1. – La psicologia tradizionale s'arrogava il diritto di compier essa, ed essa soltanto, l'analisi della sensazione, con la quale hanno invece ugual principio tutte le scienze, anzi tutte le conoscenze in quanto conoscenze teoretiche, ognuna poi trascendendola nei concetti di natura. La psicologia fondava quella pretesa sul principio, esser la sensazione, tutta la sensazione, un fatto psichico, un «fatto di coscienza». È un principio che attrae poeticamente le nostre menti, non v'ha dubbio: ma per la psicologia è un brutto incominciare, perchè una volta ammessa l'identità di sensazione e psiche postulata dal soggettivismo e l'identità di psiche e coscienza postulata dall'intellettualismo, si rende impossibile e contraddittoria la stessa ricerca psicologica. Se le sensazioni, per es. questo rettangolo bianco, sono già fatti essenzialmente psichici – e tanto più lo sarebbero le idee che ce ne formiamo, come l'idea di rettangolo e di bianco (o di questo rettangolo bianco qui) –, tutto il mondo è psiche, è già dato come tale; ma non v'è più modo d'istituire una psicologia dove non si può più distinguere il soggetto psicologico dagli oggetti, e soltanto si tratterà di criticare (filosoficamente) i valori soggettivi e oggettivi che le sensazioni prendono secondo le nostre costruzioni ideologiche.
Riprova: non appena la psicologia s'accingeva ad analizzare una sensazione, distingueva il sensibile, lo «stimolo», oggetto della fisica, dalla sensibilità organica, oggetto della fisiologia, e l'uno e l'altra dalla coscienza, suo preteso oggetto; come distingueva il metodo dell'osservazione esterna delle altre scienze dal proprio metodo dell'introspezione. Ora, se quella sensazione fosse già prima un fatto psichico, e se dire psiche fosse lo stesso che dire coscienza, non diviene un assurdo ammettere che uno stimolo fisico e fisiologico si faccia cosciente? Esso lo era già! E non è un secondo assurdo ammettere un'osservazione esterna e una interna dove tutto è già dato come psichico, e cioè interno?
Lo psicologo, quando asserisce che la sensazione è un fatto psichico, ragiona nel modo seguente: Questo rettangolo bianco non sarebbe nè rettangolo nè bianco se io così non l'avvertissi, e l'avvertire sensibile sarà dunque la prima forma di conoscenza; la coscienza sensoriale è la conoscenza soggettiva di quest'oggetto, il primo modo con cui un oggetto si presenta allo spirito e quindi lo spirito se lo rappresenta, per es. bianco e rettangolare. Ma ognun vede che il nostro psicologo ha già dovuto duplicare l'esistere sensibile in oggetto (che chiama anche stimolo) e soggetto (che chiama spirito), come se già ci fosser, nientemeno, queste due sostanze prima della sensazione, nella quale viceversa incomincia ad esserci, data la premessa, un fatto reale. C'è qualcosa – ma dove? quando? – chediviene cosciente perchè viene avvertito. Converrà dunque, ripeto, ammettere prima questo qualcosa (la materia?) e questo soggetto (l'anima?), il che è come cadere nel più primitivo materialismo, o in quella forma di larvato materialismo ch'è il parallelismo de' due aspetti, fisico e psichico, della stessa sostanza (organica?).
«Avvertire uno stimolo», «accorgersi di qualcosa» e simili espressioni, indican già un fatto conoscitivo, una percezione bell'e buona, ma non riguardano la sensazione in sè. «Avverto questo rettangolo bianco» significa l'esistere nell'unità attuale dell'esperienza questo bianco e il sentimento dell'avvertire, o senso del conoscere, come sensazione che io ho già sdoppiato in rappresentazione di due valori, l'uno concepito fra le cose (fuori di me), l'altro nel soggetto (in me), per cui relativizzo conoscitivamente i due valori della stessa e unica esperienza, e mi rappresento il conoscere stesso, la mia attività, in tal rapporto dualistico. Ma che c'entra la psicologia della sensazione? questa è, se mai, la psicologia del conoscere.
Lo psicologo risponde, alla Berkeley, che, proprio perchè, questo bianco, io lo trovo prima di tutto nella coscienza, esso è un fatto psichico: la coscienza poi lo «proietterebbe» fuori di sè, localizzandolo nello spazio ecc. «Nella coscienza»! Dove sarà mai questo luogo in cui si fabbricano e da cui si proiettan fuori (dove?) gli oggetti, che dunque non son più tali?
«Coscienza» significa consapevolezza, riferimento di qualcosa – contenuto di una nostra attività; un oggetto conosciuto, un sentimento sofferto, un atto compiuto – a noi, o meglio, all'attività stessa (forma) che conosce sente vuole.
Coscienza non è dunque l'esser presente di qualcosa – questo bianco che vedo, questo piacere che vivo, questo movimento che faccio –, ma l'accorgersi di questa presenza: saper di sapere, di sentire, di volere; ciò che avviene in quanto oppongo e al tempo stesso metto in rapporto me col mondo, rapporto che si dice di soggetto a oggetto, perchè ognuno dei due termini conferisce all'altro il valore opposto (antinomia pratica che, teoreticamente, si converte in mediazione conoscitiva).
In altre parole, la coscienza è la stessa attività conoscitiva in senso generale e nel suo attuarsi – non come fatto, ma come atto –, ch'è un conoscere l'oggetto e sè stessa, graduandosi in questo sviluppo fino alla filosofia, che n'è la forma più pura.
Questo modo d'intendere la coscienza, non come un qualche cosa, soggetto (psichico) od oggetto già dato, sostanza spirituale o materiale assoluta, ma come rapporto conoscitivo, pensiero, in cui si formano tanto i valori della realtà oggettiva (coscienza) quanto i valori soggettivi di quella realtà (autocoscienza), reciprocamente ed implicitamente; vale a dire, d'intenderla come posizione di valori e non come realtà in sè, natura del valore, ch'è sempre un suo concetto (psicologico, appunto), è proprio della filosofia contemporanea, dal Kant in poi, ed è perfettamente in accordo con la testimonianza dell'esperienza pura, mentre evita le aporie e gli assurdi della precedente speculazione. Giustamente oggi la filosofia identifica la coscienza col pensiero, e la dichiara indefinibile per sè stessa, essendo il prius – logico – di tutte le definizioni, la corrente stessa del pensiero pensante. La sola sua legge è l'unità di coscienza: il dover essere, rapporto in cui s'unifica tutta la esperienza in ogni suo momento, realizzando i valori oggettivi e soggettivi nella sintesi conoscitiva, teoretica e pratica; ma la opposizione di soggetto a oggetto il pensiero la deve mediare, non la può creare, trovandola già nel suo esistere sensibile; e la media infatti nei concetti valutativi che regolano la conoscenza come ragione. La filosofia può, sì, parlare d'introspezione; ma l'introspezione filosofica è la riflessione, ossia, come vedemmo, l'atteggiamento critico del nostro spirito, destinato, non a formulare leggi scientifiche, ma a riflettere, fra l'altro e per esempio, sul loro valore e sui lor limiti e risultati (teoria della conoscenza ed epistemologia): filosofia che non precede o segue la scienza, ma sta dietro ad essa, come sta dietro a ogni altra forma d'attività.
2. – La psicologia, proponendosi di studiare i «fatti di coscienza», ha seguìto le varie sorti di questo concetto in filosofia, aggrovigliandosi in difficoltà senza uscita, e oscillando dal materialismo allo spiritualismo, di cui il parallelismo psico fisico non è che un compromesso provvisorio. Ma in realtà, la psicologia è riuscita a conquistare un posto utile fra le scienze rinunciando a studiare il soggetto come coscienza, come posizione di valori oggettivi e soggettivi, e lasciando ciò alla noètica per considerare soltanto le condizioni empiriche e misurabili di quell'attività (volontaria), che si attua come coscienza alla luce della testimonianza introspettiva.
Allora, il soggetto psicologico non è più la coscienza, ma quei sentimenti e impulsi che forman l'«inconscio» della psicologia più recente (come del resto vide già il Leibniz), e che la coscienza chiama soggetti (empirici) quando appunto li ha già superati e mediati in una conoscenza oggettiva, in un sistema di rappresentazioni, ch'è del soggetto attuale che vi riflette.
Perciò, a mio modesto parere, quando si tratta di psicologia come scienza psicologica, hanno tutte le ragioni coloro che si battono per l'uso più largo dei metodi sperimentali anche in questo campo, da sostituire alla famosa introspezione della psicologia classica: si tratta soltanto d'aver ben chiaro il fine della ricerca. Infatti, se il fine è scientifico, nel senso odierno del termine – ossia nella direzione verso cui s'è oggi formata e orientata una coscienza scientifica della civiltà occidentale, con determinati scopi teoretico pratici –, l'introspezione in psicologia non ha più alcuna importanza, non trattandosi più di definire i concetti, come nei trattatisti aristotelici, ma di fissare delle costanti in determinate funzioni. In tal caso, a che si riduce l'introspezione? Alla semplice esperienza nostra, ossia all'esperienza necessaria per parlare d'una cosa, punto di partenza d'ogni ricerca? Ma questa esperienza è la stessa comune a tutte le scienze, perchè, se non posso parlare di dolore o di volontà senz'averli provati, non posso nemmen parlare di luce e di calore senz'averli percepiti: vuol dire che il fisico obbiettiva la sua esperienza di luce in una rappresentazione di onde luminose, e così la rende «esterna», e lo psicologo obbiettiva la corrispondente impressione piacente o spiacente e il corrispondente impulso a cercare o a fuggire quella luce in una rappresentazione d'attività, che chiama interna soltanto per opposizione alla prima, ma che deve studiare dove e come si studia la prima.
Lo psicologo, per trovare un soggetto psicologico, non può far a meno d'analizzare la sensazione e di distinguervi un gruppo d'elementi astratti, che definirà soggettivi, da un altro, che chiamerà stimoli oggettivi; e sol per influenza filosofica attribuirà poi una natura soggettiva anche a quei sensibili, che per lui sono oggetti dati alla conoscenza, all'avvertimento soggettivo di quel primo momento. Così, avendo invertito le parti fra scienza e filosofia, giungerebbe all'opposto risultato, di definire la natura soggettiva o valore che il sensibile prende nella conoscenza (ciò che spetta alla critica della conoscenza) invece di formarsi i concetti oggettivi (reali) del soggetto, ossia di quella natura che ha già preso come un dato. A questo punto, lo psicologo ha implicitamente dichiarate assurde ed inutili tutte le scienze e la propria con esse: assurde, perchè una fisica diviene impossibile e vana dove non c'è più nulla di fisico, e così ogni scienza della natura, compresa una psicologia che cerchi un soggetto dove tutto è soggetto; inutili, perchè sostituibili con la noètica, la quale sarebbe sola competente a dirci come il mondo oggettivo si formi e si svolga in seno alla conoscenza medesima. È per questo che il criticismo, a sua volta, dal Kant in poi, ha dichiarato la incapacità della psicologia a darci il concetto di soggetto, anzi la impossibilità d'una scienza psicologica distinta dalla filosofia. Onde il curioso paradosso di filosofi che, incominciando dal Kant, fanno o presuppongono in ogni pagina quella psicologia, che pure hanno negato.
