1. – Per partire da qualcosa di universalmente noto, prenderò le mosse dalla soluzione kantiana del problema su l'intelligibilità del mondo sensibile, della quale la mia non è che un approfondimento.
Secondo il Kant, i sensibili, in sè stessi, sono dati arazionali e ciechi, che divengono intelligibili solamente in quanto li facciamo contenuto delle forme del pensiero teoretico. Perciò, seguendo il Kant chiedersi che cosa sia una sensazione in sè stessa – se, per esempio, sia soggetto od oggetto; e cioè chiedersi di che natura essa sia –, è una domanda teoreticamente mal posta; giacchè i concetti di realtà soggettiva e oggettiva, di cosa e di atto, di natura e di spirito ecc., ce li formiamo noi sopra l'esperienza empirica nelle sintesi conoscitive, e non li possiamo predicare dei puri contenuti sensibili, da cui sono condizionati. Sarebbe come chiedere di che natura è la natura al che non si risponde che ricominciando da capo il processo stesso dell'unificazione dei sensibili nelle categorie logiche di sostanza e di causa, che immediatamente li trascendono. Posto ancor peggio sarebbe il problema, ove si ricercasse un rapporto di causa tra il soggetto conoscente e il sensibile conosciuto oggettivamente, quasi che il soggetto conoscesse il mondo sensibile attuandolo; laddove si deve contentar di scoprirlo, e di scoprirlo sol in minima parte, come fenomeno, di cui la necessità trascende all'infinito la nostra conoscenza.
Voglio dire che il Kant non intende la relatività conoscitiva – il rapporto fra i dati sensibili e l'intelletto – come un rapporto fra enti o sostanze già tali in sè, quali l'estensione e il pensiero del dualismo cartesiano (la materia e lo spirito, il corpo e l'anima del realismo metafisico): paralogismo evidente, che applica i concetti formati nella conoscenza, e cioè nell'unità di sensibile e intelligibile, a questi due elementi astratti e presi in sè, prima e fuori della sintesi conoscitiva, rendendoli così due enti assoluti e ormai irrelativizzabili, salvo l'intervento del buon orologiaio che li metta d'accordo. Ma neppur si tratta di relatività fra due gradi o momenti della conoscenza, prima sensibile e poi intelligibile, relatività interna al soggetto già fatto coincidere col processo conoscitivo, come presso il posteriore hegelismo: nel qual caso sorge l'altra aporia del perchè il soggetto universale si oggettivi come oggetto particolare sensibile; e del come la ragione, attività pura che per legge propria si vuol oggettivare liberamente e universalmente, sia costretta a soggettivarsi nella sensazione di questo ciottolo che urto col piede.
Per il Kant, la relazione in questione è quella di forma e contenuto, puramente gnoseologica – non, aristotelicamente, metafisica –, ottenuta astraendo, per analisi delle idee, i due elementi, o meglio le due condizioni necessarie a formarle come idee reali in concreto (concetti). Perchè due? Perchè, psicologicamente considerata, la conoscenza appar sempre dualistica, è conoscenza di qualche cosa, è soggetto di qualche oggetto: per cui, spogliando il primo degli oggetti conoscibili dall'attività conoscente (e togliendogli così il valore oggettivo che questa gl'imprime) si ha la pura sensazione, il cieco a posteriori; e privando degli oggetti conosciuti l'ultima delle categorie unificatrici, ossia conoscenti (annullando nel contempo anche la sua natura soggettiva, dovuta all'esser pur essa un concreto attuarsi) rimane la pura forma, l'assoluto a priori. Sotto un tal punto di vista, dire, col relativismo, che la sensazione è soggettiva, significa soltanto dire ch'essa, nel processo conoscitivo, si relativizza al soggetto conoscente, il quale a sua volta è oggettivo, ossia la oggettiva nell'idea per es. di sostanza (di una cosa) o di causa (di un fatto): «soggettivo» e «oggettivo» indican qui soltanto il rapporto gnoseologico, il valore conoscitivo, non la natura della sensazione in sè e del pensiero in sè. Questa, per il Kant, è impossibile conoscerla, i due termini astratti uscendo fuori del pensiero concreto, che si costruisce i concetti di natura nella lor coerenza reale; la possiamo sol postulare, dicendo che ci dev'esser una cosa in sè, la quale ci dà i contenuti sensibili che alla conoscenza s'impongono a posteriori fenomenicamente; come ci dev'essere una coscienza generale assoluta, una ragion pura a priori, che si attua come nostra empirica conoscenza; e aggiungendo infine (nella Critica del Giudizio) che i due mondi assoluti del sensibile in sè e del sovrasensibiledebbono coincidere. Ma per la critica della conoscenza basta aver determinato i due termini, sensazione e intelletto, non come sostanze o nature, trattandosi appunto di comprendere in che modo questi ultimi concetti si formino; nè come momenti della medesima attività (la conoscenza sensitiva è già percezione, la conoscenza intellettiva è giudizio); ma come condizioni del formarsi dei concetti reali, ossia del valore conoscitivo d'una percezione e d'un giudizio.
Resta, si capisce, da metter in questione lo stesso rapporto di forma e contenuto e della lor essenziale unità o dualità; ma ciò riguarda ormai la metafisica, non la gnoseologia. Il Kant (s'è già detto) non ha reso «impossibile» ogni metafisica: sarebbe come dichiarare impossibile il pensiero e la filosofia stessa: egli ha dimostrata impossibile una metafisica intesa come conoscenza teoretica, ossia fenomenica (ossia contraddittoria), e perciò ha segnato i limiti e le condizioni di questa proprio in quelle idee pure – l'idea di essere come pura esistenza necessaria, a cui corrisponde la sensazione in sè; e l'idea del dover essere come potenza assoluta, che corrisponde alla forma pura – le quali, non essendo più «concetti», non sopportano le mediazioni delle categorie logiche dell'esperienza, che anzi da esse dipendono; ma si realizzano immediatamente (intuitivamente) come valori puri. Questo firmamento scintillante sopra il mio capo, posso dire che deve esistere in sè – e quindi devo pensarlo assolutamente –, perchè la sua necessità è immediata e intuitiva (carattere, ossia valore dell'esistenza per sè stessa, cioè sensibile); invece teoreticamente parlando sussumo queste luci a rappresentazione di un particolare oggetto o soggetto, che vengo formando secondo le relazioni dei sensibili fra di loro e col mio stesso conoscerli. Si noti bene: le costruzioni teoretiche (e, infine, la scienza) servono appunto a razionalizzare l'esperienza formando concetti dell'essere che salgano ad accordarsi col dover essere metafisico e intuitivo, che n'è l'a priori, la ragione estrema; ma non si risolveranno i problemi filosofici se prima si confondono i valori relativi del conoscer teoretico con la loro ragione assoluta.
I problemi circa l'intelligibilità del mondo sensibile sono dunque due: il primo riguarda il sensibile come natura; in quanto cioè ce ne formiamo questo concetto nell'esperienza e nella scienza che prolunga e approfondisce (ma anche particolarizza) l'esperienza: è pertanto un problema poetico, che parte già dal doverci essere un in sè del sensibile come esistenza assoluta, alla quale dunque tutto il nostro conoscere di essa si relativizza e in certo modo s'adegua, pur mentre riconosce relative a sè e in tal senso soggettive tali adeguazioni concettuali. Il secondo problema riguarderà invece il valore stesso dell'esistenza sensibile in sè ed è un problema metafisico. Da questo punto di vista la natura apparisce come uno dei valori del pensiero, quello teoretico, come dal punto di vista teoretico il pensiero è un modo della natura. L'intelligibilità del sensibile va quindi criticata due volte, prima nel fatto, come concetto di natura che si costruisce sensibilmente (empiricamente) sui sensibili; poi nel dritto, come dover essere assoluto del mondo sensibile in accordo col pensiero che così l'afferma.
2. – Tutte le idee che noi ci veniamo via via formando intorno al mondo sensibile si unificano nel concetto di natura: l'esistere sensibile si trasforma in essere reale, concettualmente, e cioè come valore (logico). Tal concetto, sia esso primitivo e ingenuo, qual è il concepire il mondo la semplice contiguità dei sensibili raggruppati nello spazio e nel tempo, secondo che l'abitudine ce li presenta; sia esso evoluto e approfondito, qual è il naturalismo scientifico e filosofico, possiede sempre il carattere gnoseologico (ossia il valore conoscitivo) d'un realismo oggettivo. La natura è pensata oggettivamente reale, ossia esistente in sè, assolutamente, per quanto relative e limitate sian le conoscenze che ne possiamo acquistare. In altri termini, la natura ci apparisce natura a condizione che sia concepita come indipendente da noi, che pur siamo quelli che la giudichiamo tale; e che il nostro signor Io si tolga di mezzo. Tutta la metodologia scientifica ha per intento null'altro che questo: eliminare il soggetto per adeguare la conoscenza all'oggetto in sè.
Adunque il naturalismo, e, in ultima analisi, tutta la conoscenza in quanto teoretica, accetta il relativismo conoscitivo nel senso d'un principio – o almeno d'un cànone per la ricerca – del tutto opposto al relativismo psicologico: è la conoscenza che si deve relativizzare al mondo sensibile, unificando le sensazioni nel concetto di natura; ogni sapere oggettivo deve formarsi su l'analisi dell'esperienza empirica, della quale la successiva sintesi non è il soggettivarsi dei contenuti nella forma conoscitiva, ma un oggettivarsi di questa nel concetto di quelli. Del resto, per il naturalismo, la stessa attività conoscente e, in generale, il soggetto psichico devon essi rientrare a far parte della natura e non viceversa. S'intende che non è il caso d'allucinarsi nello spavento del materialismo: la natura intesa come materia è uno dei momenti in cui s'è affermato il naturalismo nel suo sviluppo, specialmente sotto l'influenza del progresso delle scienze fisiche, tranquillizzato del resto dal dualismo filosofico, o almeno dal parallelismo psico fisico; ma oggi, come vedemmo, quasi del tutto oltrepassato anche nel pensiero occidentale. In ogni modo, l'opposizione di natura e spirito è pratica e metafisica (è immediata, nell'atto del pensare); teoreticamente, la natura e lo spirito devon essere una sola realtà, e diviene indifferente chiamarle con l'uno e con l'altro nome.
Ogni conoscenza teoretica, empirica o scientifica che sia, costruisce il sapere oggettivo (i concetti di natura) su l'analisi dell'esperienza sensibile. L'esperienza sempre si presenta come un'unità già data, una sintesi concreta sensibile. Il Kant giustamente chiama questa sintesi «a posteriori», per distinguerla dalla sintesi «a priori» e dall'unità del pensiero, ch'è tutt'altro discorso, perchè riguarda il valore conoscitivo nell'atto del conoscere e non i contenuti dati alla conoscenza.
