciò ch'è razionale, è reale! – non è una semplice conversione della precedente: è una nuova posizione, quella dell'immanentismo, in senso inverso alla posizione trascendentale; l'attualismo assoluto del Gentile ne sarà il più vigoroso e coerente sviluppo. I valori, che le idee kantiane postulano e rappresentano in forme pure – li chiameremo ancora lo Spirito e l'Io puro per negazione della negazione, ossia per non adeguarli a un particolare oggetto o soggetto, ma, in sè, non son altro che degli inconoscibili alogici e quindi inesistenti –, si determinano realmente, ossia teoreticamente, come atti del pensiero, che non rimane più in un mondo noumenico, ma diviene concreto oggetto, mondo attuale, un esistere come un fare, teoreticità e praticità insieme. Il pensiero è reale perchè si attua, oggettivandosi, facendosi idea teoretica, cosa: non la «cosa» astratta e per sè stante, immobile e identica a sè, ma la sua attualità storica e di fatto. Lo Spirito si realizza ne' suoi «oggetti», come l'anima (o spirito individuale) si realizza nel corpo; come la filosofia (o pensiero puro) si fa scienza concreta nella storia.

Ma come giustificare il passaggio dal primo al secondo momento della filosofia hegeliana, dalla sintesi criticista nel soggetto formale (nell'idea) alla sintesi metafisica nelle esistenze reali (nei contenuti) e, in ultima analisi, nei sensibili? Se non vogliamo interpretare l'hegelismo miticamente, quasi un neo platonismo per cui lo Spirito si attui oscurandosi e autolimitandosi nei contingenti (da lui stesso «creati» o almeno «posti»), per risalire, in perenne ciclo, verso la propria luminosa libertà assoluta il che riconduce la destra hegeliana a un trascendentalismo, dove lo Spirito, come dissi, prende il posto della «cosa in sè» è soltanto nella critica del valore estetico, ossia d'un valore immanente alla sensazione come tale, che si può cercare la prova esistenziale della spiritualità dei contenuti stessi, prima che essi divengano contenuti d'idee logiche ed etiche che li trascendono: la prova cioè che il valore esista e si attui in una reale unità di forma e contenuto.

12. – L'importanza e la portata metafisica di una critica dei valori sensibili, che cerchi il fondamento dei «giudizi sensibili puri», come il Kant chiama i giudizi estetici, e delle rispettive «idee sensibili» (o «rappresentazioni dell'immaginazione»), affiora già in Kant e introduce a quell'estetica filosofica che nella filosofia contemporanea acquista un così grande sviluppo, accanto a quello dell'epistemologia e della critica della scienza, insieme con le quali ne costituisce anche l'aspetto più originale.

Il filosofo di Koenisberg, che nell'«Estetica trascendentale», dovendo cercare il fondamento della conoscenza, tratta i sensibili come dei meri dati fenomenici, che non hanno in sè alcun valore obbiettivo, ma sono unicamente i contenuti intuitivi di forme a priori che li trascendono per unificarli nelle rappresentazioni di oggetti; nella «Critica del Giudizio» riconosce invece, che i sensibili stessi – prima di divenir «materia» di forme conoscitive (concetti di natura), ed oltre ad essere «stimoli» di sentimenti gradevoli o sgradevoli, e quindi mezzi per rappresentarci i fini e interessi teoretici e pratici – già posseggono un proprio valore e si presentano in una propria forma, detta «immagine» (attuale o riprodotta, o anche creata dall'arte), che può esser piacevole per sè stessa, disinteressatamente, ossia indipendentemente dai valori e dai fini logici e pratici. Allora, il giudizio su questo accordo fra l'immagine sensibile e il sentimento che le è immanente, prescindendo da ogni cosciente finalità che l'oltrepassi, è un giudizio estetico, che dunque si fonda sul solo sentimento della forma sensibile (è soggettivo); ma ciò nondimeno è universale, in quanto afferma un valore, il bello, che tale deve essere per ogni persona «di gusto», ovvero capace di sensibilità estetica.