La legittimità d'una psicologia – e quindi di tutte le «scienze morali» in quanto scienze – dipende dalla soluzione di questo problema: come e in che senso il soggetto, «oggetto» della psicologia generale in astratto e delle scienze morali più in concreto, può divenire, appunto, un oggetto, vale a dire un concetto reale?
La psiche dello psicologo non può esser diversa dall'«io» empirico della coscienza comune. Ma, come dicemmo, «io», o sono la coscienza in atto, e in tal senso l'io è pratico, è soltanto sentito, e in tal modo opposto agli oggetti (opposizione pratica da non confondere con la «distinzione» teoretica degli oggetti fra loro), creando così una relazione di valore che chiamiamo volontà, dove l'oggetto diviene il mezzo e il fine del sentimento. In tal senso, non posso fare della psicologia che vivendo il soggetto e, per così dire, standoci dentro; però tal soggetto non è un conoscibile, non è una rappresentazione di qualcosa. Oppure noi diciamo «io» indicando qualcosa, una natura oggettiva, come quando dico «io parlo, io veggo», e questa realtà naturale non può esser che il corpo, il senso fisiologico, rispetto a cui l'oggetto veduto o la parola detta, sono il sensibile fisico, qualunque altro valore acquisti poi come mezzo o fine del volere.
Penetrando ancor meglio il problema psicologico, si dovrebbe, coerentemente, giungere all'opinione di A. Comte, ch'era tutt'altro che superficiale: la psicologia, o è scienza della natura, scienza oggettiva, e in tal caso è biologia; o è scienza morale – egli diceva «sociologia» per designare la storia in universale –, e allora è conoscenzavalutativa, riguardante non un «fatto» come natura, ma i fini e i valori esprimentisi in quel fatto (filosofia e storia), che noi affermiamo per partecipazione. La psicologia pura, come scienza oggettiva, è impossibile, proprio perchè l'«io» non è «in sè» universalmente: una tale oggettivazione è soltanto pratica o religiosa, ma teoreticamente l'essere di un soggetto è un dover essere, una finalità ideale, non la sua causalità ed essenza reale.
Avrebbe dunque ragione la filosofia contemporanea di abbandonare la psicologia come una pseudo scienza naturale sostituendola con la storia che rivive i fini e i valori soggettivi nel pensiero attuale che li pensa? Sì, avrebbe ragione, se potessimo rinunciare a pensare obbiettivamente, a uscir di noi stessi, a realizzare i concetti, a sostituire la religione di Dio alla religione dell'io. Non potendo limitarci un solo istante al nostro io attuale, non potendo conoscere e pensare senza trascenderci, la filosofia ha riportato anche la natura allo spirito – la natura è un modo dell'io perchè è un concetto –, e ha preso lo spirito come natura, come realtà conoscibile obbiettivamente. Difatti ha messo capo a un naturalismo spiritualistico ch'è l'antico spiritualismo naturalistico rovesciato – come già avvenne per ragioni analoghe nella filosofia del nostro Rinascimento di fronte alla scolastica –: invero, la filosofia contemporanea, così arditamente contingentista e attualista per quanto riguarda il problema cosmologico, pensa ancora l'anima come qualcosa di reale, anzi l'unica cosa reale; sia poi che l'intenda, col contingentismo francese, come personalità, individualità del «continuo» psichico, che permetterebbe un monoteismo metafisico; sia che l'intenda panteisticamente, con l'hegelismo, come soggetto universale o spirito assoluto che si attua nel pensiero. Comunque, tutto il conoscere allora si riduce a psicologia; questa è allora l'unica scienza possibile! Come cavare i piedi da questo controsenso?
3. – La questione va ripresa da capo, fermandoci questa volta nel punto in cui lo psicologismo s'è infiltrato nella filosofia contemporanea a sua insaputa e n'ha pregiudicato la soluzione idealistica, facendola diventare soltanto spiritualista.
La filosofia dopo Kant pàrte dall'esperienza; ed esperienza significa, in ultima analisi, presenza, esistenza, sensazione, comunque poi la si vàluti intèrpreti e conosca. L'esister della sensazione, e cioè la sensazione per sè stessa, non è piuttosto un oggetto che un soggetto: codesti, anche per il Kant, sono concetti oppure idee che noi formiamo sopra di lei, impliciti nelle percezioni, espliciti nella ragione: sono l'«essere» oppure il «dover essere» di quell'esistere; e, poeticamente parlando, sono la forma, logica oppure pratica, di quel sensibile, che ne diventa il contenuto.
Ma, prima di tutto, c'è dunque un «noi» che forma i concetti e le idee (compresa questa attuale del «noi»), che percepisce e ragiona? C'è un «io» prima o fuori del sensibile, necessario affinchè ci sia conoscenza, ossia rapporto di forma e contenuto: di forma, che allora diventa il soggetto puro, e di contenuto, che per essa, nella sintesi conoscitiva, diventa oggetto? Eccoci in pieno nella soluzione spiritualistica riaffacciatasi dopo Kant, la quale pone di fronte due esistenze, l'io e il sensibile; e per render possibile il loro rapporto, il loro divenire come pensiero, le considera già della stessa natura, l'una come «io puro», l'altra come «io empirico». Ma, o prendiamo l'io puro come un trascendente, anteriore e in sè rispetto all'io empirico, alle esistenze sensibili, e cadiamo nella contraddizione dell'affermare oggettivamente qualcosa ch'è toto coelo fuori dal nostro io empirico, dall'esperienza; o intendiamo l'io puro come immanente nell'empirico, e allora non può esistere realmente altro io che questo.
Difatti il Kant aveva lucidamente risolto la questione dell'impossibilità teoretica della dimostrazione dell'anima in sè, del puro soggetto come realmente esistente. Purtroppo nelle sue pagine si trova anche spesso il concetto teosofico di uno spirito che con le sue facoltà presieda e gèneri le particolari attività soggettive, costituendone la causa occulta, arbitraria reduplicazione dell'atto reale obbiettivato e preso in sè come un essere permanente sotto le sue manifestazioni fenomeniche: e son queste le infiltrazioni dello psicologismo nella filosofia contemporanea alle quali alludevo. Ma restando all'essenza della profonda innovazione kantiana, l'io puro, la forma conoscitiva dei contenuti sensibili, non è che l'a priori, la loro trascendentalità – il loro valore – e non un altro io trascendente.
Kantianamente, esistono le intuizioni, il dato di fatto, le sintesi a posteriori; esistono cioè dei contenuti per sè arazionali, senza valore, nè oggettivo nè soggettivo; e il termine «esistere» indica qui la presenza immediata, indipendente da «me», o almeno dall'io empirico, dal mio volere, e quindi anche da quel modo di volere ch'è il conoscere teoretico. Pertanto l'intuizione kantiana, la presenza d'un sensibile dato, per sè non implica un soggetto che intuisce più un oggetto intuìto dal primo: quando e in quanto il soggetto intuisce l'oggetto intuito, non siamo più nel dato e fatto della sensazione in sè, ma siamo saliti alla sintesi spazio temporale, al farsi rappresentativo e formale dei contenuti, al loro primo oggettivarsi reale per opera del soggetto formale.
Il soggetto formale kantiano non è un'esistenza (una sensazione, un'immagine, una parola), ma il dover essere o valore di questa esistenza, ciò che essa deve e quindi può rappresentare. La sensazione, la sintesi a posteriori, l'unità contingente e casuale di dati intuitivi, rinvia a una «cosa in sè», a una obbiettività assoluta ch'è la sua «ragione» immanente. Lo spazio, il tempo e le categorie sono le forme soggettive delle unificazioni obbiettive tendenti a raggiungere il valore reale, la cosa in sè; sono soggettive non per un loro proprio carattere psicologico diverso dalla oggettività, ma per la loro limitatezza, perchè sono esperienza sempre particolare benchè rivolta all'universale. Se l'intuizione sensibile, l'esistere, potesse raggiunger di colpo il suo dover essere, la cosa in sè, la ragione, sparirebbe il soggetto formale, la conoscenza, e ci sarebbe l'oggetto reale, l'assoluto (ciò che aspira a raggiunger l'intuizione religiosa). Infatti dalla filosofia kantiana si deduce a rigore che il soggetto (formale, ossia conoscitivo) si attua negli oggetti, è reale quando non è più soggetto puro ma un suo oggetto; l'esistenza appartiene solo a questo.
Ma non v'è anche, come già ci chiedemmo, presso il Kant, un soggetto reale? Il soggetto formale, il dover essere, non si realizza nell'essere, e questo non è dunque tutto e soltanto soggetto (idealismo)? Non sarebbe quindi più logico chiamare Oggetto il puro dover essere assoluto, l'obbiettività pura in sè, e chiamar soggetto il divenire reale, l'esperienza?
Ripetiàmoci prima che cosa possa significare per il criticismo il termine «reale». Reali sono i concetti teoretici, i concetti in quanto «veri»; alias, i concetti che valgono per le esistenze. Reale è l'essere; e l'essere, criticamente risolto, è il dover essere dell'esistere, implicito nella percezione, esplicito nel pensiero. I concetti reali, nell'accezione comune della parola, sono i concetti veri possibili, le sintesi dell'esperienza; quei concetti che possono esser rappresentati dalle esistenze sensibili, intuitivamente. È la certezza intuitiva, la presenza del dato, che li rende obbiettivamente veri, per quanto trascendentali. Non posso dire che una cosa è quella cosa se prima di tutto non esiste in qualche modo riducibile all'esperienza.
In tali limiti, reali sono i concetti empirici (i giudizi riflettenti l'esperienza): il concetto storico, che determina un fatto come quel fatto, singolarmente (concetto perchè universale nel valore); e il concetto di natura, che lo determina generalmente, anche per l'avvenire, risalendo alla ragione, reale come causa (necessità di natura).
Arrestiàmoci per ora a questo punto. Sono possibili dei concetti psicologici, dei concetti reali, obbiettivi del soggetto come natura (soggetto empirico)? È possibile la psicologia, sia essa descrittiva e individuale, sia essa scientifica e generale? Per avere dei concetti psicologici bisogna che ci sia un'esperienza soggettiva, che un tal carattere si presenti sensibilmente, distinto e unito come parte della realtà obbiettiva che diciamo natura e possa pertanto divenire il contenuto del pensiero teoretico. In questa ricerca del proprio contenuto la psicologia ha sempre smarrito la strada, ora trovandosi su quella della filosofia col parlare del soggetto come valore, dover essere e forma di tutti gli oggetti e prendendo questo postulato come una causa naturale; ora infilando la via delle scienze naturali col distinguere obbiettivamente, favoleggiando di «percezioni interne ed esterne», degli oggetti soggettivi e oggettivi; come se tutte le percezioni non fossero ugualmente tali, e cioè soggettive in quanto soggettivanti e obbiettive in quanto obbiettivanti il loro unico contenuto, la sensazione. A sua volta la filosofia, credendo che la psicologia abbia dimostrato l'esistenza d'una causa psichica dell'esperienza, ha preso da lei questa mai data prova dell'essenza soggettiva di ogni altro essere.