In qualunque istante io incomincio o ricomincio ad esercitare la mia attività conoscitiva, io trovo un'unità già data e presente, sia essa la semplice contiguità di forme colori suoni..., ossia di quelli che poi diremo (analizzando questa unità) gli «elementi sensibili» o sensazioni astrattamente prese – giacchè la distinzione e individuazione del molteplice viene dopo e non prima della sintesi a posteriori, essendo effetto della stessa conoscenza che distingue e individualizza per (meglio) unificare –, o sia già, quell'esperienza, un'unità raggiunta da precedenti atti conoscitivi, un'unità percettiva o intellettiva. Anche in questo secondo caso, il mondo quale ci si presenta (e noi stessi nel mondo) è attualmente a posteriori, un dato di fatto rispetto al pensiero che lo vuol (meglio) conoscere, e ne resta fuori come pensiero attuale: un'unità concreta, ripeto, come esistenza o vita o comunque si voglia poi criticamente giudicare, pur di non confondere, anche qui, col concreto filosofico, e anche se implica precedenti (e dunque passati) valori intelligibili, ormai esistenti come vita mondo senso.
Quando apro gli occhi al mattino, la mia stanza è la mia stanza, perfettamente una e assolutamente a posteriori. Mi si conceda di poter chiamare sensazione, non un elemento astratto (idea di sensazione, come un verde, un suono ecc.), ma l'assieme di tutto ciò ch'è presente, contiguo nello spazio e nel tempo: tutto, queste forme e colori degli oggetti, questa voce che giunge dalla via, i moti de' miei occhi, gli «stati d'animo» che insieme provo... Ciò è presente, esiste, intuitivamente: è l'esperienza, non è la conoscenza; a meno di voler confondere di nuovo il discorso, e chiamar conoscere l'essere, perdendo la ragione di distinguerne un conoscere propriamente detto. Per me, il conoscere in senso proprio è un atto – che poi scientificamente (psicologicamente) scioglieremo in un rapporto – il quale fa parte dell'esperienza stessa, e perciò è intuito sensibilmente (non si può conoscere senz'accorgersi di conoscere); ma è conoscere in quanto òpera su l'esperienza (e perciò anche sopra sè stesso, come stiamo facendo), superandola (trascendendo il dato e sè stesso come esistenze empiriche). Per esempio, la lucentezza di quello specchio in sè medesima non è il conoscere, come non è conoscere il mio atto (sentito) di fissarla, tutte sensazioni presenti intuibilmente, direttamente: il conoscere consiste nell'adoperare queste sensazioni come rappresentazioni, conoscendo o riconoscendo (se già lo sapevo) quella lucentezza come la rappresentazione della luce riflessa e quell'atto come rappresentazione del mio conoscere.
Con un po' di pazienza riusciremo, spero, a chiarire perfettamente una materia resa così intricata da tanti secoli di discussioni. Il più difficile è convenire sul punto di vista della questione. Qui si tratta, ripeto, di analizzare l'attività conoscitiva, allo scopo di vedere in che maniera essa renda intelligibile il mondo sensibile nei concetti teoretici di natura. Ora io desidero che risulti ben evidente il fatto, che la conoscenza teoretica non conosce il sensibile in quanto sensibile, intuitivo o presentativo che dir si voglia, ma lo conosce in quanto le rappresenta un valore reale, l'idea concettuale, costruita sopra la sua analisi. La filosofia contemporanea, avendo di nuovo identificato la intuizione sensibile, il presentarsi, «l'esserci» del reale, coi valori rappresentativi della conoscenza, affermando che il primo è già un conoscere (soggettivo), ci costringe a questo lavoro di Sisifo; presso i più profondi filosofi precedenti la questione era decisa: per es. in Spinoza l'«intuitio» è tutt'altra cosa dalla conoscenza teoretica, dalla «ratio», essendo pensiero metafisico, ossia unità immediata e assoluta del soggetto empirico con l'Essere sostanziale; nel Kant, l'intuizione sensibile è condizione e divien contenuto del conoscere teoretico, per il quale è assolutamente a posteriori, mentre in sè, noumenicamente, dev'essere assolutamente a priori; presso Schopenhauer, il volere pone il mondo come rappresentazione (conoscenza), quel mondo che essenzialmente, è volontà, sensibilità inconscia ecc.
Il primo attuarsi d'una conoscenza teoretica non è la sensazione, è la percezione; non è, in quanto conoscere, un'esistenza sensibile, ma la valutazione più ovvia dei sensibili come cose e accadimenti, secondo la costanza abituale delle lor contiguità spaziali e temporali conservata dalla memoria: vedo questa stanza come profonda e perciò m'avvio all'uscita; ossia giudico la sensazione attuale visiva – semplice «soggetto» del giudizio, semplice «dato» dell'analisi – come rappresentativa della profondità che le inerisce come la proprietà ch'or m'interessa. Questo, almeno questo, è il più semplice conoscere, comune agli animali se il giudizio resta implicito e pratico e non va oltre le rappresentazioni di mera contiguità; ma affermare che il sensibile come sensibile è già un conoscere, è un controsenso, riuscendo logico soltanto l'opposto, la natura del conoscere esser sensibile, discorso psicologico e non critica gnoseologica dei valori conoscitivi. La gnoseologia riguarda l'attività conoscitiva sempre nel rapporto di forma e contenuto, caso teoretico del rapporto generale di soggetto e oggetto (volere). La gnoseologia non può fare a meno della dualità dei termini in cui si attua il conoscere perchè sia un conoscere reale: in questa dualità la sensazione è l'ultimo dei contenuti, l'a posteriori assoluto, e non può dunque esser conoscenza (salva la riduzione metafisica di tutto l'essere a idea); come l'attività conoscente pura è la suprema delle forme, la semplice potenza unificatrice dell'esperienza, l'assoluto a priori (salva la riduzione psicologica a un particolare reale sensibile): la gnoseologia deve definire i valori conoscitivi in questa reciprocanza di forma e contenuto, e non ne può uscire senza risolversi in metafisica o in psicologia.
La noètica considera dunque il conoscere, per dirla col Locke, come un'«operazione» del soggetto conoscente su l'oggetto conosciuto, lasciandoli ambedue indeterminati in sè stessi, per determinare il valore che in tale operazione si realizza. La forma comune n'è il giudizio, posizione di valori – in che sta l'unità di pensiero pratico e teoretico –; la logica (formale, essendo la noètica una logica reale) s'impadronisce di questa forma e, considerandola in sè medesima, la distingue nei vari modi e categorie di giudizi e ragionamenti. Ma, gnoseologicamente parlando, istituendo cioè una critica del giudizio, una sola rimane la forma dell'operazione conoscitiva: essa è un'analisi del dato; come uno solo è il valore logico della conoscenza: la sintesi oggettiva (a priori). Esse si posson ritrovare nel più spontaneo percetto come nel più elaborato concetto, ma non prima, nell'intuizione sensibile, nè dopo, nell'intuizione metafisica.
3. – Il Kant, come tutti ricordano, distingueva tre forme del giudizio: sintetico a posteriori, analitico e sintetico a priori. La distinzione è didattica; in realtà, si tratta sempre del medesimo giudizio veduto ora dalla parte del dato, ora da quella dell'operazione in sè, ora infine dalla parte del valore obbiettivo che il giudizio a posteriori acquista per opera della sintesi a priori, salva la maggior importanza che il primo assume nei giudizi empirici e la seconda nei giudizi astraenti. Dire che i reali empirici si uniscono in una sintesi a posteriori – e cioè senz'alcuna necessità logica, senza ragione e quindi senza obbiettività – che significa? O è una constatazione del fatto, del trovare p. es. l'oro giallo pesante lucido ecc., unità delle sensazioni contigue che costituisce l'esistenza del dato e come tale s'impone, punto di partenza e condizione a posteriori di quel conoscere, ch'è destinato proprio a oggettivare queste contiguità sensibili in concetti universali e necessari, ossia, infine, a spiegarle e a razionalizzarle: e in tal caso non si definisce una forma del giudizio ancor inesistente ma s'afferma semplicemente l'unità empirica del sensibile; oppure si vuol dire che la conoscenza, la prima empirica conoscenza, percepisce, riconosce la costanza obbiettiva di quelle contiguità spaziali e temporali, giudica cioè l'oro realmente giallo pesante ecc., o dal vederlo giallo inferisce che quel dato dev'essere pesante essendo oro, e allora siamo già nel conoscere induttivo o deduttivo, ossia siamo già nel valore a priori del giudizio esistenziale. Un giudizio a posteriori è una contraddizione in termini proprio per effetto della critica kantiana.
Ma forse è meglio sviscerare completamente questa, per quanto arida, questione delle forme dei giudizi teoretici, se ci vogliamo dar conto del solo modo con cui la ragione può render intelligibile il mondo sensibile.
In noètica, allorquando diciamo «ragione», non alludiamo a una misteriosa facoltà psichica, causa occulta del conoscere, e quindi... irrazionale; vogliamo soltanto affermare in universale il valore conoscitivo, definendolo come un principio formale, una categoria, che condiziona la conoscenza o attività concreta del pensiero. Tal principio è l'unità, l'«uno e tutto» degli antichi, che in logica si esprime come principio d'identità: l'esperienza empirica, l'esistenza, è il fiume eracliteo dei sensibili; la ragione tende ad unificarli sempre più fino all'Essere, alla sostanza una e identica di Parmenide e di Spinoza. Questa è la sua funzione: non crea alcun contenuto sensibile, unifica i contenuti nelle idee in sintesi vie più alte, ciò che può fare sol in quanto presuppone il principio d'identità come dover essere in sè; principio dunque a priori, trascendentalità del pensiero anche conoscitivo.
Nell'esperienza temporale nulla v'ha d'identico e tempo significa variazione. Ragione significa invece identificazione, espressa col verbo è che nel giudizio trasforma conoscitivamente l'esistere già dato del «soggetto» nell'essere pensato del «predicato». Obbediamo a un'esigenza, a un dover essere, che psicologicamente non è altro che un fine, il fine teoretico del nostro volere, esprimentesi come modalità del giudizio (infatti l'esser il giudizio problematico, assertorio o apodittico non significa altro in fondo, che il nostro stato d'animo rispetto alla possibilità, o evidenza, o necessità morale d'una unificazione). Esso fine ci spinge ad affermare o negare (qualità puramente logica del giudizio), in particolare o in generale (quantità del giudizio secondo i contenuti, da non confondere con l'universalità della forma) la realtà d'una cosa, il suo esser identica a sè stessa in quell'attributo, oppure la causalità d'un evento, ossia l'identico rapporto nel divenire.