Adunque il «bello», trovato in natura o cercato nell'arte (quando a sua volta esso diviene un fine dell'attività umana), non è che il detto «accordo» tra la forma sensibile o immagine dell'oggetto – Kant intende dire, quella «forma» che diviene un oggetto quando divien «contenuto» dei concetti di natura – e il sentimento ch'essa forma contiene, che diverrà soggetto, finalità determinante le forme trascendentali del pensiero, quando la sensazione non ne sarà più che un contenuto e uno stimolo empirico. Nel valore estetico (il bello), e nell'attività artistica che vi corrisponde (l'immaginazione, «facoltà» media fra l'intuizione sensibile e l'intelletto, come il sentimento sta in mezzo fra il conoscere e il volere), si sente (come piacere disinteressato), benchè non si possa obbiettivamente (razionalmente) dimostrare e rimanga pertanto «inesplicabile», che v'è accordo, e quindi essenziale unità e identità, fra il mondo sensibile e l'intelligibile, fra ciò che concettualmente si costituisce come natura e ciò che razionalmente s'impone come finalità e dover essere. Perciò da una parte il giudizio estetico avvia il pensiero a riflettere sui sensibili per unificarli secondo fini e valori, che nulla, se non fosse quell'accordo, autorizzerebbe a cercare in essi; e dall'altra parte, la contemplazione della bellezza sensibile, e tanto più la commozione del sublime (che traduce in piacere estetico lo sgomento del dislivello fra l'intuire e il comprendere) preannunciano l'esistere nel mondo di quei valori etici e religiosi, che l'arte poi simboleggia nelle sue immagini poetiche.

Di qui ad intendere la bellezza e l'arte come rivelatrici dei valori assoluti, e anzi, poi, come assoluta e immediata realtà contrapposta alle artificiose e pratiche astrazioni dell'intelletto, non è lungo il passo, sebbene la vigilante prudenza del Kant se ne fosse cautamente astenuta. Già il romanticismo, da Schelling a Schopenhauer, da Schiller a Novalis e a Nietzche, si era gettato per questa via, quasi istintivamente cercando nell'estetico l'unità di soggetto e oggetto prima o dopo le opposizioni pratiche e le distinzioni teoretiche; ma del resto, tutto l'intuizionismo contemporaneo, fino al Bergson, al Baldwin, al Fawcett, al De Gaultier, che altro vuole, se non tentare di sostituire alla metafisica razionale e illuminista una metafisica estetica, che intenda l'assoluto come immediatezza dell'Essere, presente nell'intuizione estetica?

Ma per non perdere il filo del nostro discorso, ritorniamo all'hegelismo, che presenta il vantaggio d'una posizione rigorosamente teoretica, avversa a ogni irrazionalismo e quindi a ogni misticizzante pancalismo. Esso c'interessa particolarmente anche perchè vi si inserisce il maggiore dei nostri estetisti, B. Croce, la teoria del quale non ha punto bisogno d'esser qui riferita perchè ormai notissima e largamente applicata dalla critica artistica e filologica italiana, ma che sarà ogni momento sottintesa nella discussione del problema estetico, cui verran dedicati i capitoli seguenti.

In questo, invece, la dobbiamo saltare, in quanto il Croce tratta del valore estetico per distinzione dagli altri, ai quali lo ricongiunge sol come grado della conoscenza e momento del divenire dello Spirito; laddove si tratta qui di vedere se nel sensibile sia già data quell'unità reale, che la dialettica del pensiero smembra poi nelle opposizioni pratiche e nelle relazioni teoretiche di soggetto e oggetto. Infatti, come dicemmo, il problema estetico si presenta prima di tutto come un problema metafisico che si potrebbe enunciare così: se la critica della conoscenza ci ha dimostrato che una cosa è già un'idea, e che nell'idea il soggetto supera l'oggetto, il valore supera le esistenze e, infine, il pensiero supera la sensazione (Kant), spetterà alla estetica filosofica dimostrare la plausibilità dell'opposta posizione, che cioè il valore si attui nei sensibili, che il pensiero sia immanente ne' suoi contenuti e che, insomma, l'idea si manifesti in forme intuitive.