In tal modo, la psicologia divenne la scienza delle «facoltà»; la psiche, il soggetto, sarebbe l'attività nota di ignote facoltà del sentire, del conoscere e del volere, che produrrebbero gli oggetti, prima come sensazioni, poi come immagini e idee: sostanzialismo che lascia le cose al punto di prima, come il materialismo naturalistico che parlasse di ignote forze già esistenti che producono le forze vive, le reali forme dei rapporti dinamici. Il Kant si trovava ancora in questa atmosfera riguardo al problema della scienza; ma non è oggi compatibile che si applichino al soggetto quei concetti, – come il concetto di causa causante e di sostrato materiale – che le scienze, sotto l'influenza appunto del criticismo, hanno abbandonato anche rispetto alla forza e alla materia. Le scienze, ripetiàmolo ancora, cercano l'essere del divenire fenomenico nei costanti rapporti fra i sensibili analizzati e unificati in concetti, simboli di un'unità razionale, di un dover essere assoluto, che però esiste qual semplice fine o esigenza soggettiva teoretica: se mai, è di questa soggettività che ci dovrebbe parlare la psicologia. Come ne può parlare oggettivamente, concettualmente? Questo è il problema psicologico.
4. – Secondo me, il problema psicologico non è dunque che un problema di metodo. Il primo errore di metodo s'incontra fin dall'inizio d'ogni psicologia sedicente obbiettiva e scientifica in ciò che notammo in principio di questo capitolo, nel presumere cioè che le stesse esistenze sensibili siano già di natura psichica, prima di determinare questa natura come concetto per analisi e sintesi sopra i sensibili. Ciò vizia tutto il processo, assumendo come proprio oggetto l'oggetto medesimo di tutte le altre scienze, anzi di tutte le conoscenze, rendendole vane e soggettive. Ma siccome diventa vana anche una psicologia in un mondo tutto psichico, per distinguere e connettere obbiettivamente ciò ch'è psichico con ciò ch'è fisico e fisiologico si cade in un secondo errore, di considerare il soggetto come un reale oggettivo in relazione di causa effetto con gli altri (o almeno di parallelismo): il che finisce con l'abolire la stessa soggettività e finalità, trasportandola come causa occulta e miracolosa nel campo delle altre scienze, e specialmente di quelle biologiche (vitalismo) e fisiologiche, alcune delle quali portan già impresso nel loro nome (per es. di «psicofisiologia» o «psicopatologia») l'equivoco iniziale.
Incomincio dunque col correggere alcune di queste storture metodologiche, discutendone in concreto, nel campo delle relative scienze naturali. L'esempio del Bergson mi conforta specialmente alla revisione del punto di vista fisiologico: ma il lettore filosofo non creda che sia senza importanza filosofica liberare dallo psicologismo il concetto scientifico, p. es., di «senso» e di «memoria»! Chi sa quanto influisca nascostamente sopra il soggettivismo filosofico l'aver appreso fin da ragazzi che ci sarebbero dei centri psichici che «ricevono» la sensazione e «producono» il movimento; oppure che un'immagine sarebbe di natura psicologica? Non siamo molto distanti dalla «ghiandola pineale» di Cartesio...
In verità, quando dico: «io» veggo questo bianco e scrivo questo nero, non parlo di un io che riceva o faccia qualcosa di altro e di fuori da lui – di una natura che diventi spirito e viceversa –, parlo proprio di questa sensazione già data e presente come bianco movimento nero ecc. Di qui incomincia così la mia coscienza come la mia conoscenza: la mia coscienza è il sentire l'esistenza di bianco o di sforzo motorio come presenza e necessità di fatto (certezza) alla quale il sentimento stesso s'oppone praticamente, aspirando a qualcos'altro che non è (per es. al nero) ma dev'essere – in filosofia si dice, che l'io afferma sè stesso (trascendentalmente) negandosi come non io –; la mia conoscenza è, al contrario, il ritorno all'esistenze, l'adeguare la praticità o finalità soggettiva alla necessità delle esistenze obbiettive; il «porre», come dicon i filosofi, l'oggetto per negazione (o meglio, limitazione) del soggetto. Allora, o rinunciamo alla conoscenza teoretica (al nostro dover essere reale) per vivere praticamente la vita soggettiva, e neghiamo la natura; o vogliamo conoscere la natura, la necessità reale, le esistenti condizioni di fatto, gli esistenti rapporti causali per cui avviene qualcosa che soggettivamente vale d'un valore teoretico oltre che pratico, e dobbiamo cercare tutto ciò nei contenuti sensibili e non nelle pure forme ideali. La natura dello spirito non può esser che natura; la natura dell'anima non può esser che il corpo; la natura dei sensibili non può esser che quel loro rapporto tutto oggettivo, che si chiama il senso.
Lo studio del senso è di esclusiva competenza del fisiologo, non dello psicologo, perchè non si tratta di stabilire che cosa è la psiche in quanto soggettività e coscienza, ma che cos'è la sensazione in quanto rapporto oggettivo, in quanto condizione organica dell'esistere di una sensazione. Il fisiologo si trova di fronte a un «fatto», l'eccitazione nervosa, misterioso ancora circa la sua propria natura fisico chimica, ma ben chiaro in ciò che qui importa, ossia ne' suoi rapporti funzionali con gli stimoli esterni e col restante organismo. Questa funzione si riduce al rapporto sensorio-motorio, di cui l'arco riflesso è il tipo. Lo schema istologico d'un sistema nervoso è anzi una cellula, che co' suoi prolungamenti protoplasmatici sia esposta all'azione di stimoli esterni o interni all'organismo (organo sensorio periferico) e col suo cilindrasse raggiunga i prolungamenti protoplasmatici d'un'altra cellula, di cui il cilindrasse metta capo a un organo motorio o secretivo.
Tutto ciò si complica, non soltanto con l'unirsi delle cellule in gangli (gangli sensori periferici e motori estramidollari) e delle fibre in nervi (sensori e motori), ma sopratutto per l'interporsi di centri cellulari – diretti (midollo, bulbo, gangli della base), o indiretti (cervello superiore e cervelletto) –, collegati, quelli diretti o inferiori, ciascuno da una parte all'organo sensorio e dall'altra a quello motorio, e quelli indiretti o superiori collegati ai primi, nonchè sempre collegati fra loro, per mezzo di fasci fibrosi, che uniscono a ciascun livello il centro sensorio con quello motorio, e, per le vie lunghe, i centri sensori e motori, diretti e indiretti, fra di loro.
Ma per quanto molteplice e complesso, l'unità morfologica del sistema è evidente, com'è evidente la gerarchia dei centri, quelli inferiori a cui giungono e da cui partono le vie nervose periferiche, sotto quelli cerebrali connessi con loro; e, nel cervello stesso, dei centri sensorio motoriali, perchè connessi coi nuclei grigi della base e del bulbo, rispetto a quelli frontali, connessi soltanto coi detti centri corticali del cervello medio e posteriore.
La ricerca fisiologica dovrebb'essere pertanto orientata secondo una concezione unitaria della funzionalità nervosa, così riguardo alla coesistenza delle eccitazioni (la sintesi a posteriori dei sensibili), come alla legge del loro riprodursi nel tempo (la memoria). Ciò non toglie nulla alla specificità, reale o presunta, dei centri nervosi, che se mai spiegherà in subordine le specifiche differenze sensoriali e motoriali. Ma, insomma, esistono due grandi leggi che dominano (o dovrebber dominare) tutta la fisiologia nervosa: l'unità funzionale; deducibile anche dalla concatenazione morfologica e istologica, diretta e indiretta; e la coordinazione o adattabilità funzionale nei tempo (memoria organica). Esse bastano a spiegare scientificamente e naturalisticamente perchè – vale a dire, in quali condizioni di fatto – i sensibili, che l'analisi poi divide, si presentano contigui e successivi nello spazio e nel tempo, formando l'unità a posteriori della sensazione, senza intervento d'un misterioso soggetto puro che prima crea i sensibili e poi li riunisce. La sintesi conoscitiva, come s'è visto, è tutt'altra cosa: è una sintesi nel valore logico; e l'operazione conoscitiva non deve creare nè riunire quello che già esiste, ma valutarlo e analizzarlo.
5. – L'unità funzionale nervosa ci si presenta come rapporto sensorio motorio di cui l'arco riflesso, dicevamo, è il tipo; ma è chiaro che, fin quando rimangono intatte le vie lunghe, l'eccitazione d'una parte si ripercuote, o tende a ripercuotersi (come «innervazione») sulle altre, ognuna delle quali reagirà nei modi determinati dalle sue peculiari relazioni anatomo fisiologiche. Ciò vien riprovato con l'osservare le risonanze, per così dire, di organi anche lontani e non direttamente interessati allo stimolo e all'atto dell'organo eccitato; o meglio ancora si può dire, che tutto l'organismo partecipa sempre più o meno a ciascuna sua funzione. In particolare esempio, che ci servirà più sotto, le costanti perturbazioni della circolazione e della respirazione in occasione di qualunque eccitazione – i cosiddetti «concomitanti organici» dell'emozione (cuore polso respirazione accelerati o ritardati, intensificati o indeboliti), onde derivano in parte le reazioni «espressive» (come pallore e rossore, sospiro e grido) – si spiegano con la legge, deducibile dalla precedente, che allorquando un centro è già in funzione (come questi della circolazione e respirazione), è il primo a risentire l'entrare in funzione d'un altro centro, che v'influisce sovreccitando o inibendo la funzione in atto del primo a preferenza di quella d'un altro centro in riposo.
Ma v'ha di più. Se paragoniamo l'eccitazione nervosa, in sè medesima, a una «corrente» (ciò che si suol fare usando di un'immagine comoda per la sua intuitività), non la si deve pensare centripeta – come induce a credere un vieto preconcetto di un'anima centrale che attenda là gli stimoli –, ma centrifuga, proprio come si concepisce la scarica d'un potenziale elettrico al contatto d'una punta metallica. Intendo dire, che scientificamente conviene meglio immaginare che la corrente nervosa, in occasione d'uno stimolo – fisico (tattile, termico), chimico (olfattivo, gustativo), fotochimico (visivo), meccanico (uditivo), organico (cinetico, dolorifico, viscerale, cenestetico) o altro che sia, designando con questi aggettivi la natura dello stimolo –, gli vada, per così dire, incontro, dal centro all'organo periferico, e non viceversa: l'idea che un color rosso o un suono «do» debban diventare rosso e «do» arrivando ad un centro cosciente, per arcana materialistica o teosofica virtù di elementi nervosi specifici della luce o del suono, ha fatto perdere decenni di lavoro, dal Gall in poi, faticosamente correggendosi l'irragionevolezza di quella veduta nelle più recenti ricerche avviate a considerare i centri piuttosto come risonatori e coordinatori, per sè generici e vicarianti, delle specifiche eccitazioni periferiche.