I quattro principii della logica e le quattro categorie kantiane della gnoseologia si riducon pertanto a un sol principio formale del conoscere, che conosce in quanto unifica tutte le relazioni dell'esperienza, scoperte nei contenuti sensibili, ispirandosi per così dire a un'unità e identità assoluta, ch'è un postulato a priori, un dover essere ideale, del tutto simile ai postulati della pratica. Esso è condizione della conoscenza, è la ragione del conoscere: ragione in sè metafisica, e quindi soggetto a condizione che sia in sè anche oggetto, unità dell'essere che si rivela a sè stessa nell'unità di coscienza. La chiamiamo soggetto perchè si attua come esigenza soggettiva e attività teoretica in particolari nostri giudizi, ma ciò è molto pericoloso, poi che c'induce facilmente a credere che sia soggettiva anche nel valore, ossia nel principio formale, che dev'essere oggettivo e assoluto: trascendentale, appunto.
La ragione, il principio, si attua nell'intelletto, o facoltà del conoscere teoretico, capacità soggettiva di conoscere oggettivamente. Il concreto di questa astrazione, l'atto di questa potenza, è il giudizio, posizione di valori, identificazione di termini in un rapporto, espresso verbalmente in una proposizione, che diviene così il fenomeno del valore noumenico, l'atto sensibile della ragione intelligente; oppure implicito e sottinteso in un qualunque altro atto pratico diretto dal pensiero. Il giudizio è atto conoscitivo perchè giudica il dato empirico come rappresentazione di un valore, teoretico o pratico, reale o ideale. Restiàmo al primo, al valore reale: il giudizio teoretico, in che modo, per dirla col Kant, è costitutivo dell'esperienza? Esso non l'inventa, la trova, sensibilmente, come dato esistente, e prende questa esistenza – di cui esso medesimo, in quanto atto volontario, fa parte – prima di tutto a rappresentazione della cosa in sè (cioè la prende come esistenza reale, oggettivamente).
La cosa in sè è un puro pensabile, un dover essere: ci dev'essere una realtà in sè del sensibile, una sostanza o causa assoluta in cui il fenomeno s'identifichi con l'essere in sè del mondo, la quale non è dunque confondibile con la causalità naturale entro cui colleghiamo i fenomeni, ma è il postulato, la ragione o, se preferite, la condizione per cui quei collegamenti hanno un senso, un valore logico. Come si può esser morali soltanto a condizione che esista l'autonomia e libertà morale, benchè questa, considerata in sè, non è un fatto ma un postulato della ragion puro pratica, così, pensa giustamente il Kant, si può conoscere oggettivamente a condizione che esista una cosa in sè, quantunque essa non sia un conoscibile, ma un postulato necessario della conoscenza. A questa identità assoluta dell'essere con sè stesso, a questa «causa sui» spinoziana, a questo universal valore è rivolta tutta e sempre l'attività teoretica, sebbene mai lo possa adeguare: le unificazioni parziali, dalla percezione al concetto, dal giudizio individuale e definitorio al giudizio indotto o dedotto, non son che gradi e passi su quel cammino, per mezzo di parziali identificazioni che permettano sintesi vie più comprensive od estensive, ma che ineluttabilmente rinviano all'unità trascendentale sopra accennata.
L'atto teoretico, il giudizio, non è ora sintesi e ora analisi: gnoseologicamente (ossia nel valore) è sintetico; logicamente (ossia nella forma dell'operazione conoscitiva in sè) è analitico. Il giudizio teoretico è un'analisi che condiziona il passaggio da un'unità già data (sintesi a posteriori) a una nuova unificazione conoscitiva (sintesi a priori). Dal percetto al concetto, che ne sono i risultati, il sensibile – presente nella forma d'una sensazione o immagine del primo, e nella forma d'una parola (ch'è poi una sensazione simbolica) del secondo – conoscitivamente è sempre una rappresentazione di quell'unità raggiunta intelligibilmente, divenendo esso medesimo, sol in tal modo, intelligibile: mentre rimane inconoscibile in sè, quantunque presente, il principio stesso razionale, l'unità e identità dell'essere, che rende possibili le unificazioni nei percetti e nei concetti.
4. – «Tutti i corpi sono estesi» è, secondo il Kant dei Prolegomeni, un giudizio analitico, perchè io, quando così affermo, «non ho punto arricchito il mio concetto di corpo, ma l'ho solamente analizzato, in quanto l'estensione era già implicitamente pensata in quel concetto, sebbene non messa in rilievo». Adunque per il Kant sono analitici quei giudizi che, come aveva detto nella prima edizione della R. P., «non ampliano il nostro conoscere, ma scompongono e rendono a noi intelligibile il concetto già posseduto». Ma il concetto, la conoscenza teoretica, non son essi l'intelligibile? E il giudizio «Ogni accadimento ha la sua causa», citato qui dal Kant ad esempio d'un giudizio sintetico a priori, non è esso al pari del precedente ugualmente analitico e sintetico a seconda dei punti di vista? In verità, questa distinzione non riguarda differenti forme del giudizio, ma è una distinzione di gradi: il primo è un giudizio empirico, d'esperienza; il secondo, un giudizio puro, una proposizione generale di categoria astratta.
Vediamo meglio, restando quanto più è possibile fedeli al Kant. L'intelletto non è specchio passivo e recettivo d'una verità già data; è attività formativa dell'esperienza stessa come reale, e la realizza appunto ogni volta nell'atto teoretico, nel giudizio: questa, come tutti sanno, è la «rivoluzione» kantiana. Si tratta perciò di riflettere, in che maniera il giudizio sia costitutivo del vero come reale. Ciò avviene perchè il giudizio trasforma un contenuto, un dato esistente – esistente almeno e prima di tutto come sensibilità e vita immediatamente intuita, oggetto gnoseologico (psicologicamente diviene un soggetto) che ci dev'essere per conoscer qualcosa; come ci dev'essere un soggetto gnoseologico, un principio unificatore formale (che metafisicamente divien l'oggetto assoluto) –, lo trasforma, dico, in concetto, predicabile a priori di quei contenuti come lor attributo essenziale e razionale. Il più semplice giudizio esistenziale, per es. «Questo (bianco) è bianco», individuale e contingente, non meno del giudizio generale e categorico dell'esempio kantiano. «Ogni accadimento ha la sua causa», ci rivela il valore formale dell'atto conoscitivo, la sintesi a priori, per cui un concetto si costruisce e il sapere aumenta.
Evitiamo, prima di tutto, d'intendere l'arricchimento del sapere, chiamato sintesi dal Kant, come aumento del numero dei contenuti a posteriori, che riguarda l'ontologia e non il valore gnoseologico (l'aumento di verità) che i contenuti acquistano nell'atto conoscitivo. «Questo è bianco» è una sintesi a priori perchè prende un dato empirico, che fa da soggetto della proposizione, e lo afferma oggettivamente reale, carattere reale (identico a sè stesso) della mia esperienza, attributo essenziale di questo esistere, che d'ora in poi ne diverrà l'idea, il vero, se nuovi giudizi non la modificheranno in nuove sintesi. È il modo del giudizio, universale e necessario – e cioè oggettivo – anche se prèdica un particolarissimo attributo d'un dato oggetto empirico, perchè questo particolar attributo, almeno per ora, ne costituisce l'essere, idealmente.
Ora, se consideriamo la proposizione in sè stessa, logicamente, come operazione conoscitiva, e non in rapporto ai contenuti, troviamo ch'essa è analitica: è un'analisi del dato che ne fa da soggetto logico: nel mondo a me presente, distinguo un sensibile, il bianco, e lo assumo a definire il dato come suo carattere essenziale, in cui cioè il soggetto è (dev'essere) identico a sè stesso.
Ma non diversamente avviene quando il soggetto della proposizione è un concetto già prima acquisito, come nell'esempio kantiano «Tutti i corpi sono estesi», dove analizzo l'idea che già avevo di corpo e, come giustamente rileva il Kant, ne metto in evidenza un carattere, l'estensione, proprio per rendere (più) intelligibile quell'idea, alla quale attribuisco l'estensione come il carattere costitutivo della sua universale e necessaria realtà. Nell'uno come nell'altro caso, non ho arricchito il numero dei contenuti del sapere, chè non si trattava di questo; ho costituito il sapere, il concetto: ragione significa soltanto questo.
Tutti i giudizi, considerati nella forma, sono analitici. Il predicato è un'analisi del soggetto, il quale vien conosciuto in quanto rappresenta l'idea predicata di esso, astratta da esso ma potenziata nel valore. Nessun dubbio, per me, che il giudizio sia sempre astraente: l'idea di bianco è astratta da questo foglio e l'idea di esteso è astratta dai corpi in genere. Non si conoscerebbe senza astrarre. Lo sforzo conoscitivo, l'intelligenza, consiste nel distinguere, nello scoprire, nell'evidenziare, fra gl'infiniti dati dell'esperienza immediata o acquisita, quel più profondo, quel più reale elemento, che ce la renda penetrabile e concepibile, che ce ne dia il concetto più adeguato alla postulata unità e realtà universale, che ci permetta unificazioni sempre più vaste: ma il concetto, considerato in sè, è una idea astratta. Astratta è la forma logica (idea), concreto è il valore gnoseologico (concetto); come analitica è l'operazione conoscitiva, sintetici i valori di verità che ne risultano rispetto ai contenuti. L'esecrato errore d'astrattismo non consiste nell'astrarre, chè non potremmo pensare senza astrarre, ma nel prendere l'idea, che vale per i contenuti esistenziali, come esistenza assoluta in sè, fuori della relatività gnoseologica; e infine prender la categoria, il dover essere, come soggetto invece che predicato d'un giudizio di realtà.
Il solo Kant ci ha messo in guardia da tal errore metafisico, spiegando appunto che le forme unificatrici dell'esperienza non possono nè esistere in sè fuori di questa (platonicamente), nè esser parti o caratteri dei contenuti, che dovremmo attendere a posteriori per averne coscienza (Hegel): esse sono i modi di valutare l'esperienza unificandola per mezzo dei concetti, realmente veri soltanto in essa e per essa, trascendentali (perchè universali e necessari) ma non trascendenti (non assoluti in sè). Perciò quando il Kant distingue una classe speciale di giudizi sintetici a priori, intende parlare del valore conoscitivo che il predicato aggiunge al soggetto d'una proposizione, riguardando il giudizio rispetto a' suoi contenuti, riguardando cioè il rapporto fra attività conoscente e oggetti conosciuti: in quanto appunto il giudizio trasforma in concetto oggettivo di sostanza o causa reale ciò ch'eragli dato come un elemento o un rapporto empirico, sceverato dall'analisi nell'unità a posteriori dell'esperienza e assurto a unità di ragione.