Invero, storicamente parlando, allo Hegel interessava meno che a tutti questa dimostrazione, perchè l'identità di razionale e reale è per lui un concetto filosofico (sintetico) che non ha alcun bisogno di una prova analitica, ottenuta con un ritorno alla tesi estetica, già superata e implicita, insieme con l'antitesi religiosa, nel momento della sintesi filosofica. L'autocoscienza gli dice che anche una sensazione è un atto del divenire dello spirito, e non gl'importerebbe di cercarvi un valore distinto, se non per definirlo come un momento soggettivo di ciò che in un secondo momento diverrà l'oggetto e il non io. Tuttavia, come si sa, la soluzione hegeliana si riaccosta ai romantici e allo Schiller: nel bello intuiamo l'identità assoluta d'idea e fenomeno, che filosoficamente non è che un'esigenza. Ma in che consiste poi questa «intuizione» dello spirito assoluto? Se fosse un atto reale (una conoscenza), sarebbe un'idea, una «rappresentazione» oggettiva. Se fosse un concetto puro, sarebbe filosofia e non arte. Se invece è la semplice posizione soggettiva dello spirito (sentimento), non ha più quella realtà che andiamo cercando...

13. – Domandiamo maggiori lumi, e più moderni, alla «Filosofia dell'Arte» di Gio. Gentile (1931), che si ricollega al più puro Hegel, rifiutandone l'interpretazione crociana, che al Gentile sembra troppo intellettualista e poco filosofica.

La «Filosofia dell'Arte», com'era prevedibile, è di nuovo tutta la filosofia del Gentile, ripresa dal punto di vista del problema estetico, che le fa muovere un altro passo, molto interessante (per chi s'interessa di questa grande e bella cosa ch'è l'uman pensiero); ma, naturalmente, il lettore vi cercherebbe invano un'«estetica», sia pur generale: per es. un criterio per giudicare delle varie arti e, dei vari artisti e, infine, per distinguere e valutare universalmente il bello. Egli troverà qui soltanto il principio filosofico dell'arte, inteso come un momento del pensiero comune a tutto il pensiero (implicante anche la volontà e l'azione) e per cui tutto rientra nell'arte e tutti siamo artisti.

Infatti, dice il Gentile, l'estetica si suol contentare di chiedersi che cos'è l'arte, presumendo che ci sia, ma ignorando il perchè, il suo farsi nello spirito, al quale la filosofia deve ricondurre ciò che l'esperienza empirica prende come un esistente in sè, un «fatto». Ma il cosiddetto fatto artistico è immanente al pensiero che vive o rivive artisticamente i suoi contenuti: lo stesso pensiero che nella sua obbiettività (logica) dà loro la forma storica e li giudica oggettivamente, come da svegli giudichiamo d'aver sognato, mentre che il sogno è sogno fin che non ce n'accorgiamo.

Così l'arte è Dura arte fin che è sentimento. Intendiamoci bene. Il sentimento non va preso come uno «stato psicologico», un particolar contenuto sul quale attualmente pensiamo, e, infine, un oggetto fra gli oggetti. No, il sentimento è il principio soggettivo, l'io, che anche in questo istante ci fa pensare: l'anima del pensiero che si realizza attuandosi volta per volta negli oggetti conosciuti e negli atti compiuti, ma li informa di sè e a sè di continuo li riconduce, richiamandoli dalla lor necessità obbiettiva alla propria libertà e infinitezza.

Per il Gentile, tutto il mondo è il mondo dello spirito, del soggetto; ma questo non è qualcosa di già dato, che esista in sè: esiste in quanto si attua, e si attua dialetticamente, ossia pensando l'oggetto opposto a sè e infine riconoscendosi soggetto di quell'oggetto (autocoscienza). Perciò la posizione soggettiva, il sentimento, e quindi l'arte, non si trova realmente che nel divenire oggettivo, nel pensiero, nei contenuti insomma, che sono le forme che l'arte prende a traverso la mediazione del pensiero. L'arte pura è «inattuale»; per affermarla bisogna prescindere dalla forma attuale (idea) e raggiunger il principio immediato, l'io, Immediato per modo di dire, perchè c'è l'io in quanto si esplica e s'attua facendo, nel pensiero logico e pratico. Si potrebbe dire, e il Gentile dice, che «c'è arte in quanto non c'è», in quanto cioè il sentimento esiste nei contenuti oggettivi che ne son l'antitesi – è la tesi, l'io, infanzia dello spirito, che vive nell'antitesi, nel non io, del pensiero da lei maturantesi –; ma poichè il sentire annulla i contenuti come oggetti in sè (fuori di noi), trasformandoli in forma artistica, è meglio concludere che tutto è arte in quanto tutto è sentimento e soggettività.