I centri nervosi sono i nuclei cellulari più direttamente connessi a questo o quell'organo periferico; giusto quindi pensare, come l'esperimentazione conferma, che presiedano alla funzione sensoria e motoria del corrispondente organo periferico; e nessuna meraviglia che, asportando o ledendo un centro, s'abolisca o si turbi la funzionalità di quegli organi che gli son connessi e subordinati. Ciò non soltanto perchè i centri sono trofici ed energetici – come la cellula in genere rispetto alla fibra – ma anche perchè sono gli organi di coordinazione simultanea e successiva, motoriale e sensorio motoria, nonchè. quelli più indiretti di controllo (sovreccitazione e inibizione) dei primi. Ma se un dato centro fornisce l'energia necessaria alla delicata funzione d'un dato organo (per es. uditivo) a lui connesso; se ne unifica le eccitazioni condizionando in tal modo laforma sensibile (per es. il timbro dì quel «do», la sua durata e il suo tono in relazione agli altri suoni), e inoltre unifica, ossia coordina questa eccitazione a possibili eccitazioni motorie (come volgere la testa) e ad altre possibili sensorie (per es. visive), tutto ciò non va confuso con la funzione propria dell'organo periferico (per es. della coclea dell'apparato uditivo): qui soltanto esistono le condizioni affinchè, per es., la vibrazione meccanica trasmessa dall'aria all'endolinfa per le vibrazioni delle membrane uditive, entri in rapporto, meccanico appunto, con l'eccitabilità nervosa.
Insomma, io dico, uno stimolo è quello che dev'essere per essere il tale stimolo. È meccanico, come il suono; fotochimico, come la luce; chimico, come il sapore e l'odore; fisico come la temperatura o la pressione; organico come lo sforzo d'un muscolo o il lacerarsi d'un tessuto? Non lo può diventare, nè importa che lo diventi, unicamente in un centro di natura fisiologica, perchè allora diviene incomprensibile e assurdo che una funzione fisiologica crei una natura meccanica fisica chimica ecc. O si negano tutte le scienze della natura, o si cercano nell'organo periferico le condizioni per cui il sistema nervoso possa entrare in quel rapporto con l'ambiente, ossia col cosmo, che si attua come la tal sensazione di suono «do» o di rosso o d'amaro o di movimento; e che il fisico chimico, analizzandola, può definire meccanica o fotochimica ecc. per certe sue qualità di tal natura, e il fisiologo definirà organica, o meglio nervosa in quanto è un'eccitazione che diviene motoriale. L'unità nervosa infatti consente che la corrente, che dai centri corre incontro a quello stimolo, coordinatamente innervi quei muscoli che agiscono per riflesso, percorrendo cioè le vie delle connessioni più pervie. Ogni scienza deve rimanere nel suo particolare dominio.
La scienza della natura non è la metafisica, e nemmeno la critica. La natura è il concetto dell'essere e del divenire dei sensibili, delle esistenze reali, non è l'idea dell'Essere assoluto o del valore oggettivo o soggettivo di ciò che pensa. Per ogni scienza, la sensazione, l'esperienza, è il dato primo e comune, l'esistere, ch'essa deve indagare, astraendone per analisi i distinti aspetti per giungere alla legge di questo accadere distinto e contingente. Ora, quando il fisiologo cerca in un centro fisiologico la causa efficente di un suono «do» o di un rosso, obbedisce senza saperlo al preconcetto del fenomenismo filosofico e realistico d'un tempo; crede cioè che la sensazione di suono e di rosso sia l'apparire all'anima di un assoluto esistente in sè, sia la soggettività di un oggetto; per cui cerca la sede di quell'anima che trasformerebbe, chi sa perchè, in rosso e suono qualcos'altro che le giunga da un di fuori, da qualità prime di natura diversa dalle qualità seconde...
Ma ogni sensazione è quella sensazione lì presente. Un rosso già vi si presenta distinto e contiguo a un giallo, a un suono ecc. Il rosso è rosso ed è là dove si trova: se il fisiologo (e tanto più lo psicologo) si persuadessero di ciò, che il dato è il dato – se fosser cioè conseguenti al loro positivismo scientifico –, non cercherebbero il rosso e il suono nel cervello (e tanto meno nell'anima; se mai, l'anima sarebbe nel rosso, sarebbe il rosso). Nell'organo periferico ci sono invece tutte le condizioni delle distinzioni delle qualità sensoriali: un occhio è un apparecchio fotografico, un orecchio è uno strumento musicale, un calice gustativo è il solo luogo in cui il filamento nervoso è in reale contatto con la materia solubile, ecc. Ossia, l'organo sensorio è la condizione per cui il sistema nervoso partecipa della natura fisica o chimica od organica, che le altre scienze hanno, così, il diritto di conoscere realmente e non simbolicamente. Ciò che vi ha di esclusivamente nervoso, e che compete al solo fisiologo studiare e ridurre a legge di natura, è l'eccitabilità; ma, se le togliamo ciò per cui si eccita, ossia lo stimolo in quanto fisico chimico ecc. (e non in quanto nervoso), la funzione nervosa apparirà, meno misteriosamente, come la condizione per cui le eccitazioni, pur mantenendo il loro distinto carattere dovuto ai rapporti sopradetti, si possono unificare e coordinare, data l'unità del sistema e la gerarchia dei centri. Meglio ancora, a un fisiologo spregiudicato, dovrebbe apparir evidente che la funzione nervosa è nervosa, non in quanto crei il mondo, le esistenze reali, ma in quanto le metta in rapporto con gli organi di moto, permetta la reazione motoria, vera effettuale e attiva funzione del sistema. Il mondo rimane là dov'è.
6. – Ma, si dirà, l'«immagine», non è almeno essa prodotta dal centro, non essendo reale? Non è almeno essa psichica, e non fisica? Un'immagine di suono o di colore, o non è niente, o è qualcosa di simile al suono e al colore immaginato. Allora, o anche il suono e colore sono immagini psichiche di qualcosa di reale esistente in sè e trascendente, e ritorniamo ai soliti assurdi scientifici; o per le immagini in quanto sensazioni riprodotte si deve cercare nella funzione nervosa, non la causa per cui siano piuttosto rosso che suono, ma la condizione organica che ciò permetta, che si dice «memoria» in genere, e questa non è una natura psichica che nel senso in cui è psichico il mondo intiero.
Qui entra in giuoco il secondo grande principio della fisiologia nervosa, a cui alludemmo; ed è quello che ci deve sciogliere, scientificamente, l'enimma: la memoria, naturalisticamente parlando, non è che la legge dell'adattabilità funzionale, propria del resto di tutto il campo biologico.
L'adattabilità funzionale nervosa è concetto acquisito alla fisiologia corrente sotto il nome di memoria organica. Questa legge si può enunciare così: L'eccitazione, non soltanto provoca (in modo ancor ignoto) i movimenti, ma li coordina in «atti» – unità dei movimenti contigui, ossia contemporanei e successivi –; e questa coordinazione, in ragione del suo ripetersi (o anche come tendenza ereditata) si traduce in una disposizione mnemonica (similare) a riprodurre con più rapidità facilità ed efficacia pratica gli atti già eseguiti, e a rinnovare tutti i movimenti contigui, a preferenza di altri nuovi, ogni volta che per un'identica a analoga eccitazione si rinnova il primo fra essi al quale sono coordinati. Da ciò gli automatismi.
In altre parole, la corrente dell'eccitazione motoria, cui questa legge unicamente si vuol riferire, si scarica di preferenza per le vie già battute, nelle coordinazioni motoriali più pervie, sì che il riprodursi d'un'eccitazione motoria in un certo senso – memoria di somiglianza, ch'è una proprietà biologica della vita – provoca automaticamente la tendenza o «innervazione» a riprodurre l'atto o la serie degli atti che vi son connessi per le passate esperienze: memoria di contiguità. Ciò basta a spiegare anche perchè, se nuove circostanze in parte inducono allo stesso atto (per es. avanzare un passo per camminare), ma in parte eccitano riflessi in altro senso (per es. se qualcosa ci arresta), si produce una innervazione motoria, un inizio di movimento che resta in potenza, ed è, per così dire, l'immagine non realizzata del primo, che uno strumento delicato può metter in evidenza. Di fatti, l'immagine sensoria d'un atto, per es. l'immagine fonetica d'una parola pronunciata «mentalmente», un ergografo applicato al laringe la rileva come un'innervazione motoria dell'organo periferico! (Inutile avvertire, che i movimenti non esistono che come una categoria di sensazioni articolari e muscolari, dette cinetiche e di sforzo, facenti parte della sensibilità organica o «senso interno»).
Purtroppo l'associazionismo psicologico, affidando invece la memoria sensoriale a un'occulta facoltà soggettiva d'associare e «richiamare» sensazioni e immagini – confuse coi lor valori rappresentativi e ideativi –, impedisce alla fisiologia di scorgere, che si tratta d'un adattamento funzionale agli stimoli del tutto simile all'automatismo motoriale; anzi, che, fisiologicamente parlando, è la stessa identica funzione. L'associazionismo è la legge del conoscere per mezzo della memoria, non dell'essere di questa; «contiguità » e «somiglianza» sono i nomi del rapporto a cui riduciamo l'unità e continuità di fatto dell'esperienza quando l'abbiamo prima astrattamente divisa. Analizzando questo bianco io lo posso dividere all'infinito in una quantità di punti bianchi e di momenti della loro durata, e riunir poi questi minimi astratti nel concetto di spazio e di tempo; ma le condizioni oggettive di tal concetto si devono trovare in una esistente continuità sensibile, chè altrimenti non saprei di che grandezza o durata parlare. Ora, l'unità (a posteriori) e continuità dell'esperienza ha le sue condizioni fisiologiche reali nell'unità organica e nella plasticità funzionale dei sensi, come le differenze e le discontinuità sono condizionate dalle diverse relazioni sensorie coi diversi stimoli della restante natura. La tanto vantata continuità del soggetto personale non esiste obbiettivamente che come memoria organica: tagliate una fibra e scompare. Direte dunque che il corpo è la causa dell'anima?!
Del pari, le «rappresentazioni» di cui parla lo psicologo, ma che soggettivamente sono valori conoscitivi, realmente sono o sensazioni o immagini capaci di rappresentare qualcos'altro di contiguo o di simile, a cui si rivolge il nostro volere, valutandolo appunto come reale (nella percezione) o irreale (nell'immaginazione), possibile o impossibile, ecc.: però, quella capacità o memoria non è che il contenuto dell'attività conoscente. Se quest'ultima, ora, se la vuole spiegare in sè stessa, non la può riferire che a condizioni naturali, fisiologiche appunto. Qui la memoria, anche sensoria e immaginativa, non è che la tendenza o polarità propria dell'eccitabilità nervosa, a rieccitarsi complessivamente e in tutte le direzioni nelle quali s'è già effettuata; tendenza che fisiologicamente condiziona così la percezione come l'immaginazione (fantasia e ricordo). Vediamola meglio.
7. – Sia data una sensazione, per esempio la serie delle note d'una frase musicale, che, avendole poi fisicamente divise, diciamo sucessive (contigue nel tempo) e contemporanee (contigue nello spazio) al loro relativo accordo basso: sensazione sempre data come qualificata (sonora), molteplice (quelle note distinte) e una (quella frase). Tale unità, ripeto, trova le sue condizioni individuali nella continuità nervosa, per cui le eccitazioni dello stesso organo, o anche di organi diversi contemporaneamente o successivamente interessati allo stesso oggetto stimolo (per es. vista e udito), s'unificano in una sola eccitazione coordinatrice delle differenze sensibili, a lor volta condizionate dalle diverse relazioni periferiche con l'ambiente.