In tal senso, giudizi sintetici puri sarebbero, o i giudizi propriamente metafisici, ossiaimpossibili come giudizi reali perchè appunto non han più contenuti d'esperienza sulla cui analisi si costruisca la realtà, e quindi valevoli soltanto formalmente; oppure le proposizioni che definiscon la categoria stessa, apoditticamente, come «A=A» (ogni cosa, per essere una cosa, dev'essere identica a sè stessa), o «Ogni accadimento ha (deve avere) una causa», deve cioè esserci un costante rapporto fra le cose e del loro variare. Ma se è vero che gli accadimenti, così come si presentano a posteriori, non son nulla più che una contiguità di sensazioni o d'immagini nel tempo e nello spazio, senza necessario legame fuor che l'abitudine soggettiva e mnemonica che ce li fa attendere così collegati (Hume), e che pertanto affermandoli causati aggiungiamo all'esperienza un valore che ce la rende intelligibile, resta però sempre anche vero che è di quell'esperienza soltanto che noi possiamo predicare la causalità, e che dall'analisi dei contenuti togliamo quei rapporti di più costante e profonda contiguità, che eleviamo a ragione.
5. – Ma forse la critica dei giudizi viene spesso influenzata da classificazioni meramente logiche, le quali riguardano i rapporti fra idee già formate in qualsiasi modo e ora connesse fra loro nel ragionamento discorsivo o in quello dialettico. Il sapere non si forma unicamente su l'esperienza sensibile; ben presto lavoriamo astrattamente sopra le idee e le adoperiamo come rappresentazioni per raggiungere nuovi concetti. Un'idea è una parola o altro segno sensibile (e quindi una cosa qualunque dell'esperienza serve da idea), ma è idea in quanto conserva, tesaurizzando l'esperienza nostra ed altrui, i valori conoscitivi del giudizio in cui venne costituita: essa dunque implica le note che l'analisi aveva scoperte e la sintesi elevate a essenza reale degli oggetti («comprensione dell'idea»), come implica la capacità di rappresentare tutto ciò di cui queste note si possono predicare («estensione dell'idea»). Allora, mettendo in rapporto le idee, si forman nuovi giudizi, nel senso della comprensione o dell'estensione di un'idea rispetto ad altre, per mezzo della nota comune messa in evidenza nelle premesse. Queste premesse, considerate a parte, appariscono come giudizi soltanto analitici, perchè appunto il predicato non fa che sviluppare una nota già contenuta nell'idea che fa da soggetto della proposizione, come «Tutti i corpi sono estesi» (se già lo sapevo), senz'aggiungere alcun nuovo valore sintetico: ma tutti vedono che qui le proposizioni non son che mezzi valevoli non ciascuna per sè, ma nella conclusione. Quivi dunque è il giudizio costitutivo del nuovo sapere, e di nuovo qui troviamo la sintesi di quelle analisi, il risultato conoscitivo (rispetto ai contenuti) della più lunga e mediata operazione conoscitiva per sè analitica.
Questo discorso, sul ragionamento per mediazione d'idee, nel campo gnoseologico ci porta invece a rifletter meglio su quell'altra vessata questione della conoscenza induttiva o deduttiva. Nella logica formale, che non si preoccupa del valore reale del processo conoscitivo teoretico, questi termini stanno a indicare solamente il rapporto di estensione fra le idee, sottintendendo la lor costruzione per comprensione delle note che divenner concetto. Allora, «Se A conviene a B, e B conviene a C, A conviene a C» è un sillogismo deduttivo, il tipico modo con cui ragioniamo per idee, ossia applichiamo le idee che abbiamo, seguendo il principio d'identità e contraddizione (e, dialetticamente, del terzo escluso), secondo che l'analisi delle idee ce lo permetta. Il sillogismo deduttivo, l'analisi, è l'unica forma di ragionamento logico. Difatti in esso, formalmente, rientra anche il ragionamento analogico, in cui quei termini sono particolari («Se a e b convengono a c, convengono fra loro»), e infine anche il ragionamento epagogico o induttivo, per cui se a', a", a"' ...convengono a B, tutti gli A convengono a B. La generalizzazione d'un concetto è, ripeto, questione d'estensibilità d'un concetto particolare a tutta la classe degli oggetti o dei fatti in cui si trovin contenute le note o le condizioni reali di esso: se, come avviene in matematica, la classe intiera A è già data come formata di tutti gli a identici fra loro, l'induzione dai particolari al generale presenta la stessa forza logica della deduzione dal generale ai particolari. Ma come generalizziamo su l'esperienza sensibile? come dalla sintesi a posteriori, dal mero rapporto di contiguità, saliamo alla sintesi a priori, concettuale, quella per cui è poi possibile estender il concetto dal noto all'ignoto, dal passato all'avvenire, dall'astratto logico ritornando al concreto reale? Questo è il problema gnoseologico. Il sillogismo aristotelico non vi ha che fare.
Il problema centrale della filosofia greca era essenzialmente logico: alla sofistica interessava capire come l'uomo pensa e ragiona, problema umano e intellettualistico a un tempo, tipico del pensiero da Protagora ad Aristotele; essi volevano stabilire le forme astratte, i modelli del ragionamento, come in estetica volevan fissare i modelli del bello e dell'arte. Aristotele, nell'Organon come nella Poetica, è il risultato di questo lungo sforzo sofistico. I greci, come non dubitavano che il bello sia bello, poi che lo creavano in opere immortali, preoccupandosi sol dei relativi problemi tecnici e dei rapporti intellettualistici col vero per intellettualizzarlo (ciò che fecero in ogni campo), così non dubitavano della esistenza reale, o del valore delle leggi e degli dèi, limiti che il pensiero non può infrangere e si trattava solo d'insegnare il modo di pensare a queste cose. Per Aristotele niun dubbio che forma e materia, idea e contenuto siano una medesima realtà sostanziale, e per lui, ingenuamente, un giudizio è vero o falso se afferma o nega che le cose stiano come sono in realtà! Ciò che urgeva a questi sofisti, era insegnare a discutere: il sillogismo.
Per noi il sillogismo non è più unicamente analisi d'idee già fatte, è costruzione di nuovi concetti per sintesi mediata da quell'analisi. Come giustamente vide il Kant, anche una scienza formale e astraente, come le matematiche, costruita cioè per ipotesi e prese queste ipotesi come reali in sè formalmente, si sviluppa pur tuttavia aumentando sinteticamente il suo sapere, costruendo nuovi concetti, sia pure per determinazione totalmente a priori invece che per riflessione sui dati a posteriori dei fenomeni. Il problema gnoseologico diventa quest'altro: Il ragionamento è deduttivo e conclude a un giudiziodeterminante, per cui dato il generale – la norma, il principio, la legge: non si tratta più di quantità numerica del genere rispetto alla specie, ma di universalità del valore rispetto ai contenuti dell'esperienza –, òpera la sussunzione del particolare, ossia dell'esperienza, rendendola intelligibile, spiegandola. Ma giudizi assolutamente determinanti non sarebbero che i giudizi di pura categoria, quelli cioè che non fanno altro che applicare la categoria mentale al contenuto, come quando dicessi «Quest'oggetto è una cosa» o «Quest'accadimento ha una causa», impliciti in ogni percezione, forma spontanea della conoscenza reale. Essi invero non ci rappresentan altro che la sintesi a priori conoscitiva, la condizione cioè di conoscere realmente secondo la sostanza o la causa, rapporto unitario presunto di ogni contenuto.
Se non avessimo che l'unità assoluta delle categorie razionali, dover essere universale e necessario del fenomeno, ed il fenomeno, il nostro ragionamento sarebbe soltanto determinante. Ma ciò non è possibile, perchè io non conosco questo fenomeno sol perchè lo giudico una cosa o un effetto in universale, e debbo ancora sapere che cosa è e da qual causa è prodotto. In somma, è nel concreto particolare che si deve realizzare la legge universale; e fra l'unità tutta a posteriori dei contenuti presenti nella contiguità dello spazio e del tempo, e l'unità tutta a priori delle categorie ci dev'essere tutta una serie di unificazioni parziali, che colmino l'infinito abisso fra senso e ragione. Le categorie medesime, o leggi supreme del conoscere reale, come la causa e la sostanza (nonchè lo spazio e il tempo che unificano i sensibili come esistenti, ossia nella sintesi ancora a posteriori), come si sono formate, differenziandosi dall'ultima e indistinta categoria dell'unità in sè, del dover essere identico a sè stesso? E tutte le altre leggi, tutti i principii più particolari, dai quali deduciamo di continuo per spiegare e antivedere gli accadimenti, come si sono costruiti?
6. – Questi problemi condussero il Kant a distinguere, accanto al giudizio determinante, deduttivo in senso gnoseologico (che sussume il particolare nel generale già dato), il giudizio riflettente, induttivo in senso gnoseologico, che scopre i modi particolari delle determinazioni oggettive, ossia determina in concreto le leggi empiriche dei fatti, come per es. la causa speciale di tal accadimento o gruppo di accadimenti. Esso giudizio riflettente, dice il Kant, dato solo il particolare, la sintesi a posteriori dell'esperienza, vi trova il generale, il principio e la legge. Ora, ogni giudizio d'esperienza si costruisce così: è una sintesi a posteriori che diviene sintesi a priori a traverso l'analisi, generalizzando, ossia obbiettivando, ciò che l'analisi astrae. «Questo pezzo di ferro arrugginisce» è una prima obbiettivazione, che afferma un fatto universalmente, come vero in sè; «Il ferro arrugginisce», o pure «La ruggine è un ossido di ferro» sono nuove sintesi oggettive indotte allo stesso modo su l'analisi comparativa di più esperienze o degli elementi meglio approfonditi d'un'esperienza; ma identico è il procedimento razionale in cui questi giudizi si costituiscono.
Nei ragionamenti su l'esperienza, nella conoscenza teoretica in senso proprio, deduzione e induzione s'implican dunque a vicenda. Esse sono processi conoscitivi attuali anche in un semplice giudizio immediato e percettivo, inclusi l'uno nell'altro, e le mediazioni delle idee non fanno che svilupparli. La più semplice affermazione di una sintesi a posteriori, il riflettere sulla contiguità extra essenziale di oro e di giallo in esso distinto per dire «L'oro è giallo», è sintesi conoscitiva in quanto non è più a posteriori, ma vien determinata dalla categoria di essere reale in cui il giallo si prèdica dell'oro; come dall'altra parte la più pura definizione per determinazione assoluta, per es. «Ciò che è, è», ottenuta per identificazione del dato con sè stesso, implica tuttavia che qualcosa sia dato alla nostra riflessione, affinchè vi si applichi la categoria.