Allora, la questione più difficile dell'estetica, il rapporto tra forma e contenuto dell'arte, rimane agevolmente risolta. Lingua, suoni, colori ecc., materia della tecnica artistica, così come gli argomenti e gli oggetti rappresentati, possono sembrare degli antecedenti estranei all'arte perchè questa li trova «di fuori», nell'astratto pensiero, e tutto il pensiero si può dire il «contenuto» dell'arte; ma questi antecedenti e contenuti precipitano nel sentimento e in concreto ne diventano i conseguenti, creazioni, forme soggettive dell'essere. Contrariamente al Croce, la tecnica (il fare) non è estrinseca, se è mezzo per l'attuarsi reale del sentimento; però, contrariamente anche allo storicismo individualistico del Croce, molte sono le tecniche, le opere e gli artisti, una è l'arte, sentimento in tutto. Sentimento che non si esaurisce nel pensiero, essendo il divenire della stessa coscienza di sè; e così il pensiero è processo, non risultato: realtà che il sentimento regge, riportandola all'io da cui è partita. Onde l'arte, che si esclude dal momento oggettivo e religioso del pensiero (antitetico), diviene ispiratrice del momento filosofico (sintetico); e infatti circola in queste pagine calde d'un possente afflato umano ed etico.

Il Gentile oppone dunque (in termini spesso polemici) questo umanismo e sentimentalismo – che riconduce l'arte a un momento perenne dello spirito, a un semplice principio attivo, alla immediatezza spontanea del genio creatore ch'è in tutti in quanto tutti sono uomini attivi, spiriti liberi – all'estetica crociana, che distingue il bello e l'arte dalle altre attività dello spirito, come intuizione dell'immagine ed espressione in forma fantastica di uno stato d'animo (lirismo), che rende l'arte autonoma rispetto alla conoscenza logica e all'attività pratica. In realtà, stando al Gentile, l'arte va a identificarsi col pensiero logico, astrazion fatta dalla sua oggettività, e col pensiero morale, astrazione fatta dalla sua praticità: come questi due valori son fra loro unificati nella filosofia dell'unico Spirito che diviene «altro», ma non è che sè stesso e a sè stesso ritorna. Pertanto, ripeto, invano chiederemmo al Gentile un criterio per distinguere il fine e il pensiero estetico dai fini e dai valori conoscitivi e pratici. Il bello non è più un real valore che si attui per sè (pur implicando gli altri): è un semplice principio, l'ineffabile soggettività d'ogni nostro atto, l'«amore».

Però, in tal caso, non se ne potrebbe nemmeno parlare, perchè l'io di cui parliamo è già mediato nel pensiero. E infatti il Gentile, per parlarci del bello, è pur costretto a farlo esistere in qualche modo, prima del pensiero (oggettivo) che ne sgorga e pur avendo detto che il modo d'esistere del soggetto è l'oggetto. L'io puro è un dato a priori; ma siccome questo dato si presenta come sentimento, la sua concreta immediatezza non può esser che... il corpo, la «natura»! Sì, il corpo come natura, in cui l'anima s'incarna, è il sentimento, vis interna naturae: e «lo spirito è spirito della natura, per chi ben l'intenda».

Ben intendere questo naturalismo, in cui, forse con meraviglia di chi non aveva penetrato l'attualismo hegeliano, esso ora viene a metter capo, significa, secondo il Gentile, distinguere fra la natura del naturalista e della scienza, ch'è natura morta, analizzata obbiettivamente come se fosse esterna a noi, necessaria e assoluta nella sua molteplicità e limitazione, e perciò «irreale»; e la natura (e quindi il corpo, e poi l'universo intiero) dell'idealista, che invece «è la più salda realtà che ci sia, opposta al pensiero ma nel pensiero, soggetto che il pensiero trova in sè come essere di cui è il divenire... vita del sentimento... essa stessa bellezza».