Io non dubito, che gli organi di coordinazione di questa «associazione di contiguità» sensoriale, come dell'associazione motoriale prima descritta, siano i centri inferiori, sensori e motori, a lor volta collegati e formanti così l'arco sensorio motorio; come non dubito, che gli organi dell'adattamento a tali complessi, ossia della memoria sensoria e motoria, siano i corrispondenti centri superiori del cervello medio e posteriore; mentre i centri frontali, ancor più indirettamente interessati, gioverebbero a un controllo in secondo grado, di sovreccitazione o d'inibizione sui precedenti, allorchè questi sono già in funzione, come «attenzione» conoscitiva e volontaria. Ma lascio ciò ai competenti.
Costituitasi l'unità sensoriale fra le eccitazioni sensorie – comprese, s'intende, quelle da stimoli organici e cinetici – contigue nello spazio e nel tempo, essa più o meno rimane e si fissa, non come qualcosa di reale, come immagine in sè esistente in qualche misteriosa piega del pallio cerebrale, ma come tendenza funzionale, del tutto identica alla motoriale che n'è un caso; tendenza cioè a riprodurre più facilmente quella prima unificazione a preferenza di altre nuove (imparare), come a meglio distinguere gli stimoli abituali (chiarezza); e inoltre, a rinnovare insieme le eccitazioni che s'ebbero insieme allorchè una o parte di esse si rinnovi. La memoria di contiguità non è un fatto diverso dalla memoria di somiglianza: l'una implica l'altra, la somiglianza e differenza essendo dovuta all'azione periferica degli stimoli e la contiguità alla lor connessione condizionata nei centri.
Pertanto, se una seconda e terza volta ascolto la stessa frase, l'apprendo; ossia, è la stessa proprio in quanto la sento con più facilità e chiarezza nelle sue distinzioni come nella sua unità, ed è anche un'altra (un'altra volta) perchè qualcosa è invece diverso (nuovo) nelle nuove contiguità interne o esterne al mio corpo (oggi c'è qualcosa diverso da ieri). Se poi oggi odo soltanto le prime note, oppure leggo le note senza eseguirle, o comunque mi rièccito d'una parte soltanto di quel complesso, le note riudite «richiamano» quelle che le seguivano nel tempo, o le note lette richiamano quelle udite in loro contiguità ecc. Ma che significa qui «richiamare»?
Come un suono reale non lo può creare nè il cervello, nè tanto meno uno «spirito» eterogeneo, ma esso è quello che è – una natura realmente fisica contingente in particolari rapporti, che si attuano laddove ne esistono le condizioni (nell'organo periferico, col concorso dei centri) –, così l'«immagine» d'un suono «richiamata» da quello che lo precede abitualmente, e cioè indotta dalla tendenza coordinatrice dei centri a rieccitarsi nella direzione contigua alle eccitazione riprodotte, non può essere di natura diversa dal sensibile. Voglio dire, che l'immagine è immagine in quanto tende a realizzarsi sensibilmente, e quindi perifericamente. Infatti, di solito, l'immagine indotta per contiguità da uno stimolo similare, si realizza proprio a spese dello stimolo sensorio: per es. vedo solido questo tavolo anche senza toccarlo, avendolo tante volte toccato e visto insieme. La solidità non è mica un'immaginetta di solido chiamata da qualche parte del cervello: appartiene all'oggetto, alla sua unità sensibile, con la stessa realtà degli stimoli attuali che la suscitano; sul che si fonda, in quanto al contenuto reale, la percezione (se la realtà esterna corrisponde all'adattamento mnemonico), e, nel caso contrario, l'illusione.
Quando invece i nuovi sensibili contigui a quelli riprodotti, per così dire si oppongono all'attuazione delle tendenze mnemoniche, perchè in contrasto con le precedenti contiguità – com'è il caso, mettiamo, dell'udire il nome o del vedere un oggetto appartenente a una persona nota, i quali, pur richiamandone i caratteri (la figura, la voce ecc.) per essere stati percepiti insieme, non ci permettono di realizzarveli dove altri e troppo diversi oggetti sono presenti, come il foglio su cui leggo quel nome, il muro a cui vedo appeso quel cappello o appoggiato quel bastone –, l'immagine riman nella forma abbreviata di un'innervazione sensoriale, la quale appare «interna» (al corpo) sol per contrasto con le sensazioni attuali che diciamo fuori di noi: ma non appena o viene a mancare l'opposizione della realtà fisica esterna, come nel sogno, o l'innervazione è intensa al punto da vincerla, come nella allucinazione, la tendenza mnemonica ritorna a realizzarsi in modo del tutto simile alla sensazione.
8. – Ciò premesso, passiàmo a rivedere anche la parte dello psicologo e domandiamoci che cosa può esser soggetto in una sensazione. Se si risponde che il soggetto è il sensibile da essa astratto, come questo bianco, in quanto io lo vedo, o si confonde con le condizioni organiche della sensibilità, oggettive come tutto il resto (come quelle fisiche), o si confonde colvalore conoscitivo che questo bianco prende, coscienza di questo bianco, laddove la psicologia empirica doveva proprio definire la natura di tal coscienza e valore, distinguendola dal sensibile e dai valori (in questo caso oggettivi) ch'essa al sensibile attribuisce in opposizione appunto alla propria soggettività. È proprio questa opposizione vissuta nell'esperienza che deve esser ridotta a una distinzione concettuale dalla scienza, se vuol esser scienza naturale; e questo è possibile sol in quanto sia possibile ridurre la soggettività ad oggetto fra gli altri (e non viceversa, la oggettività a soggetto, còmpito della filosofia). Ma, ripeto, è ciò possibile?
La psicologia empirica è una scienza possibile solo in quanto riesca arappresentarsi un soggetto distintamente da tutti i suoi oggetti e tuttavia in rapporto naturale con essi. Ora, ciò che nell'esperienza ci può rappresentare il soggetto è la soggettività dell'esperienza stessa, sempre soggetto e mai oggetto: è il sentimento e niente altro. Il sentimento in quanto sentito, vissuto (o meglio, vivente), o rivissuto. Difatti, ripeto ancora, nella coscienza comune, l'io, inconfondibile col mondo restante, è il sentimento o l'emozione – fra cui il piacere o dispiacere conoscitivo (certezza o dubbio) – che sempre, come si suol impropriamente dire, «accompagna» le esperienze, dalle quali lo psicologo l'astrae, incominciando dal «tono di sentimento» d'ogni e qualsiasi sensazione. La serie di questi elementi doppiamente astratti si chiama poi affetto, interesse, persona ecc., forme soggettive dell'istinto o del bisogno biologico oppure individuale; ma nell'attuale esperienza, come ciò che diciamo oggetto esiste sempre in un reale sensibile, fosse pure un semplice segno o una parola rappresentativa d'un ben più vasto dover essere ideale, così ciò che diciamo soggetto esiste sempre e soltanto come sentire (piacere e dolore): dai sentimenti pratici – sentimenti semplici (detti «fisici») ed emozioni – a quelli detti morali e intellettuali, dal sentimento di sforzo e d'attenzione al sentimento del conoscere e del riconoscere, dal breve e momentaneo interesse alla passione. La vita del soggetto è la vita dei sentimenti: dunque, però, in quanto vivono, in quanto sono attualmente sentiti o risentiti!
La sensazione è sentita; in ciò, e in ciò solamente, è soggettiva, individuale e spontanea. Nelle analisi e sintesi conoscitive che ne facciamo, i sensibili divengono le rappresentazioni delle cose e dei fatti, degli oggetti di natura; e le lor qualità (come bianco e pesante) per quanto relative al conoscere, son sempre oggettive, dovendo essere in sè; i sentimenti invece ci rappresenteranno, o meglio ripresenteranno la natura soggettiva dei valori che queste cose e questi fatti hanno per noi e debbono avere in sè.
La sensazione è sentita. Un sensibile astratto (come un bianco e un pesante) è anche un astratto piacevole o spiacevole; lo stesso si dica se isoliamo una sensazione rappresentativa di qualcosa, per es. la parola «sangue», con la rispettiva emozione spiacevole. In tal arbitrario isolamento d'un istante nel corso dell'esperienza, il sentimento – la parola lo dice – ci apparisce conoscitivamente come passività del soggetto di fronte all'oggetto «esterno», e cioè come un subire («passio») l'oggetto reale. Ma chi sarà mai, allora, il soggetto reale?
Però se, invece d'arrestarci ad una sensazione astratta, lasciamo che l'esperienza si svolga, nella sua unità a posteriori, come un sèguito di sensazioni in parte simili e in parte diverse, o meglio come un variare di sensibili legati dalla memoria, il sentimento che li «accompagna» apparisce tosto in un rapporto inverso alla «passio» sopra detta: non è un soffrire, ma un volere; non «passio» ma «actio». Infatti, piacere e dolore non son momenti assoluti d'un assoluto soggetto; quei termini indicano piuttosto i due poli d'un decorso emotivo che procede, in definitiva, dal dolore al piacere. Non v'ha dolore, per quanto intenso ed acuto – questo vocabolario psicologico («passivo», o «attivo», «decorso», «acuto» ecc.) è per forza analogico e materialistico in quanto vuol essere obbiettìvo –, che, se non è morte, non s'avvii a un sollievo, che non s'apra uno spiraglio di consolazione e di vita; non v'ha piacere, per quanto pieno e gioioso, che, se non si calma nell'appagamento, non aspiri a un maggior piacere, a una più reale conquista.
Si tratta dunque sempre d'un decorso emotivo da un maggiore a un minor dolore, da un minore a un maggior piacere. Breve o duraturo, debole o intenso, graduale o scoppiante, semplice o misto, univoco o alterno, eccitante o deprimente, fecondo o sterile, il sentimento si dirige al piacere; o meglio, siccome il piacere non è niente, all'oggetto che dev'essere (più) piacevole, mentre che l'oggetto dato, il reale sensibile, che rappresenta l'oggetto ideale, è, per sè, più doloroso o men piacevole. Ecco dunque che il sentire apparisce come impulso e appetito, amore e odio (affetto), e, insomma, attività volontaria. Basta riconnettere l'astratta serie soggettiva dei sentimenti come appetiti con l'astratta serie oggettiva dei sensibili come sensazioni rappresentative d'oggetti piacevoli e dolorosi, e basta, pensare che fra le sensazioni son anche quelle organiche rappresentative di possibili movimenti e atti, per comprendere che il soggetto, riportato nel suo real concreto, è volere.
Il soggetto psicologico, il soggetto empirico – per intenderci, quello che niuno può negare anche al suo cane e al suo gatto – evidentemente non è, non può nè dev'essere una cosa, una realtà teoretica, una natura chiamata anima. Naturalisticamente parlando, l'anima è il senso: il senso, vale a dire quel complesso di particolari condizioni organiche per cui il sensibile è sentito, e che pertiene al fisiologo studiare, sebbene il biologo ancor chiami questi rapporti «psicofisici», «psicofisiologici» o «fisiopsicologici», invece di chiamarli semplicemente «nervosi», per antichissimi preconcetti animistici (oppure per facilità didattica): sì che non sa più in che far consistere la natura dell'eccitazione nervosa, scambiandola con la psichicità, ossia col valore soggettivo dei sensibili.