Rivedendo (rivivendo!) ancor una volta la faticosa ricerca del filosofo di Koenisberg per salvare il valore gnoseologico – la verità come realtà – dallo scetticismo psicologico dello Hume, ossia per salvare la filosofia dallo scetticismo, e quindi dal relativismo, possiamo per ora concludere: l°) Il giudizio è il fenomeno del pensiero, l'atto della ragione. Come atto è l'analisi del dato (psicologicamente, la distinzione e la scelta; logicamente, l'astrazione); come ragione, è l'unificazione nel concetto (dover esser metafisico).
2°) Possiamo chiamare, in un primo tempo, sintesi a posteriori l'unità esistenziale dei contenuti d'un giudizio, quell'unità che troviamo comunque già data, e che conosciamo come unità perchè appunto ne distinguiamo per analisi il molteplice e il vario. Di guisa che è precipuamente sintetico a posteriori quel giudizio che si contenta di affermare l'unità in sè del molteplice analizzato, come «Quest'oro è giallo»: dove però non manca la sintesi a priori, la sintesi nel valore logico, consistente nell'affermare reale e in sè quell'unità contingente, sia pure basandosi sui sensi, e cioè arazionalmente.
3°) Dobbiamo chiamare sintesi a priori l'unificazione dell'esperienza secondo principii universali e necessari, che rinviano a un dover essere uno e identico a sè, come il principio d'identità e quello di ragione, i quali, rispetto ai contenuti, divengon il principio di sostanza e di causa. Allora, per avere un giudizio che sia solamente sintetico a priori, bisogna contentarsi d'enunciare la categoria stessa in astratto (principii logici formali, come «A=A»); o il principio universalmente («Ogni evento ha la sua causa»). È ben vero che si posson chiamare giudizi sintetici puri quelli matematici (o di altra scienza formale, come scienza ipotetica e normativa, astraente dai contenuti reali; per es. l'etica stessa) e tanto più quelli della metafisica. Ma le proposizioni matematiche, come ognun sa, includon sempre intuizioni empiriche e postulati intuitivi, ossia elementi a posteriori, i soli che alla fine garantiscano la loro applicabilità all'esperienza; di fatti sono scienze astraenti e costruttive, ma non astratte e irreali. E quanto alle proposizioni metafisiche, o esse applicano all'in sè, al trascendente i concetti reali dell'esperienza (il tempo e lo spazio, la sostanza e la causa) e, come ha dimostrato il Kant, sono false sintesi a priori, pseudoconcetti (come i concetti del materialismo o dell'idealismo ontologico); oppure enunciano postulati puramente ideali, affermando il dover essere, e sono sintesi a priori puro pratiche e non più teoretiche.
4°) Giungiamo così ad una quarta conclusione, la più importante per il nostro obbietto. A parte tutto ciò ch'è sapere formale e astratto, operazione esclusivamente analitica, la conoscenza si serve dell'analisi astraente per costruire (o ricostruire) le sue sintesi oggettive, movendosi fra i due opposti poli: quello della sintesi a posteriori, percettiva, che prende la sensazione distinta (per es. «giallo») a rappresentazione della cosa («oro») alla quale l'unifica realmente, oggettivamente, benchè questa unità sia extraessenziale, sia l'unità dei dati contigui («L'oro è giallo») affermata vera in sè; e il polo della sintesi a priori, ideale, sovrasensibile, reale soltanto come pensabile, che afferma il dover essere morale, fra cui il doverci essere un mondo assoluto e in sè, una «cosa in sè», che condizioni la realtà di quest'oro fenomenicamente giallo, e mi astringa a dichiarare che l'oro è giallo, quantunque io non possa conoscere il perchè di tale unità. All'approssimazione di questo perchè razionale si getta la conoscenza teoretica, costruendo una serie di leggi empiriche, ossia relative ai contenuti sensibili, ma al tempo stesso oggettivanti l'empirico in concetti di sempre più profonda identità, sempre più veri del reale, che chiamiamo natura. Questo è il processo del sapere teoretico, la scienza.
Un giudizio puro, una sintesi tutta a priori, non è ancora teoretica: teoreticamente parlando, è un giudizio formale; non ha dunque altra realtà, che d'esser sè stesso, d'esistere soggettivamente come giudizio, se non prova induttivamente sui contenuti dell'esperienza la sua verità reale. È ben vero – contro la tesi del nominalismo – che il valore dei giudizi puri, dei principii, è oggettivo e non soggettivo; altrimenti, che sintesi sarebbe la loro? Anzi, un giudizio è puro perchè esprime la trascendentalità della ragione sul soggetto empirico; obbiettìva, potremmo dire, l'esistere soggettivo in un dover essere assoluto e necessario come legge e principio, com'è ben visibile nei principii morali; ma l'oggettività d'un concetto etico o religioso non è verità teoretica, realtà esistenziale: è vero pratico, dover essere ideale. È pertanto indiscutibile che la conoscenza teoretica sia condizionata da principii puri, dalla ragione insomma, e che in ultima istanza essa rinvii sempre il pensiero ad un dover essere trascendentale, al quale, per così dire, appoggia le sue sintesi a priori. È realmente vero che «I corpi sono pesanti»,se c'è, come ci deve essere, un mondo assoluto che possa apparirmi anche pesante: verità fenomenica parziale, ma pur sempre verità, se è posta quella condizione. In tal senso, è ben posto il relativismo del mondo sensibile al soggetto come ragione; ma la ragione acquista (conquista) valore teoretico, conoscenza reale, se ed in quanto realizza le sue sintesi in quelle attuali esistenze fenomeniche, le sensazioni, che sole posson imporsi come testimoni d'un mondo in sè.
7. – Il problema dell'intelligibilità del mondo sensibile ha ora più spazio per muoversi. Nelle controversie fra sensismo e intellettualismo pareva che si fosse al bivio tra una conoscenza fatta di sensazioni e un'altra fatta d'idee; parimenti, nella fiera lotta fra empirismo e idealismo, sembrava che si trattasse di scegliere tra il valore oggettivo e quello soggettivo dei sensibili: alternative così fuori posto che, per esempio, il sensismo del Locke si risolve nel più genuino intellettualismo, e l'idealismo dei Berkeley in un radicale empirismo, In realtà, non ci sono due conoscenze, una sensibile e l'altra intelligibile, nè quindi due sfere di verità teoretiche, fra le quali sia giocoforza prender partito.
Quando diciamo sensazione, che cosa indichiamo? L'idea d'un'idea. Di solito vien detta sensazione un'idea già astratta in precedenti analisi dell'esperienza, come «bianco» e suono «do». In tal caso, la sensazione attuale di «bianco» e «do» sono queste parole che vedete fra virgolette: null'altro che nomi, segni già uniti per contiguità, o, come dicon gli psicologi odierni, per «trasferto», ai sensibili, di cui prendon il posto agli effetti pratici (che oggi dicono «riflessi condizionali»). Ma il medesimo sarebbe se un'altra qualunque sensazione attuale, per es. il bianco visivo di questo foglio o l'immagine d'un suono significasser ora per noi bianco e do, perchè si tratta sempre della presenza di elementi sensibili che fecer parte delle sintesi a posteriori dell'esperienza e che perciò ce la possono rappresentare in concreto (percezione) o in astratto (idea). Restando al nostro esempio (la natura del conoscere l'esamineremo meglio più tardi), bianco e «do» sono conoscenze? Sì, certo; ma non mai per sè stessi, come sensibili dati a posteriori, condizioni del conoscere e non ancora conoscere; sempre come rappresentazioni per le quali la sensazione attuale diventa formale e così diventa sapere, intelligenza. Conoscere è un rappresentarsi, per mezzo di ciò che esiste sensibilmente, quello che deve essere, per essere realmente. Questo bianco mi rappresenta una cosa, la carta bianca: sintesi percettiva formata a priori su l'analisi d'una qualità, il bianco, assunta a rappresentare una realtà sostanziale (conoscenza concreta, percezione); la parola «bianco» mi rappresenta l'idea astratta di bianco in genere, di cui il valore sintetico sta appunto nella generalità, onde posso applicare tal'idea a questo bianco qui, che così riconosco, determino.
Voglio dire che la conoscenza del sensibile non ha carattere diverso da tutta quanta la conoscenza teoretica: esiste sempre nel sensibile e per il sensibile, ma va sempre al di là della sensazione, proprio al fine di conoscere qualcosa, fra cui, in ispecie, la sensazione stessa. Il nominalismo empirico non consentirà in questo concetto del valore trascendentale di ogni atto conoscitivo. Almeno il sensibile, egli ripeterà, si conosce in quanto sensibile. Non ho altro modo di farvi conoscere che cos'è una pietra, direbbe il Locke, che col darvela in mano, e la parola non fa che richiamare le sensazioni... Quest'osservazione, che sta alla base di tutto l'empirismo, è giusta sol in quanto constata, che la sensazione è sensazione, individualmente: esperienza intuitiva immediata e diretta, che nessuna conoscenza mediata e razionale potrebbe sostituire: verità lapalissiana sulla quale cavalca in eroicomica battaglia l'intuizionismo odierno. Ma se l'intuizione sensibile è conoscenza perchè sensibile, tanto vale dire con l'idealismo che tutto il mondo in sè è conoscenza, e ricominciare da capo a chiedersi che cosa sia il valore conoscitivo di questo mondo di cose chiamate idee. Se il veder bianco questo foglio è un conoscere, un'idea, diciam così, soggettiva, il problema gnoseologico comincia di qui, dal chiedersi che valore sia quello dell'idea di bianco (dell'idea dell'idea) in cui la prima si oggettiva, ossia conosce in senso proprio, realmente.
Il malinteso può derivare dall'uso della parola intuizione, che viene presa come un atto teoretico; ma nell'intuizione, ciò che poi chiameremo soggetto, attività e simili, fa parte del dato; quando già distinguiamo e opponiamo un soggetto e un oggetto, non è più intuizione, è conoscenza e intelligenza. La pura sensazione è presenza, esistenza unitaria di tutto ciò ch'è dato, così com'è dato, a posteriori; essa non ha altro valore che quello dell'esistere: allorquando stringo fra le dita la pietra offertami dal Locke, lo scabro il duro il pesante ecc. di questa pietra, insieme col senso di sforzo muscolare e spiacevole ecc., esistono empiricamente nell'unità indifferenziata (quanto a valore teoretico) del dato; incomincian ad essere qualcosa di reale o ideale, quando almeno penso: questo scabro è scabro, questo duro è duro (affermando la qualità), oppure penso che scabro duro ecc. sono una pietra (o viceversa, la pietra è scabra...) in sè (affermando la sostanza), oppure stringo la pietra ecc. (affermando la causa).