14. – In verità, nessuno ha mai negato, dopo Kant, che la natura sia un concetto, e che sia il pensiero quello che gli attribuisce valore reale, affermandolo vero relativamente ai sensibili, ossia nei limiti dell'esperienza, dove il corpo non è che il modo di «sentire» lo spirito e di rappresentarselo oggettivamente. La sola differenza è, che qui chiamiamo «natura» il sensibile stesso, la condizione (ossia il contenuto) dei concetti scientifici di natura: «dal sensibile ch'è dentro di noi traggono origine e vita tutte le cose». Allorchè consideriamo il sensibile, non come astratto contenuto dei concetti di corpo e di natura, reali sol relativamente, ma come forma e principio esistenziale del pensiero stesso, originarietà del sentire fondamentale, intuita come «corporeità dell'io», la sensazione, da «materia» esterna ai nostri concetti diviene forza interna, spirito e principio del valore. Questo valore, individuale e universale a un tempo, sarà reale in quanto diviene pensiero (di quei sensibili), ma è soggetto puro in quanto è sentimento, soggettività della sensazione; sotto quest'aspetto, «il corpo è corpo in quanto si sente, non si sente perchè è già corpo».

Adunque il reale non è l'immediato dell'intuizione estetica (come vuole l'intuizionismo francese); l'immediato, soggettivamente estetico come sentimento, si realizza teoreticamente nelle idee che come tali negano l'estetico, il sentimento, e si attua praticamente come un fare (che dunque s'ispira al sentire e di nuovo implica l'arte). Qui è l'incontro di tutti i valori: l'esserci, l'esistere del'io è il sentire, che cerca il suo piacere (la sua finalità in universale) nel divenire. Questo piacere, principio vivente, amore che tutto fa, è il carattere trascendentale del pensiero, la condizione a priori di tutti i valori, ossia lo Spirito; ma lo Spirito è quello che si fa: il logo astratto (oggettivo) n'è un momento, il logo concreto (reale in sè) è sapere in quanto è fare (unità d'intelletto e volere); e il soggetto, facendosi pensiero concreto, diventa azione, praticità e, perchè trascendentale, eticità.

Mai l'hegelismo, a mio avviso, ha raggiunto una più compatta profondità metafisica. Ma siccome l'arte, così intesa, manca dell'elemento dell'oggettività essenziale al fare e all'azione, come essa arte manca al momento oggettivo, il metodo dialettico ci giuoca il solito scherzo, d'intendere un valore come tutto e come niente, vanificando il valore stesso in quanto tale nella sua negazione e nella negazione della negazione. Infatti l'arte, o non è nulla (di artistico) perchè non fa nulla (di artistico) nè si pone oggettivamente se non alienandosi per divenire realtà ed utile; o è troppo, perchè è soggettività, sentimento comune ad ogni attività teoretica e pratica, per cui tutto è espressione di sentimenti.

L'unico punto in cui, nell'estetica del Gentile, il sentimento può dirsi estetico e quindi provare esteticamente l'identità essenziale di soggetto e oggetto – cioè, senza che l'oggetto trascenda il soggetto negandolo (come nell'idea teoretica), nè il soggetto a sua volta trascenda il dato oggettivo facendo (come nell'azione etica) –; l'unico punto, voglio dire, in cui l'estetico, come soggettività, apparisce immanente ed è prova reale dell'immanenza dei valori ch'esso implica e riflette, è l'identificazione sopra ricordata di sentimento e sensibile, di anima e corpo, o natura sensibile del soggetto. Ma di qui si giunge a un'estetica del tutto romantica: quella cioè che ha dominato tutto il nostro secolo, e che fa consistere il bello nell'arte e l'arte nell'espressione della vita stessa, come spontaneità del sentimento, che diviene «sincerità» dell'arte «creatrice».