Se invece intendiamo per soggetto psicologico la volontà – la quale altro non è che la finalità riferita a un individuo concreto –, non importa più pensarla come una cosa nè come una causa: la volontà è un rapporto, e un rapporto pratico e non teoretico (come sarebbe invece una legge scientifica), fra il sentimento o natura soggettiva dei fini – soggettivo in quanto dolore verso piacere, appetito – e l'oggetto, che, in rapporto alla finalità, diviene valore. In altri termini, la volontà è il nome che diamo al rapporto di soggetto a oggetto in quanto è pratico; il solo sentimento ce la può rappresentare come soggettiva finalità, come appetito: ma non appena vogliamo intendere come si attui e realizzi il volere – lo vogliamo cioè intendere come reale «attività» –, nulla di più nefasto che il concepire la volontà come una forza occulta o miracolosa che stia sotto i suoi reali atti sensibili, residuo di vedute spiritualistiche, ossia di credenze in fondo materialiste, mezza scienza degli scienziati mezzo filosofi (nè scienziati nè filosofi). La volontà messa sotto la serie delle cause reali, come la conoscenza presa come causa della causalità conosciuta, divengono, viceversa, dei semplici inutili epifenomeni di ciò che accade e che si conosce come accaduto. La finalità soggettiva si realizza come causalità oggettiva: è la stessa cosa, nel senso che la finalità diviene valore teoretico in quanto apparisce realmente nella concatenazione causale.
Lo psicologismo crede, al contrario, che un sentimento soggettivo sia come tale l'effetto di stimoli oggettivi; e, come appetito e volere, produca a sua volta gli atti reali. E pretende che ciò sia provato dallo studio psicofisico, parlando perfino di un tempo di reazione inteso come il tempo che impiegherebbe uno stimolo fisico a diventare psichico, ossia ad essere sentito, e il tempo che impiegherebbe il sentimento, come impulso volontario, a «trasmettere» (sic!) il comando ai movimenti... Non varrebbe la pena di discutere questa opinione, chiamata «positiva», se non fosse tanto inveterata, da farne sospettare che sia un'ipotesi necessaria per poter parlare dei rapporti fra anima e corpo in modo oggettivamente comprensibile e comunicabile. Però già in seno allo stesso positivismo scientifico s'è fatta strada un'opinione che lascia minor campo alle ambiguità di questo genere. Ritorniàmo ancor una volta sul terreno delle scienze positive.
9. – Tutti ricordano la vecchia ma per i suoi tempi audacissima teoria Lange-James sulle emozioni: lo stimolo emotivo (per es. la vista del sangue) provoca per via diretta i riflessi organici che accompagnano ogni emozione; la quale, però, non sarebbe che il sentimento complessivo della perturbazione organica: per es., non tremiamo e palpitiamo perchè abbiamo paura, ma, essi dissero, abbiamo paura in quanto palpitiamo e tremiamo. Questa teoria ebbe molta notorietà e poca fortuna, perchè feriva alcuni modi inveterati d'intendere il rapporto psico fisiologico in base a distinzioni e causalizzazioni pseudofilosofiche fra organismo e psiche. Ma io non conosco una critica seria di essa, e il riprenderne la discussione gioverà a chiarire il nostro problema.
Vediamo dunque prima che cosa consta dal lato strettamente fisiologico. L'odierna psicofisiologia ha confermato sperimentalmente il fatto, che tutte le emozioni, anche più lievi (p. es. musicali), quelle altresì che si direbber di semplice «interesse», fosse pur soltanto «intellettuale» (p. es. sorpresa, curiosità, dubbio teoretico ecc.), sono «accompagnate» da concomitanti organici in forma di riflessi rilevabili con gli strumenti (pletismografo, cardiogr., sfigmogr., pneumogr. ecc.); fra cui più costanti e prime ad apparire le perturbazioni dei ritmi interni della circolazione e respirazione, che vengon accelerati o ritardati e nel contempo attenuati o intensificati. Questi e gli altri riflessi organici meno studiati dell'emozione (per es. le influenze sul tono d'innervazione dei muscoli, la sovra o sottoeccitazione ghiandolare ecc.), e le conseguenti modificazioni della normale funzionalità di organi e tessuti, si rivelano come sensazioni organiche (p. es. di tachicardia, d'affanno, di tensione ecc.) e cenestetiche; ed entrano a lor volta nel decorso emotivo come nuovi stimoli che s'aggiungono al primo. Gli stessi concomitanti organici hanno anche un effetto periferico, generando una parte dei movimenti d'espressione (p. es. rossore o pallore dalla vasodilatazione o costrizione dei capillari; tremito dall'astenia muscolare; grido sospiro riso ecc. dalle modificazioni respiratorie, ecc.), divenendo fonti d'emozione simpatetica anche in altri.
Ma il quadro delle reazioni motorie spontanee dell'emozione non è qui terminato. Bisogna aggiungervi: prima di tutti, i movimenti automatici o abitudinari utili, ossia coordinati in atti che modificano il nostro rapporto con lo stimolo emotivo (p. es. fuggire, afferrare ecc.), i quali pure influiscono come nuovi stimoli sul decorso emotivo (per es. fuggendo aumenta la paura) oppure lo risolvono. Inoltre, quella parte di movimenti espressivi che son chiamati gesti (p. es. stringere i pugni, coprirsi gli occhi, agitarsi ecc.), che già il Darwin definì come moti e atti altra volta utili (per assalire, per difendersi, per fuggire ecc) ed ora ripetuti – abbreviatamente – per automatismo ereditato o acquistato. Infine, i movimenti dell'attenzione, che son movimenti d'adattamento degli organi sensoriali (fissar lo sguardo, aiutar la visione coi moti delle palpebre, della fronte, della testa; star in orecchi, tastare, annusare, gustare ecc.) e di coordinazione simpatetica degli atti sensoriali (aiutare con la vista la sensazione uditiva o tattile, imitare con gesti il movimento guardato, il ritmo udito ecc.); e inoltre inibendo le sensazioni e i movimenti distraenti (ripararsi dai rumori, chiuder gli occhi, concentrarsi per meglio fissare una rappresentazione endofasica ecc.). Quest'ultima categoria di riflessi (dell'attenzione) accompagna soltanto le emozioni da stimoli non decisivi – che non provocano, così come son dati, un'azione pratica –, ossia stimoli vaghi, non chiari, che destare per es. il dubbio, la curiosità ecc., e sono l'inizio dell'attività conoscitiva in quanto appunto è attività reale (attenzione). Anch'essi s'aggiungono alla serie degli stimoli d'un dato decorso emotivo come sensazioni di sforzo e tensione sensoriale.
Il lettore vede dunque, che tutto ciò che obbiettivamente denominiamo l'aspetto organico dell'emozione non è che l'insieme di sensazioni organiche che seguon la prima, dell'oggetto stimolo. Si tratta di comprendere se, definita l'emozione come un decorso sentimentale, questo sia da considerarsi come un fatto psichico in sè, effetto dello stimolo emotivo e causa a sua volta dei fatti organici di reazione sopra elencati – ossia come un fatto soggettivo interposto fra due oggetti in modo mitico, come vuol la teoria tradizionale –, ovvero l'emozione non sia che la serie delle sensazioni, oggettivamente concatenate fra loro in modo diretto, valutate soggettivamente: ch'è l'interpretazione logica della teoria Lange-James (sebbene non precisamente la loro).
S'accèttì almeno provvisoriamente, come regola metodologica, il piano d'indagine obbiettiva proposto dal Betcherew e dal Paulsen sulle tracce del James: ricerca del rapporto obbiettivo stimolo-reazioni organiche (comportamento); e poi vedremo se la soggettività dell'emozione esista come realtà di fatto fuori di esso. All'esame obbiettivo, fra l'arco riflesso più elementare e diretto, come batter le ciglia all'avvicinarsi d'un corpo all'occhio, e il rapporto stimolo emotivo-reazioni organiche, non c'è che una differenza di grado e di complessità: lo stimolo è emotivo (p. es. la vista del sangue o la lettura d'un telegramma) in quanto non eccita più soltanto per la sua efficienza sensoria (il rosso, le parole scritte), ma in quanto, per effetto della memoria, è stimolo-segno – o, come si dice, «trasferto» – di sensazioni simili e contigue.
Tuttavia, già a prima vista, il rapporto fra lo stimolo e la reazione appare analogo a quello d'un semplice riflesso: veggo spremere un limone e avverto immediatamente la secrezione salivare, benchè questa sia coordinata non alle qualità visive attuali dello stimolo ma al contiguo sapore. Il trasferto agisce proprio come lo stimolo per sè efficace, perchè è nel trasferto che intuiamo l'oggetto del nostro piacere o dispiacere, senza bisogno di frapporre un'operazione conoscitiva che lo analizzi, e distingua le rappresentazioni dai sensibili. Prima di «conoscere» (in senso stretto) si sente, e il conoscere attivo è un modo di sentire, ossia di valutare, come oggettivamente è un modo di reagire, ossia di fare.
10. – Restiàmo ancor un istante all'emozione, alla natura del soggetto empirico, non ancor cosciente (nel significato di conoscente); l'emotività è la sfera dell'«inconscio» psichico, espressione che diverrebbe contraddittoria se psiche significasse coscienza in quanto conoscitiva; emotività comune, com'è presumibile, a tutti gli esseri senzienti.
Ma la natura del soggetto è «natura» come realtà obbiettiva, concetto biologico. Che cosa consta al biologo? Uno stimolo rieccita tutto il complesso delle coordinazioni sensorio motoriali secondo la memoria (organica) e per le vie più pervie (più rapide, più facili, più adatte), riducibili a tendenze funzionali, ereditate o acquisite. La parte nuova dello stimolo attuale, appunto perchè agisce su altre e magari opposte tendenze, può modificare le reazioni, avviando a nuove coordinazioni, nel che si suol far consistere la differenza fra un atto «involontario» e uno «volontario». Se presentiamo a un cane una miscela d'acqua e calce nella scodella in cui sogliamo offrirgli del latte, egli vi si precipiterà sopra e l'esame riscontra i soliti riflessi organici (come la secrezione salivare); deluso, dopo due o tre prove, rifiuterà l'offerta e la vista del candido liquido non gli provocherà quei riflessi, che un'opposta corrente ha inibito. La volontà, fisiologicamente, non è che il giuoco di più impulsività (come, psicologicamente, di affetti e sentimenti in contrasto). Per il fisiologo, volontà e coscienza non si distinguono dalla impulsività e dal senso se non in questo: che, in presenza di stimoli non decisivi – dubbi, plurivoci, freddi o antagonistici fra di loro, come tendenze a reagire in direzioni multiple od opposte – interviene una fase di sospensione e inibizione dell'attività spontanea, dovuta al controllo dei centri indiretti, che si traduce in attuazione, che ci serve a chiarire, distinguere, valutare, scegliere e deliberare, vale a dire a «pensare».
Ma si vuole e si pensa perchè si sente e si appetisce. Orbene: in quella realtà fisica e fisiologica, ch'è il complesso (emotivo) stimolo-reazioni organiche sopra descritto, estesa nello spazio e nel tempo e pertanto quantitativamente misurabile, lo psicologo ha il più modesto còmpito di astrarre l'elemento o qualità, ch'egli chiama soggetto psichico, l'emozione; purchè, s'intende, non confonda di nuovo identificandoli come soggetto i sensibili, che ha già chiamati oggetto, con la lor soggettività attuale, il sentimento. Ogni sensazione, analizzandola, divien oggettiva in quanto sensibile (visiva uditiva ecc.) e soggettiva in quanto sentita (piacere e dolore). La più elementare delle sensazioni, come per es. certe sensazioni interne, credute specifiche, di dolore, presenta almeno la sua oggettività come localizzazione corporea («segno locale», anche se impreciso); e la più chiara e complessa, come la sensazione percettiva, ha il suo «tono di sentimento», chè l'assoluta freddezza e indifferenza sarebbe anche, per «noi», inesistenza.