Sembrano questioni di lana caprina, eppure qui c'è un nodo vitale per il pensiero filosofico. Bianco conoscitivamente è sempre rappresentazione, sia pur semplicissimamente e unicamente di questo bianco visivo qui, elevato al valore d'un dover essere in sè, essere oggettivo, o di un essere per me, soggettivo e relativizzato a qualche altro elemento astratto dall'unità a posteriori (per es. allo sforzo d'attenzione) e preso come «io». La gnoseologia deve arrestarsi qui, alla costatazione di un'esistenza sensibile sempre presente come contenuto del conoscere e di un valore trascendentale sempre in atto come forma conoscitiva, lasciando alla metafisica considerarne i valori assoluti (se l'esistenza sia un valore e se il valore esista in sè): per la gnoseologia queste due astratte condizioni si relativizzano nell'atto conoscitivo, dove il contenuto diventa forma rappresentativa, oggetto intelligibile (concetto).
8. – Alla domanda, in cui si potrebbe compendiare il fine della nostra discussione, «Che cos'è la sensazione?», la mente umana spontaneamente risponde con l'analisi diretta del sensibile, che ineluttabilmente la conduce a concetti di sostanza e di causa (o almeno, di essere e di divenire, nello spazio e nel tempo, oggettivamente), costitutivi della «natura», sia essa fisica o psichica secondo l'orientarsi delle analisi e le distinzioni e raggruppamenti dei contenuti. Così si costruisce, non soltanto il sapere teoretico comune, ma anche la scienza: il fisico, il fisiologo, lo psicologo guardano la stessa esperienza, intuiscono la stessa esistenza sensibile, per es. questo bianco, e la realizzano in concetti naturali diversi fra loro sol in quanto l'analisi che ne fanno astrae piuttosto questo o quel gruppo di elementi e permette loro di concepire e di spiegar questo bianco, ora come energia fisica d'una materia (causa, d'una sostanza fisico chimica), ora come funzione visiva di un organo, ora come sensibilità reagente ecc.
Però, a questo punto, interviene la noètica a chiedersi, se i concetti di natura hanno risposto, e in che modo, a quella prima domanda; e cioè se essi hanno un valore reale, il quale renda teoreticamente intelligibile la sensazione, o se invece, come ci sta apparendo, i concetti di natura – verità parziali e progressive, relative ai dati sensibili ma orientate verso l'unificazione assoluta e a priori dell'essere in sè – spieghin sempre il sensibile rispetto a un dover essere ideale, di cui il primo non sarebbe che la rappresentazione fenomenica, che con la sua presenza garantisca della realtà o verità del secondo. In altre parole, la conoscenza teoretica del sensibile sarebbe sempre conoscenza intelligibile per mezzo del sensibile; ma il sensibile per sè, il sensibile in quanto tale, resterebbe inconoscibile, sebbene presente, essendo assoluto a posteriori, a cui la conoscenza, sempre relativa, si deve, pur trascendendolo formalmente, adeguare: ciò che il Kant esprimeva dicendo, che la conoscenza teoretica è trascendentale rispetto ai contenuti a posteriori, ma non può essere trascendente e metafisica.
Questa scoperta kantiana ha influenzato, più o men consapevolmente, tutta la filosofia contemporanea, e l'ha trascinata a considerar come reali i concetti consistenti nell'affermare necessariamente e universalmente le esistenze sensibili (e quindi nel ricostruire con paziente analisi la lor obbiettiva presenza nel tempo), vale a dire i concetti storici, svalutando le generalizzazioni astratte di elementi presi staticamente in sè dalle scienze teoriche, pseudo concetti utili sol praticamente per formulare leggi che ci servano come ipotesi di comodo per intervenire in natura. Così si ammette implicitamente la relatività del conoscere ai sensibili e l'obbiettività del valore conoscitivo in funzione delle intuizioni. Però, siccome la forma conoscitiva è a priori, ossia, diceva il Kant, soggettiva (alludendo a un soggetto in universale, o ragion pura), la storia vien intesa come divenire del soggetto, in cui lo spirito si relativizza, specificandosi nelle idee empiriche tutte interne ad esso.
Ma, avanti tutto, la storia non è che il primo e l'ultimo capitolo del sapere metodicamente perseguito: il primo, se per storia s'intende la definizione e ricostruzione obbiettiva e disinteressata dei fatti – storia naturale e storia umana –, descrizione e narrazione fenomenologica delle esistenze, che debbon essere come sono e furon sensibilmente, e perciò semplice introduzione alla lor spiegazione e intelligenza razionale (a meno di adeguare la ragione all'esistenza, così come è!); l'ultimo capitolo, se gli accadimenti concreti sono conosciuti nella lor unità ideale, se le scienze della natura e le scienze dello spirito da un lato, la metafisica dall'altro vengono ricondotte a vivificare delle lor leggi e dei lor concetti logici e deontologici l'esperienza storica e ce la rendono intelligibile.
Questo vuol fare appunto la filosofia contemporanea alitando nella storia il suo potente spirito idealista e interpretando i fatti quali momenti del divenire dello spirito, come soggetto che si riconosce nell'oggetto. Ma tutto ciò serve a relativizzare il sapere all'attività conoscitiva, a ricordarci che il vero è una costruzione ideale in perenne aumento, un valore, come tutti gli altri valori, corrispondente a un fine di sua natura soggettivo; non esclude tuttavia, anzi include la necessità del sapere scientifico, in cui si attua l'oggettività di quel valore. Anche se consideriamo la fenomenologia come fenomenologia dello spirito, la natura come concetto, la realtà d'una cosa o d'un fatto come valore teoretico, la scienza come storia della scienza umana, ciò non toglie che sia tuttora necessario unificare i fenomeni in concetti e leggi di natura, il sapere in sapere scientifico, che si ponga tra la filosofia e la storia empirica per darci ragione del sensibile e per attuare il fine teoretico, nonchè per servirci nei rapporti pratici con ciò che esiste.
La questione, secondo lo spirito kantiano, va posta come abbiamo più volte prospettato, ormai in accordo coi risultati della noètica. Pensare significa valutare. I valori, psicologicamente, si riducono a finalità del volere empirico, fini pratici e fini teoretici, corrispondenti ai bisogni, agli interessi, alle esigenze della persona umana in rapporto con l'essere delle esistenze, col mondo: è proprio questo rapporto che condiziona il pensiero nei due «usi» (come diceva il Kant), pratico e teoretico, di esso. Ma i valori che si costituiscono in tale rapporto, il vero teoretico (essere reale) e il bene pratico (dover essere ideale), trascendono così il soggetto empirico come le esistenze sensibili, il volere ponendo i suoi fini sempre al di là del dato e del raggiunto e liberamente affermando la legge del dover essere oltre l'essere reale. Però, mentre nell'uso teoretico del pensiero, nel conoscere oggettivo, esso, pur trascendendo l'esistenza sensibile nei concetti reali di ciò che il sensibile dev'essere in sè (assolutamente, necessariamente), si deve pur sempre relativizzare nel modo già detto alle esistenze, contentandosi di unificarle nei concetti di essenza e ragione che valgono per esse, nell'uso pratico la trascende assolutamente, realizzando un mondo ideale, il mondo delle idee metafisiche, per il quale non valgono le categorie del conoscere empirico.
Allora si spiega l'apparente contraddizione, dell'ammettere in noètica una relatività dell'attività conoscente ai contenuti sensibili, mentre che in metafisica vige la relatività dell'oggetto (come essere) al soggetto (come dover essere). Sono due punti di vista corrispondenti ai due usi, teoretico e pratico, del pensiero: il primo è un discorso gnoseologico, il secondo metafisico. Nell'esperienza, conoscenza teoretica e pratica sono i due poli del medesimo pensiero, cioè del medesimo rapporto fra il soggetto come ragione (soggetto assoluto, formale) e l'oggetto come dato a posteriori, esistenza sensibile, di cui fan parte il soggetto empirico e la stessa attività conoscitiva come finalità del volere. In quanto il primo si antinomizza (praticamente) al secondo e lo vuol superare in un assoluto dover essere – fra cui il dover essere dell'oggetto, la cosa in sè –, possiamo dire che il soggetto subordina gli oggetti (e quindi anche sè stesso) alle proprie leggi; ma in quanto poi vuol realizzare i fini, i valori, realmente e non idealmente, costituendo le realtà dell'essere, o attuando sensibilmente il dovere, deve piegar la ragione nei concetti teoretici, deve conoscere il mondo come natura.
9. – Nel quadro della conoscenza, qual'è il posto della filosofia, e quale della scienza?
La filosofia è lo sforzo più consapevole inteso a conciliare le finalità soggettive con l'esperienza obbiettiva, e cioè a fondare la realtà dei valori, a razionalizzare i fini sentimentali. Chiamo filosofia, non una particolar dottrina, ma un particolare atteggiamento del pensiero. Non metto la filosofia nelle nubi, fuori della vita e dell'esperienza; essa ne partecipa, ne diviene il centro, la interpretazione e la regola. In niuno più che nel vero filosofo si agitano e premono tutti gli interessi umani: individuali, onde la sua originalità; sociali, onde la sua eticità; nazionali, onde la sua genialità; storici, ond'è che la filosofia riassume lo spirito del tempo (come l'arte lo simboleggia). Non son dunque i contenuti soggettivi e oggettivi quelli che distinguono la filosofia – o meglio, l'atteggiamento filosofico, la «philosophia perennis» – dal pensiero pratico, dall'etica, dalla religione, dalle scienze e dalle stesse dottrine filosofiche già positivamente esistenti; è la posizione mentale, libera e disinteressata, anche se indirettamente posta a servigio delle credenze e dei fini attuali, ciò che rende inconfondibili l'esperienza e la filosofia che pur vi sta nel cuore, il pensiero diretto e il pensiero riflesso, permettendo a questo di razionalizzare quello e di unificare l'esperienza.
In altre parole, una filosofia, rispetto a' suoi oggetti e fini, non è, come oggi si tende a credere, soltanto teoretica; è strettamente teoretica sol in quanto vuol determinare il principio della conoscenza oggettiva e il criterio della verità. Ma l'etica, l'estetica, la filosofia religiosa ecc., non sono soltanto filosofia della pratica, dell'arte, della religione; son anche pratiche, artistiche, religiose: voglio dire che questi valori, non essendo più oggetti, non essendo valori dell'essere ma del dover essere, non possono venir criticati che da chi ne partecipa (e n'è competente!), e il loro fondamento, e quindi il loro criterio normativo per la pratica, per l'arte, per la religione, non può venir posto soltanto come reale storico e di fatto, ma come ideale della coscienza morale, artistica, religiosa. Così si comprende la posizione nuova dell'etica kantiana di fronte al razionalismo dogmatico e scettico: essa è proprio una posizione pratica!