Naturalismo romantico da una parte, e idealismo dall'altra vengono a fondersi nell'unico romanticismo estetico, per il quale, ripeto, l'arte è vita vissuta, espressione di sentimenti reali nella forma più spontanea, i quali illuminano di sè i mezzi oggettivi di cui ella si serve, liricizzandoli nella fantasia, esprimendosi e comunicandosi per simpatia umana. Dante fu il primo a intender così la poesia nuova, sciogliendo il « nodo» di Bonaggiunta da Lucca («I' mi son un che quando...»): e l'ultimo fu il Pascoli, che raffigurava l'anima del poeta nell'ingenua espressività del «fanciullino». Ma anche tutta l'estetica contemporanea s'aggira nel circolo del pensiero romantico: l'arte è soggettività pura, visione soggettiva e animazione del mondo, espressione in fantasmi dei sentimenti che non si realizzano in oggetti veri e negli scopi pratici dei nostri interessi; e pertanto è liberazione dai fini pratici e gioia disinteressata.

Da noi, il genio del Vico precorse il romanticismo germanico, e l'intelligenza di Francesco De Sanctis l'applicò poi alla critica letteraria: perciò il Croce e il Gentile non ebber che a interpretare idealisticamente il naturalismo di quei due, per riconoscersi loro prosecutori. E difatti, affermare col Croce che il bello è il piacere datoci da un'immagine ispirata dal sentimento, o dire col Gentile, che dunque il principio del bello sta nella soggettività di quell'immagine, nella vita stessa che circola come puro sentimento informando di sè i suoi oggetti e mezzi, è sempre un atteggiamento romantico, ora dal punto di vista conoscitivo, del fissare nel fantasma, creato dall'intuito artistico, l'espressione del sentimento; ora da quello subiettivo del rifarsi alla natura morale dell'attività estetica. Il divario fra i due filosofi idealisti è assai minore di quanto il Gentile mostra di credere.

Essi sono poi d'accordo nel pensare (il Croce nella parte storica della sua «Estetica», il Gentile nella conclusione di questa «Filos. dell'Arte»), che il Kant sia passato accanto all'arte senz'accorgersene. Ma, nell'«Estetica trascendentale», il Kant non se ne doveva accorgere, perchè la conoscenza è trascendentale proprio in quanto supera i contenuti sensibili, che rimangon solo a rappresentare, per accordo o per antinomia, il concetto o l'idea. È nella «Critica del Giudizio», ossia al suo giusto posto, che la definizione del valore estetico è data dal Kant in forma così limpida e persuasiva, che ad essa giova rifarsi, non soltanto per impostar bene il problema dell'arte, annebbiato dal soggettivismo romantico, ma per ben comprendere, nell'interesse stesso dell'immanentismo idealista, come sia possibile l'esistere del sovrasensibile nel sensibile.

Per il Kant, ricordiamolo ancor una volta, il bello consiste nel valore della forma sensibile in quanto tale, mentre che gli altri valori si realizzano, sì, sopra, i sensibili, ma li trascendono nei concetti oggettivi dell'essere e nelle idee soggettive del dover essere. Per cui l'arte, qualunque siano la sua ispirazione e i suoi contenuti, sarà ricerca della forma sensibile che tale rimanga, come «linea» o «stile»; e il sentimento estetico sarà quel sentimento dato proprio nel rapporto degli elementi sensibili, che come sensazioni e stimoli sono enti astratti, ma concreti si presentano (prima di «rappresentare» qualcos'altro) nella sintesi estetica, nella unità caratteristica dello stile. E pertanto l'arte è arte e non «natura», anche se vuol imitare la natura o «fare come la natura».

Lo sdegno dell'idealismo per il mondo sensibile, per la «vile materia», gli ha impedito di scorgere come questa materia s'illumini senza bisogno, di trascenderla nel soggetto puro, e quindi come il soggetto, lo spirito si attui, anzi già si presenti in atto, prima di rappresentare un'idea. L'argomento merita dunque d'esser ancora trattato anche ai fini della filosofia dell'essere; ma la sua conclusione metafisica deve passare per un difficile cammino: quello in cui si dimostri errato il soggettivismo estetico, vale a dire il fondamento di quasi tutta l'estetica contemporanea. Per me, infatti, il bello esiste; e, piuttosto che un valore del sensibile, è proprio esso il valore sensibile...

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