A meglio considerare, la distinzione che si suol porre, quando si dice che le eccitazioni da stimoli lontani (visive, uditive e sopra tutto ideative, ossia fonetico rappresentative) son più fredde di quelle da stimoli a contatto con l'organismo (olfattive, gustative, tattili, termiche), e queste meno calde delle sensazioni organiche (cinetiche, cenestetiche, dei visceri e dei tessuti, quest'ultime comunemente dette «dolorifiche» perchè le più dolorose), è una semplice approssimazione al concetto più esatto, che tutte le eccitazioni sono piacevoli, spiacevoli o dolorose in quanto, proprio, sono eccitazioni, ossia in quanto la sensazione è organica. Anche i sentimenti più spirituali, per il biologo sono modificazioni della cenestesi. In altri termini, piacere e dolore sono il soggetto della eccitazione – loro reale natura, se natura significa essere spazio temporale d'un'esistenza –, come sentimento rispetto alla semplice sensazione attuale, e decorso sentimentale più o men complesso, ossia emozione, rispetto a un'eccitazione molteplice e complessa.
È dunque vano andar a cercar i sentimenti fuori dell'eccitazione, e tanto più far dipendere questa da quelli. Astratti i due termini, che in natura son la stessa «cosa», si voglion separati e causalmente connessi anche nella realtà. La posizione Lange-James era pertanto scientificamente più rigorosa di quella della psicologia corrente, perchè considerava l'emozione come l'aspetto psichico di tutto il quadro dell'eccitazione sensorio motoria, senza interporla causalmente fra lo stimolo e gli atti, come un soggetto che riceve qualcosa e fa qualcos'altro; e implicava il giusto concetto, che il sentire è una risultante di tutto il complesso della vita come attualità e memoria, in rapporto con tutto l'Essere.
Piuttosto, nel concetto del James, si cela un altro errore: il parallelismo psicofisico. L'emozione-sentimento non sarebbe che l'equivalente soggettivo dell'eccitazione emotiva. Di conseguenza il fatto psichico sarebbe un mero «epifenomeno» di quello organico: tutto ciò che accade, accadrebbe per le cause meccaniche, e la psiche starebbe lì a rendercene inutile testimonianza, quasi vano piacere o dolore. Determinismo stoico.
Ma no. Prima di tutto, non si tratta di due parallele, ma di due valori della stessa linea, che a me può piacere e a te dispiacere mentre è diritta o curva per tutt'e due (universalmente). Il profumo della rosa mi piace: rosa profumata e piacere non sono però due realtà; nell'esperienza diretta (per es. d'un bambino) sono un «fatto» solo; in noi, per comodo d'analisi scientifica, diventano tre concetti: uno fisico, uno fisiologico e uno psicologico. I primi due hanno un valore oggettivo, in quanto constano ugualmente a tutti quelli che hanno i sensi; il terzo ha un valore soggettivo – o meglio, è soggettivo – in quanto il piacere è soltanto mio, è vita vissuta, praticità di quella sensazione, non è un altro aspetto (oggettivo) di essa. Pertanto, se si parla di realtà naturale, tutto è oggettivo, perchè tutto è riducibile a rapporti in sè, compreso il sentimento come vita in funzione degli stimoli fisici; se si parla dei valori, compreso il valore reale, tutto è soggettivo in quanto è sentito e quindi apprezzato e giudicato, anche se si deve giudicar oggettivamente. In somma, il parallelismo non è che la dualità di teoretico e pratico, che dunque è pratica e non teoretica, e perciò filosofica e non scientifica.
In secondo luogo, «sentimento» è un'astrazione psicologica che, appena ottenuta per analisi, dev'esser riportata all'unità dei fatti come un lor elemento arbitrariamente avulso dalla vita concreta. Preso per sè, un dolore o un piacere, ripeto, non è nulla, e rimane indefinibile. Nell'esperienza c'è piacere perchè c'è dolore: essi, come dicevo, sono i due poli del decorso della vita animata, il quale procede sempre dal dolore al piacere, dalla mancanza al possesso, dalla passività (soffrire) all'attività (volere), dalla morte alla vita. Allora, quel sentire, prima astrattamente isolato e obbiettivato, ci si presenta come tendenza, che gli psicologici chiamano appetire, e alcuni chiamano il subconscio (perchè organico) della coscienza chiara, ossia del pensiero. Quanti equivoci! ci vorrebbe un volume a dipanarli. Tendenza, dicevo: ossia spinta, spontaneità dell'essere concreto della persona, attività pratica e teoretica. Ecco che il parallelismo si chiude nell'unità di soggetto e mondo come volere, e il soggetto supera sè stesso come pensiero.
Ma intendiàmoci, la volontà, spinta dal sentimento e diretta dallo stimolo, non è mica una «causa psichica» inserita fra l'eccitazione e la reazione, chè torneremmo così al punto di prima. La volontà, cioè a dire il sentimento, in concreto, è l'attività reale che, perchè sentimentale,valuta gli oggetti (stimoli e atti), e così appunto determina i fini e i mezzi, fra gl'infiniti possibili dell'esperienza. La serie delle cause naturali e quella delle cause teleologiche nè si escludono (se non praticamente opponendosi), nè sono il parallelo l'una dell'altra: se muovo la mano per coglier quella rosa, chi muove è l'innervazione motoria, che si realizza di preferenza in quell'atto perchè la rosa mi piace. Ritorneremo su ciò; ma non su l'assurda opposizione d'una rosa soggetto cosciente ad una rosa stimolo reale: «ordo et connexio idearum idem est ac ordo et connexio rerum».
11. – Lo schema psicologico più semplice – l'ipotesi scientifica più aderente all'esperienza, che non la reduplica in forze occulte, come son le «facoltà» della psicologia sostanzialista – è il seguente:
Parlare di soggetto significa semplicemente sentire, ossia mettersi nel sentimento – per cui il soggetto è ineffabile –: punto di vista pratico, a cui si riduce la famosa «introspezione» (teoreticamente, ripeto, tutto è ugualmente intro o estrospettivo). Nell'esperienza sensoriale, la psicologia non può intender per soggetto la sensazione stessa, ma la distinzione in essa del sentire dalla cosa sentita. Allora, non si tratta di una distinzione d'oggetti, d'una differenza di nature: la natura del dolore e piacere è ciò che piace o dispiace, vale a dire, in posteriore analisi e sintesi conoscitiva, il corpo nel rapporto con gli stimoli secondo la causalità naturale e il processo d'adattamento funzionale a questo rapporto (memoria). Si tratta d'una distinzione pratica (per opposizione invece che per identità e contraddizione teoretica), perchè il sentimento non è che il valore empirico soggettivo, e pertanto psicologico, della sensazione oggetto. Il sentimento è finalità, impulso, volere – dolore verso piacere in tutte le infinite forme e gradazioni de' suoi sempre nuovi e originali coloriti –, chenoi (in quanto vogliamo) opponiamo alla causalità naturale, rovesciandola in un finalismo pratico. Ma questo «noi» non è che l'opposizione stessa volontaria che si realizza obbiettivamente, conoscitivamente, come valore teoretico, causalità di natura, attività concreta.
Il «fatto psichico» non è dunque concepibile come un'esistenza reale, ma come un rapporto di valore, implicito fin ch'è natura, che si chiama volere – il rapporto fra l'astratto sentimento e l'astratta sensazione, che in concreto è l'atto –, di cui il conoscere e il pensare son le forme più evolute, per le quali il valore, da implicito ed empirico (inconscio) diviene esplicito e formale. Ma l'analisi della sensazione non vi trova nè l'«in me» – che apparisce nel pensarla rappresentativamente nei rapporti organici –, nè il «fuori di me» che dipende dai legami dei sensibili che ci rappresentiamo come stimoli esterni al corpo.
La volontà empiricamente è il dualizzarsi della sensazione in esistenza e sentimento di questa esistenza: non è un duplicarsi della cosa (sostanzialismo) nè un differenziarsi di due aspetti o caratteri della cosa (parallelismo); è il suo trascendersi, il suo divenire, la sua vita. Una sensazione tende, in quanto sentita, ad altro da sè (di più piacevole, di meno spiacevole), ossia a una nuova sensazione possibile (fine), attualmente irreale, di cui la prima è stimolo o rappresentazione. Questo processo reale, di cui l'astratto soggetto è, direi, l'incontentabilità dell'oggetto, costituisce ciò che la scienza chiama volere. Essa ancor lo intende come un soggetto che stia fra uno stimolo verso cui è passivo (sentire) – il che induce a crederlo, materialisticamente, un effetto – e un atto verso cui è attivo (appetire) – il che induce a crederlo una causa –, atto che gli serve di mezzo per convertire il primo stimolo in altro più piacevole o men doloroso, per realizzare i valori rappresentativi del primo stimolo reale. Ma la scienza non può nè deve far altro che ridurre il processo al rapporto, interno alla serie delle sensazioni stesse, per cui queste, come stimoli sentiti, appariscono condizione del sentimento, e, come oggetti dati o rappresentati (fra cui gli atti), appariscon mezzi e fini teleologici. Da nessuna parte s'impone un rapporto causale, di produzione dello psichico dal fisico o viceversa, che autorizzi al tempo stesso il dualismo ontologico di materia e spirito e la produzione dell'uno dall'altro: problemi mal posti, quando son posti in natura.
Non essenzialmente diversa è la natura del «pensiero» o attività conoscitiva in generale. Pensare significa ancora, soggettivamente, sentire, e quindi appetire; si dice desiderare in quanto l'appetire è rivolto a oggetti ideali, ma non cessa d'esistere sensibilmente, d'esser il sentimento d'una sensazione (per es. d'una parola) rappresentativa di qualcos'altro; ossia d'una sensazione che vale soggettivamente per quel qualcos'altro che rappresenta. Qui l'appetire, invece d'attuarsi in un atto pratico – in un atto che modifichi realmente l'oggetto, trasformando la prima sensazione (stimolo) in una nuova –, si attua in un atto conoscitivo, l'attenzione, della stessa identica natura degli atti pratici (è un adattamento funzionale allo stimolo), ma che condiziona una valutazione del sensibile, percezione e giudizio: la percezione, come noi sappiamo, è un rapporto di valore implicito, una conoscenza in concreto, dove l'atto conoscitivo analizza l'esperienza per metter in valore gli elementi e i caratteri capaci di rappresentare ciò che l'oggetto dev'essere per essere realmente e praticamente; il giudizio esplica la valutazione, la esprime realmente. Anche qui l'esistenza del soggetto non è in sè, non è una sostanza: egli è il valore della cosa, che nel giudizio si esplica concettualizzando il rapporto fra sentire e sentito, nella coscienza. Quando un sensibile, analiticamente emerso per l'attenzione, vien scelto a rappresentare il fine del volere, il dover essere, esso diviene idea, valore esplicito.