Non è nei contenuti e nei fini, che la filosofia si distingue dall'esperienza e dal pensiero diretto: è, dicevo, nella posizione mentale, nel metodo. Una filosofia può e dev'essere anche pratica, etica, religiosa, come scientifica ecc., e tuttavia non si deve confondere con la vita pratica etica religiosa ecc., come non si confonde con la stessa scienza in particolare; nè le può sostituire. Tutto il pensiero rientra nella filosofia e con essa si muove, da essa parte e ad essa ritorna: ma la filosofia se ne distingue in quanto è pensiero di questo pensiero, riflessione critica su questa pratica o teoretica, i contenuti delle quali, soggettivi od oggettivi che siano, sono per essa, sempre, dati provvisori da discutere ed unificare. La filosofia è critica, anche se ama e ardentemente cerca di raggiungere la positività e realtà d'un fine pratico o teoretico; anzi, appunto per questo. Ciò basta a guardarsi dall'opposto errore, d'intendere come filosofia una posizione semplicemente pratica del pensiero, per es, etica o religiosa, come il moralismo e la teologia mistica: una mistica incomincerà a diventar filosofia solo nell'istante in cui, a costo di piombare nel dubbio straziante, rifletta liberamente sopra i suoi postulati per offrirne una prova razionale e un fondamento universale.
(Ma del pari, secondo me, non è più filosofia, nemmeno teoretica, quell'atteggiamento del pensiero che diviene fine a sè stesso e pensa per pensare, uscendo affatto dall'esperienza, qual è per es. il formalismo laicizzante, il compiacersi di lavorare sui termini in astratto, il bizantinismo che aduggia tanta parte della filosofia, dove in fondo tutti i problemi, moltiplicabili ad libitum, diventan questioni di parole: fenomeno comune a ogni genere di attività quando divien fine a sè stessa, e si chiama dilettantismo o «giuoco»).
Se dunque per un verso si potrebbe suddividere la filosofia in molti rami, in quanto essa accompagna tutte le altre attività, pratiche e teoretiche, stando per così dire dietro di esse come necessaria riflessione critica, alla quale di continuo esse chiedono le loro norme e i loro fini ultimi, e perciò si moltiplica con esse incentrandosi di volta in volta nei loro problemi, per l'altro verso c'è una sola filosofia perchè questa sempre tende a unificare quei problemi in un tutto che dicesi «cultura», e il suo problema peculiare resta sempre quello di colmare l'abisso aperto tra il finalismo del dover essere ideale e la necessità dell'essere reale unificando l'uso teoretico con quello pratico del pensiero. In tal senso, non v'ha più ragione di dividere nemmeno una filosofia teoretica, alla quale si attribuisce il còmpito di risolvere il problema dei reali, da una filosofia pratica che riguarderebbe il problema dei valori: quasi che la realtà, criticamente considerata, non fosse un valore, chiamato e verità, da rimettersi in rapporto coi fini soggettivi, per stabilire i limiti e le condizioni della conoscenza o teoreticità delle nostre attività; e quasi che i valori pratici restassero «valori» e non si riducessero a semplici fini soggettivi, anzi a meri sentimenti, se non si cerca il lor fondamento reale e se non si riesce a giustificarli razionalmente.
Considerando bene, la filosofia non ha più che un problema interno ad essa, dove gli oggetti esterni del pensiero diretto (siano oggetti esistenti o finalità soggettive), divengono interni, perchè valori del pensiero stesso sul quale ora riflettiamo. Dopo Hegel si dice il medesimo asserendo, che la conoscenza (diretta) è coscienza e la filosofia autocoscienza. Coscienza è il modo in cui l'antinomia (pratica) di oggetto e soggetto si rivela conoscitivamente: il soggetto pone l'oggetto come tale e vi si contrappone quindi come finalità e trascendentalità; perciò nel rapporto conoscitivo diretto oggetto e soggetto si trascendono a vicenda, si escludono l'un l'altro. Autocoscienza è l'esigenza di riunirli nel loro stesso rapporto conoscitivo quando vi si riflette sopra, il che genera la consapevolezza dell'oggetto come fine del soggetto pensante e della finalità come universalità e infine oggettività dei valori.
Ora, si può chiamare praticità della filosofia, la spinta che di continuo la incalza verso una unità assoluta – giustamente in ciò riavvicinata alla religione –, che la condurrebbe alle idee metafisiche; ma si deve nel contempo chiamare teoretico il suo metodo, la critica e la riflessione, essenzialmente teoretico in quanto esclusivamente conoscitivo. Pertanto, si potrebbe concludere, la filosofia è quel pensiero teoretico che critica la propria praticità. Se per questa ogni volta tende ad affermare la realtà delle idee pure formali, attribuendo loro, con l'argomento ontologico, quell'esistenza ch'è dei sensibili, ogni volta, per la sua teoreticità, deve ricondurre le forme ai contenuti sensibili, alla realtà di natura, perchè il vero esista e sia vero.
Sì, il cammino della filosofia, sempre idealistica, riporta tutte le volte alla intelligibilità del sensibile, alla natura, preparando la nuova scienza. Per quella via, gli allori vanno sempre a chi innalza lo spirito accarezzando le esigenze pratiche e metafisiche, e il disprezzo copre la scepsi ribelle, il relativismo all'esperienza, ma questo trionfa tra i roghi e s'illumina dei valori ideali: incenerita la natura come sostrato materiale, brucia anche lo spirito come esistenza sostanziale e ritrova l'essere nel divenire del mondo. Poco importa che la natura si chiami «pneuma», Dio, Ragione; importa che sia la ragione, lo spirito della reale esperienza, la forma dei contenuti sensibili, l'unificazione di ciò che l'analisi ha separato e distinto. Così per esempio è accaduto della scolastica, che ha messo capo al naturalismo spiritualistico del nostro Rinascimento; così poi al razionalismo, che la critica kantiana delle antinomie della ragion pura ha reso consapevole della sua relatività teoretica ai contenuti dell'esperienza.
10. – Nella soluzione kantiana della terza antinomia cosmologica – l'antinomia fra la necessità di natura e la libertà dello spirito – il pensiero contemporaneo aveva una nuova strada aperta per conciliare le sue esigenze spiritualistiche con la conoscenza teoretica e con la scienza; ma non l'ha voluta seguire. Non s'è persuaso della impossibilità di determinare realisticamente (teoreticamente, oggettivamente) il soggetto, lo spirito; e così, dopo aver ampiamente riconosciuto che i concetti di causalità e di natura sono il modo col quale «noi» obbiettiviamo e spieghiamo l'esperienza, ha preso questo noi come natura, realtà esistenziale, sostituibile alla realtà oggettiva; dopo aver svalutato la scienza, perchè sapere nostro, soggettivo sempre e prammatistico (pratico), ha preso la praticità come verità e universalità, intendendo la filosofia come scienza, la sola scienza. Allora, reale diviene lo spirito; ma poichè questo si attua realmente ne' suoi oggetti, la realtà dello spirito è quella delle conoscenze oggettive, è l'esperienza, e si perde ogni trascendentalità, e quindi ogni criterio di giudizio come di progresso. Lo spirito è di volta in volta quello ch'è l'esperienza nel suo divenire e farsi reale e non è più che un nome comune dato a questo divenire empirico e di fatto, che non v'ha più modo di rendere intelligibile e realmente valutabile.
Conseguente era il platonismo, per il quale reale è lo spirito, l'idea pura in cui esistono tutti i valori; e irreale è l'esperienza, che l'anima intellettiva può valutare e giudicare perchè partecipe di quei valori: e infatti, filosoficamente, la giudica un'ombra, un'illusione. Ma tolta la trascendenza dell'antico realismo, la sintesi hegeliana di oggetto e soggetto nel Soggetto reale non può che ridurre questo a' suoi oggetti, al reale divenire dell'esperienza così come diviene empiricamente; come la sintesi di pensiero soggettivante (arte) e di pensiero oggettivante (religione) non può che ridurre la filosofia, in cui essa consiste, a religione senza trascendenza, vale a dire, a scienza teoretica.
Ora, prima di tutto, scienza e filosofia hanno finalità diversa, ossia diversa teoreticità: diversa non di grado, ma di valore. Sono come due circonferenze limitanti i loro dominii, che, come già dicemmo, s'intersecano e han dunque un territorio comune, ma non coincidono, sì che l'una non può sostituire l'altra. La scienza, idest, la conoscenza in quanto teoretica, ha per suo dominio l'esperienza e, in ultima analisi, le esistenze sensibili, ch'essa oggettiva nei concetti di natura, unificandoli nella legge causale, ossia determinandoli oggettivamente per esclusione d'ogni soggettività attuale. Il suo metodo è l'analisi. Essa si forma i concetti reali sui contenuti sensibili riportandoli al loro ideal dover essere, alla cosa in sè, e ottiene così il loro essere reale. Questo è la natura, ripeto, e non lo spirito; e, pur sapendo che il concetto di natura è un valore, è un fine nostro a cui tendiamo, non c'è altro modo di raggiungerlo che questo, di realizzarlo in rapporto ai sensibili che ne provino l'esistenza e ne limitino il fine soggettivo e trascendentale. Nessun dubbio dunque che la scienza conosce il sensibile trascendendolo nel concetto di natura, di esistenza in sè – anche quando fosse soltanto una determinazione storica e di fatto, l'oggettività non è che l'in sè del fatto stesso –; e nessun dubbio che l'«in sè» è un postulato, un dover essere soggettivo, per cui la scienza implica lo scienziato; ma essa è oggettiva, è vera come reale, in quanto cerca l'in sè esistente, l'in sè del sensibile, e non l'in sè puro e assoluto ch'è la categoria stessa formale, riducentesi a un fine e a una norma, e non a un'esistenza.
La filosofia invece è riflessione critica sui valori, che trova presenti alla coscienza come finalità; ch'essa criticamente mette in rapporto coi loro oggetti per stabilire il criterio di giudicare questi come valori e di subordinarli in una scala axiologica che li razionalizzi unificandoli nello spirito. Lo spirito è il valore formale, l'a priori, che la filosofia deve contentarsi di conoscere, ossia d'obbiettivare, non come un reale oggetto, ma come un dover essere, idea pura, norma oggettiva e fine soggettivo dei contenuti a cui si applica come valutazione e giudizio, non oggetto e soggetto esso stesso, che diverrebber subito suoi contenuti empirici.
Pertanto, il dominio della filosofia è il pensiero stesso in cui direttamente si formano i valori: essa è la critica del pensiero e non la conoscenza de' suoi contenuti. Naturalmente, la filosofia interseca il dominio della scienza, prima di tutto in quanto è critica della conoscenza, ossia dei valori e del pensiero teoretico: e in tal senso mette capo alla noètica che fonda il criterio di verità, e alla epistemologia che dètta le norme e i limiti della conoscenza reale. In secondo luogo, la filosofia che si sovrappone alla scienza per renderla consapevole che anche la natura è un valore – che l'«essere», io direi, è il dover essere dell'esistere sensibile –, le si sottopone in quanto chiede di che natura sia il valore come fine soggettivo, e come si possa concepire l'essere del soggetto. E così la filosofia si vuol far scienza, diventa psicologia. Ma è possibile, e in che modo, una scienza psicologica, una conoscenza oggettiva del soggetto?
È quello che vedremo nel prossimo capitolo. Per intanto mi preme stabilire che, se chiamiamo spirito il valore formale, l'idea pura – per esempio, la categoria teoretica di causalità reale o l'imperativo categorico puro pratico –, siamo padronissimi di chiamar Soggetto l'idea formale, proprio perchè pura idea, finalità trascendentale del volere; ma non possiamo chiamare reale questo Soggetto, perchè appunto ideale. Assurdo quindi dedurre che lo Spirito è il Soggetto puro che diviene realmente, perchè quello non è un essere (a meno di ritornare all'argomento ontologico dando un frego su tutto il contingentismo e lo storicismo contemporaneo). L'essere incomincia qui, nel divenire.
Ma non troveremo almeno il Soggetto puro immanente nel soggetto empirico? La trascendentalità dei valori non è presente alla coscienza come finalità del volere? Non si realizza come attività conoscente e agente? Lo stesso Kant non parla d'un intelletto che forma i concetti, d'una ragione che dirige gli atti; e non son questi reali, anzi l'unica realtà, di cui si possa parlare?
11. – Evitiamo i facili giuochi di parole. Discutendo l'antinomia della necessità causale e della libertà morale, il Kant finisce col dirci: Nella coscienza troviamo un'irriducibile antinomia fra l'esigenza razionale di ciò che dev'essere assolutamente e quindi liberamente e l'esigenza ugualmente razionale di ciò che è realmente e causalmente: anzi, la coscienza non è che quest'antinomia, questa opposizione pratica, presente come sentimento dell'antitesi fra lo esistere, riducibile ai contenuti intuibili, e il dover essere, riducibile alle forme pure. Da questa antinomia nasce il pensiero. Questo pensiero chiamiàmolo pure Soggetto; ma il Soggetto è qualcosa e fa qualcosa in quanto si obbiettiva, esce di sè per divenire mondo: non è questo l'ideale stoico, unificare il soggetto al mondo, disperdere, per mezzo del pensiero, l'io in Dio, facendo combaciare il soggetto con l'oggetto?
Il pensiero, in quanto vuol obbiettivarsi nei valori assoluti, forma le idee pure, come l'idea di libertà: è il puro fine obbiettivato, la praticità resa pura in una forma, che dunque non è reale, e perciò la chiamiamo idea. La libertà può esser reale in un mondo noumenico, ossia è pensabile, ma non è pensabile come realtà conoscibile, come oggetto. Obbiettivamente diviene una norma della condotta; ma non si attua, questa norma, che nel solo modo possibile realmente, ossia nella concatenazione causale, la sola razionale nel mondo dell'esperienza... Rimane dunque un semplice «come se»? Nulla è più lontano dal Kant di questa illazione.
La stessa ragione, lo stesso valore a priori, che si attua praticamente in un dover essere puramente ideale e quindi in una norma, si realizza teoreticamente nei concetti riguardanti i contenuti delle esperienze. Qui il Soggetto si oggettiva di fatto, limitando i suoi fini trascendentali alle condizioni esistenziali, adattando la libertà del valore alla necessità della natura. Le categorie conoscitive sono le forme in cui il Soggetto, senza perdere il suo valore a priori, lo attua a posteriori, come dover essere di ciò che esiste sensibilmente. La volontà si fa intelletto e l'intelletto si fa oggetto. Di nuovo il soggetto sparisce come tale, come esigenza e finalità, per realizzarsi come fatto e causalità. Questa è la sola categoria, il solo modo della ragione, che renda intelligibili i sensibili, e quindi possibili i fini del volere, fra cui il fine stesso teoretico.
Allora, se chiamiamo finalità la soggettività del pensiero (il pensiero in quanto volere), la finalità soggettiva si oppone alla causalità oggettiva sol in quanto deve opporsi, praticamente, per essere finalità e volontà: ma non è un'opposizione teoretica, una contraddizione di fatto: nel fatto, ossia nel farsi, quel soggetto che idealmente si pone come dover essere, si realizza oggettivamente come essere fra gli esseri, si realizza come oggetto e non come puro Soggetto.
Se riusciamo ad uscire dall'intellettualismo e a concepire, kantianamente, il soggetto come praticità dell'oggetto (e, in ultima analisi, della sensazione), e non come un reale oggetto teoretico, sarà più facile superare anche i residui dello psicologismo che ritroviamo in Kant, quando riconduce il pensiero a una particolare attività che starebbe dietro i pensieri stessi, anzi prima delle stesse intuizioni. Le «facoltà» psicologiche kantiane, basta soffiarvi sopra, scompariscono con le ultime orme del precedente sostanzialismo. L'intelletto e la ragione sono i termini astratti che indicano in che modo si attua in concreto il volere in quanto raggiunge i suoi fini nelle forme pure e ideali, ossia nelle norme per giudicare e valutare, ovvero nei concetti (l'autocoscienza e la coscienza): ma il volere si fa pratico realmente nei reali atti come si fa realmente teoretico nel discorso e nelle rappresentazioni percettive. Preso in sè, come soggetto empirico che starebbe in potenza dietro i suoi atti, il volere non è che il desiderare e l'appetire; e questi altro non son più che il sentire. L'esistere del soggetto, ossia la praticità e finalità, astratta da tutti i suoi oggetti, non la possiamo far consistere, come già vedemmo e meglio vedremo, che nel sentimento, sia questo l'immediata certezza dell'esistenza, sia il dubbio filosofico o l’esigenza etica o religiosa; lo stesso Hegel dovette ridurre il puro soggetto a sentimento.
Ma il sentimento, o è praticità, valore del sensibile, e in tal senso coscienza; o è a sua volta conosciuto, preso come oggetto, realtà esistente, e allora diviene parte della sensazione, da ricondursi a cause che ne determinino l'essere fenomenico: e saranno infatti le condizioni per cui la sensazione, come è per certi aspetti dell'analisi fisica, così è per altri organica. La«natura» del valore, il sentimento o soggetto empirico, non può esser cercata che nella natura restante, pur essendo questa a sua volta condizionata dal valore teoretico, ossia dalla forma che prende la finalità soggettiva e sentimentale allorquando vuol realizzare i suoi fini oggettivamente, e conoscere il vero per meglio attuarli.
La sensazione, unica esistenza e presenza dell'io come sentimento e del non io come sensibile, è intelligibile soltanto come natura, che la trascende ma vi si relativizza e condiziona. Che prova abbiamo allora più d'un incondizionato, d'un valore assoluto, d'un assoluto Oggetto – che sarebbe insieme Soggetto assoluto –, e che pur sempre appare necessario come esigenza soggettiva e a sua volta condiziona a priori, sebbene praticamente, qualunque nostro giudizio? A questa domanda non può rispondere la conoscenza teoretica; risponde l'intuizione metafisica. Ma questa, o è intuizione del sovrasensibile, e allora è religione; oppure è intuizione del sensibile, dell'oggetto in quanto, proprio, forma sensibile (sintesi a posteriori) e del soggetto in quanto sentimento di questa forma (genitivo soggettivo!), sentimento estetico; e allora è arte.
Le influenze religiose sul pensiero scientifico e filosofico posson indurre a credere che la religione sia conoscenza; come gli stretti legami con l'etica e la vita pratica han radicato l'opinione che la religione sia di natura pratica e perfino utilitaria: ma essa è una categoria a sè, una forma autonoma proprio in quanto forma, avente per contenuto (come ogni forma e reciprocamente) tutti gli altri valori e su tutti reagendo. Questa forma è l'aspirazione a un dover essere posto oltre l'essere, è la volontà del sovrasensibile, e i suoi valori si chiamano santità e sovrannaturale, inconfondibili coi valori propriamente etici (umani) e teoretici, della conoscenzapossibile, ossia del sensibile (genitivo oggettivo!). Quando la religione si applica alla conoscenza diviene idea metafisica, filosofia trascendente; ma non può chieder le prove a una conoscenza teoretica, alla esperienza, ma soltanto all'intuizione della praticità e finalità soggettiva nella sua purezza fuori d'ogni contenuto.
L'intuizione religiosa, portata in filosofia, o è deontologica, filosofia pratica, come quella dell'etica kantiana; o è metafisica ontologica, giudizio esistenziale tutto a priori, nel qual caso non ha più alcuna prova della sua realtà fuori del sentimento che l'ispira. La sola prova che il Valore esista realmente non la possiamo cercare che interrogando le esistenze reali. E poi che non può stare, come s'è detto, nelle categorie teoretiche, che come pensiero superano il dato e dunque vogliono anch'esse la giustificazione di tal superamento, e che d'altra parte limitano il Valore alla sua relatività col contenuto in quanto oggettivo, dobbiamo interrogare la sensazione stessa per vedere se non ha un suo proprio valore, prima di acquistarne uno (oggettivo) nelle sintesi conoscitive.
Però, se è facile depurare l'intuizione sensibile dei valori teoretici obbiettivi – in altre parole, se è facile distinguere tra sensazione e concetto –, più difficile è liberarla dai valori ugualmente teoretici, ma subiettivi, ossia dai concetti psicologici che per lunga tradizione le sono connessi. Chi non pensa, quando pensa alla sensazione, ch'essa non sia «soggettiva»? soggettiva, non soltanto nel valore conoscitivo (ossia, paragonata alla cosa in sè, all'oggettività assoluta), ma soggettiva anche come natura, come essere reale – con evidente petizione di principio –, facendone un ente psicologico? È dunque per me necessario passare a traverso l'analisi della sensazione e sbarazzarla dello psicologismo che se n'è impossessato.
Questo ci obbliga a un lungo intermezzo su questioni naturalistiche, le quali per la filosofia hanno soltanto una importanza epistemologica. Il capitolo che segue è dedicato ai fisiologi e agli psicologi che ancora cercassero un legame causale tra il finalismo subiettivo e la causalità naturale ch'è di lor competenza. L'argomento nostro, sulla intelligibilità dei sensibili, verrà ripreso al capitolo V, e concluso.