Il termine «conoscenza» va preso in generale, come pensiero, e non soltanto in particolare, come conoscenza teoretica. Conosciamo prima di tutto noi stessi, e cioè: poniamo in qualcosa (oggetto pratico) i fini del nostro appetire, e questo rapporto si può chiamare coscienza, valore (pratico) d'un oggetto, suo dover essere, ch'è sempre un'oggettivazione del sensibile, il fine posto in qualcosa d'ideale e opposto all'esistenza reale sensibile (che pur ce lo rappresenta), l'a priori dell'esperienza. Perciò, l'antinomia di soggetto (come fine) a oggetto (come sensazione) è la legge stessa del pensiero: ma il fine è oggettivato, è valore (dover essere) dell'oggetto. L'antinomia, ripeto, non è dualità di due cose, ma trascendentalità del valore sulla sensazione data (presente come sentimento).
Il pensiero pratico, che realmente consiste nella deliberazione – attenzione comparativa fra le molteplici sensazioni (oggetti dati) per i molteplici appetiti (soggetto dato) di cui è ricca l'esperienza umana; e quindi scelta o emergenza dell'uno su l'altro secondo tal valutazione o giudizio pratico – così facendo traduce il soggetto empirico in fine, perchè lo mette in rapporto agli oggetti; mentre traduce l'oggetto empirico in valore, perchè preso in rapporto al soggetto; ond'è che il pensiero oggettivizza il soggetto stesso, superandone l'essere attuale e determinandone il divenire. Ma si noti che anche la sensazione, che nel caso contemplato (d'una deliberazione pratico-utilitaria del tipo più empirico) verrebbe messa in valore (giudicata migliore) e scelta sulle altre, non vale più solamente per ciò che realmente è, ma vale in confronto con la reale esistenza dell'esperienza restante: come modello, come «bene» opposto ad essa nel rapporto pratico. È già un'idea (ideale teoricamente, idea-forza praticamente), una rappresentazione del valore (fine oggettivato, «bene») realizzata nel sensibile. Un simbolo. Perciò anche la nostra azione è diretta a trascender l'esperienza attuale, e a trasformarla.
Da questo caso, al porre razionalmente il valore pratico in un concetto etico di bene assoluto, ossia necessario e universale, non c'è differenza che di grado. L'opporsi assolutamente al sensibile, come soggetto assoluto (libero) all'esperienza empirica – e quindi come volontà autonoma e fine universale opposto a tutte le sue condizioni e cause naturali è tuttavia l'oggettivarsi del soggetto empirico, del sentimento, in una legge, che ne diviene il fine necessario, perchè il solo che appaghi l'infinita esigenza soggettiva; e valore assoluto, perchè deve valere in sè, oggettivamente, come legge morale. Inutile avvertire che tale legge esiste pur sempre, almeno, in un giudizio, in una espressione fenomenica che rappresenta in parole il valore. Il volere, in quanto attività pratica del pensiero, non è che una posizione di valore, un giudizio, per il quale il soggetto si costituisce oggettivamente come un dover essere in sè (assoluto) dell'oggetto sensibile, che perciò gli apparisce soggettivo, relativo all'esperienza.
12. – Ma il pensiero, se è volontà pratica e posizione deontologica in rapporto ai fini soggettivi e, in ultima analisi, al sentimento, è anche conoscenza e posizione logica in rapporto all'esistenze sensibili e, in ultima analisi, alla sensazione; e questo secondo rapporto non definisce un'attività diversa da quella che costituisce il primo. Nell'uso pratico dell'attività del pensiero, il conoscere è il mezzo del volere: è quel volere che, valutando l'esperienza secondo i fini soggettivi, per trascendere l'essere nel dover essere, la conosce per trasformarla, e quindi adopera l'oggetto come mezzo. Ma, per ciò fare, deve valutare l'oggetto in sè, deve oggettivare l'oggetto, trasformandosi in attività teoretica, in volontà di conoscere. Attività pratica e teoretica sono i due «usi» dello stesso volere in quanto pensiero; e l'antinomia di soggetto a oggetto, che n'è la legge, si attua fra l'aspirazione del soggetto a oggettivarsi in un oggetto universale e assoluto (valore morale) trascendente ogni sensibile, e quindi reale sol come esigenza e legge formale, e il suo bisogno d'adeguarsi all'esistenza reale per poterla trasformare, ch'è la necessità di determinare il valore di realtà per imprimervi la propria legge spirituale (i valori pratici).
Allora, l'esperienza reale, di mezzo che sempre era ai fini pratici, si traduce in fine conoscitivo (teoretico) del volere; e il valore, che praticamente tende a obbiettivarsi in un dover essere, si relativizza invece, come vedemmo, all'esistenze reali, nelle categorie della conoscenza. Queste sono trascendentali, ossia a priori, rispetto ai contenuti sensibili, perchè appunto sono valori, fini conoscitivi del volere, regole della conoscenza teoretica; ma, ripetiàmolo per l'ultima volta, non sono (non debbono essere per essere logiche) trascendenti, essendo il trascendente non l'essere ma il puro dover essere. Meglio ancora, il dover essere oggettivo dell'oggetto (la verità teoretica) non è che l'assoluto, l'in sè dell'esistenza sensibile, alla quale ultima ogni legge e costruzione logica si deve adeguare. Per cui, ai due poli della stessa attività del pensiero si trovano i due valori assoluti antinomici: il soggetto assoluto, come dover essere morale (libertà) e l'assoluto oggetto, come realtà ontologica, dover essere della sensazione (necessità).
A questo punto, anche il filosofo deve scegliere la sua via. Vuol egli affermare lo Spirito, determinare i fini soggettivi come valori in sè? Si ponga, come fece il Kant della Ragion Pratica, dal punto di vista pratico. Allora, il mondo sensibile, il mondo delle condizioni empiriche, il mondo degli stessi nostri sentimenti, dello stesso nostro empirico volere, l'io reale come il reale oggetto, non contano più niente; ciò che importa è la norma etica: il dovere. La pratica, per esser pratica, non ha bisogno d'una giustificazione teoretica, perchè è fine a sè stessa. Le basta l'intuizione del dovere, l'intuizione metafisica, ch'è la trascendentalità stessa d'ogni sentimento in quanto sentito. A Dio, pensava lo Spinoza, si giunge per tutte le vie, da qualunque particolarissimo e soggettivissimo punto si prendano le mosse: basta amarlo, volerlo praticamente, ossia sentirlo. La vita del sentimento è tutta la nostra vita: «io» sono i miei sentimenti, i miei amori e i miei odii, i miei affetti e le mie passioni; nulla più. Ho dunque il diritto di affermarmi, di essere me stesso, affermando le mie finalità come tali, determinando come tali i valori pratici, assoluti. Qui non c'è nulla da relativizzare.
Ma il filosofo non è solo uomo pratico o religioso; vuol criticare la sua praticità e religiosità, come vuol criticare la sua conoscenza ed esistenza di fatto. Meglio ancora, il nostro vero ed ultimo scopo è quello di conciliare, a traverso tal critica, l'antinomia fra il pratico ed il teoretico, fra il soggetto e l'oggetto, fra l'assolutezza del valore come fine e la sua relatività oggettiva e conoscitiva. Questa è la peculiare teoreticità del filosofo, che ansiosamente si domanda: il dover essere, come può realmente esistere e attuarsi?
L'idea pura, la sintesi tutta a priori – risponderebbe il Kant della Ragion pura, il Kant criticista –, sia che rappresenti (esprima in parole) l'assoluto oggetto (Dio), sia che si rappresenti il soggetto assoluto (Io), non se li può rappresentare che praticamente, come postulati. Essi posson esistere in un mondo noumenico, sono dei pensabili, anzi sono le condizioni necessarie per pensare – inteso il pensare come valutare praticamente o giudicare teoreticamente (spiegare) il fenomeno –; ma ciò che realmente esiste, ciò che il pensiero, pur trascendendolo, giudica esistente, nel tale o tal altro modo concettuale, è il fenomeno: «il cielo stellato sopra la testa», ossia un concetto spaziale relativo ai sensibili, «il sentimento del dovere nel cuore», ossia un concetto dell'io come fatto di natura. Allorchè vado a cercare che cosa sia questa natura del sentimento, non trovo che un fascio di nervi in eccitazione; allorchè mi chiedo che cosa realmente sia la continuità del soggetto, non trovo che memoria e adattamento organico; allorchè voglio capire che cosa sia il pensiero stesso che ora pensa, debbo farlo consistere in uno sforzo d'attenzione che si attua in parole. La realtà è la natura.
La critica dopo Kant è andata ancora più in là, fino a un radicale empirismo, fino a un assoluto nominalismo. Di reale non c'è che l'esperienza nel suo divenire, nel suo farsi attuale; i valori son tutti qui, nell'esistere di ciò che esiste individualmente, nelle qualità contingenti sempre nuove e molteplici del farsi attuale. Il pensiero stesso è reale in quanto si attua ne' suoi contenuti; in quanto forma, idea, non si tratta che di schemi astratti, traduzione schematica dell'esperienza che, anche per lo Hegel, segue il farsi reale, è reale per il già fatto. In fondo, la «realtà» stessa è una parola: esiste la sola esistenza, e l'unico vero modo di conoscerla, se non è la medesima coscienza intuitiva che ne rimanga al livello, è tutt'al più la conoscenza storica, che rivive attualmente il fatto così come si fece, nella sua individualità e particolarità. Anche qui, contingentismo e attualismo hegeliano si possono dar la mano l'esperienza non si trascende; anzi, la trascendentalità (anche etica e religiosa) non è che esperienza.
Ma, pur rimanendo nella nostra posizione, più vicina a quella kantiana (perchè facile è combattere l'arazionalismo di coloro che ragionano!); e riconoscendo la trascendentalità dei valori non come un reale teoretico, che appunto si dovrebbe ridurre al mero fatto, ma come praticità e dover essere assoluto – la «cosa in sè» oggettiva, l'«Io» soggettivo, irriducibili al reale dell'esperienza, che per quella diviene reale nel pensiero come per questo diviene ideale –, è ormai evidente che la filosofia non può fornire unaprova teoretica della loro realtà, non può dimostrare che i valori sono reali (che la praticità è teoretica), dal momento che il teoretico, il reale, ci apparisce ormai come un caso del pratico, del dover essere, relativizzato all'esperienza. Ritornare da questa a un Io puro come reale in sè è una petizione di principio, alla quale si deve l'insoddisfazione che lascia in tutti l'idealismo filosofico, la cui bellezza pur ci attrae così fortemente. Perciò già appariscono i ritorni al realismo ontologico, o i tuffi nel misticismo.
Ma, dopo un secolo e mezzo di criticismo, non possiamo ritornare alla filosofia trascendente senza rinunciare ad esser filosofi. La prova dell'esistere in sè dei valori, che per noi sono soltanto fini pratici e sentimento, ce la può dare soltanto l'esistenza, ossia la sensazione; ma ce la deve dare prima che il sensibile venga superato in un particolar valore teoretico, prima che si realizzi in un concetto o in un'idea che lo trascende. Non è una prova teoretica, è una prova metafisica. Nell'intuizione stessa sensibile, prima di salire alle idee, la trascendentalità del valore è immediatamente presente come forma sensibile, come forma «estetica». Non soltanto il bello è rivelatore dei valori in sè, ma n'è anche l'unica prova possibile, perchè soltanto nelle esistenze sensibili noi ormai possiamo dire che qualcosa è in sè e per noi al tempo stesso...