Capitolo VI.IL TRIONFO DELLA COMUNE.

Un movimento di reazione contro il governo rivoluzionario si andava pronunciando in una parte della popolazione parigina. Il signor Alfredo Bome, sarto, capitano della guardia nazionale, si fece contatore di questo movimento facendo per via d'avvisi un appello agli amici dell'ordine.

Alla mattina del 21 marzo, il comitato mandò per arrestarlo, ma il signor Bome s'era messo in salvo.

Verso l'una egli fece appendere una bandiera ad un albero, innanzi alla sua porta. Su quella bandiera stava scritto: Viva l'ordine!

In breve numerosi gruppi si formarono sul boulevard vicino alla porta del signor Bome. La bandiera fu staccata dall'albero.

Un soldato di linea la portava. Circa mille persone lo seguivano, ad ogni passo la folla si ingrossava. S'udivano le voci: Viva l'assemblea! Viva il Comitato! Viva l'ordine!

Si parlava, si ciarlava, tutto andava bene fino all'ingresso della piazza Vendôme, dove alcuni battaglioni di guardie nazionali dell'insurrezione impedirono loro il passo incrociando le baionette.

I tamburi battevano la carica, ma quel rullo triste e ferale era quasi interamente coperto dalle grida Viva l'ordine! Viva la Repubblica!

Un gruppo di cittadini che era sboccato dalla via nuova dei Cappuccini, portando una bandiera tricolore, si avanzò di fronte alle guardie nazionali armate che ne sbarravano il passaggio.

Scoppiano varii applausi, si agitano dei fazzoletti; si ha speranza di un felice scioglimento. Vinte da questa dimostrazione pacifica già alcune guardie armate alzano il calcio del fucile.

Si sentiva che dopo alcuni secondi l'insurrezione avrebbe ceduto d'innanzi alla conciliazione.

Una di quelle sinistre sfingi che dovevano poi gavazzare nel massacro delle fucilazioni sommarie del giugno, stava in mezzo a quel gruppo. Era un gendarme che cavalcava poco discosto dal cittadino che portava la bandiera. Intorno alla bandiera il gruppo erasi reso più fitto. Le guardie dell'insurrezione ad un movimento che fece la folla avanzando, incrociarono le baionette. Non era un atto ostile, era un atto di difesa.

Il gendarme scaricò sulle guardie un colpo di revolver.

Fu il segno fatale.

Una scarica per parte delle guardie che risposero a quel colpo provocatore, colpì il gruppo che erasi stretto intorno alla bandiera.

In un batter d'occhio la via della Pace fu coperta di gente ferita, morta o sbattuta a terra dalla folla disordinata che si sbandava fuggendo da ogni sbocco.

L'allarme si sparse subito nei quartieri del centro. Tutte le botteghe, tutti i caffè furono chiusi. Gli amici dell'ordine gridavano che le dimostrazioni pacifiche non erano buone a nulla, ma gridavano molto, e nessuno prendeva un fucile.

Verso le 5 una dozzina di cadaveri avvolti in coperte, e dei quali non si era potuto constatare l'identità, erano condotti alla Morgue. Dovunque passavano quei cadaveri, ogni capo si scopriva, ed ogni labbro faceasi muto. Il cuore soltanto palpitava di sinistri presentimenti.

Chi aveva provocata quella prima strage?... Sempre!... Sempre questi vigliacchi satrapi!...

Prima dell'alba del 23, i quartieri del centro, eccetto lo spazio compreso fra la piazza Vendôme e l'Hôtel de Ville, appartenevano alle guardie nazionali conservatrici. Esse non fecero alcun tentativo sulle due piazze cinte di barricate, irte di mitragliatrici e di cannoni. Dalla parte Nord, rimpetto la via della Pace, a pochi passi dagli avamposti del Comitato, fu stabilito un posto dagli amici dell'ordine. Le sentinelle nemiche si guardavano dai due marciapiedi. Il grand'Hôtel, occupato da un battaglione fedele all'assemblea, divenne come un centro di arruolamento. Borghesi, militari, allievi della scuola politecnica, cittadini d'ogni ordine andavano là, per mettere il loro braccio al servizio della causa dell'ordine. L'ammiraglio Saisset trasportò il suo quartier generale alla stazione di Saint-Lazare, per trovarsi in più rapida comunicazione con Versailles. Così stettero le cose fino al giorno 25: nel quale il vice-ammiraglio Saisset pubblicò questo proclama:

«Investito del comando in capo delle guardie nazionali della Senna, e d'accordo coi signori sindaci di Parigi, eletti dal suffragio universale, io entro in funzioni a cominciare da oggi.

Io non ho altro titolo all'onore di comandarvi, miei cari concittadini, che quello d'essermi associato alla vostra eroica resistenza, difendendo con ogni mia possa contro il nemico, sino all'ultima ora, i vostri forti e le vostre posizioni poste sotto il mio comando.

Appoggiandomi sui capi eletti delle nostre municipalità, io spero di riescire con la persuasione e i savii consigli ad operare la conciliazione di tutti sul terreno della Repubblica, ma sono fermamente risoluto a dare la mia vita, se fa d'uopo per la difesa dell'ordine, il rispetto delle persone e della proprietà, come il mio unico figlio diè la sua per la difesa della sua patria. Stringetevi attorno a me. Concedetemi la vostra fiducia, e la Repubblica sarà salva.

La mia divisa rimane quella dei marinai:

Onore e Patria!

Il viceammiraglio comandante le guardie nazionali

Saisset».

Intanto i maires di Parigi trattavano col Comitato. Le trattative andavano a rilento. Il Comitato, per affrettarle, spedì tre battaglioni e quattro mitragliatrici alla mairie del secondo circondario, situata in via della Banca. Diversi magistrati municipali stavano riuniti colà. I tre battaglioni e le quattro mitragliatrici si fermarono in fondo alla via Vivienne. Alcuni delegati del Comitato centrale furono ricevuti dai magistrati municipali. Si discusse lungo tempo. Infine si convenne che le elezioni sarebbero prorogate al giorno 30.

I delegati diedero la buona notizia ai tre battaglioni, che alzarono il calcio dei fucili in aria. A questo segno, le guardie nazionali conservatrici si fecero da banda per lasciarli passare. Essi sfilarono lungo i boulevards, gridando viva la repubblica e viva la Comune. La voce che un accordo era avvenuto si sparse rapidamente nella città.

Ma il Comitato centrale non volle accettare la convenzione fatta dai suoi delegati. Esso rifiutò nettamente di prorogare per una terza volta le elezioni. Ogni tentativo fu inutile. Le probabilità di una lotta fratricida parevano ritornate. Gli amici dell'ordine aveano comperate diverse altre mitragliatrici. I generali della repubblica sociale facevano fortificare maggiormente le barricate della piazza Vendôme e del Palazzo di Città.

Alcuni magistrati municipali e sei deputati della Senna, vollero ad ogni costo evitare la guerra civile. Essi acconsentirono alle elezioni immediate, ed invitarono i cittadini ad accorrere numerosi alle urne.

E così avvenne che mentre l'ammiraglio Saisset col suo proclama si diceva d'accordo coi maires, gli stessi maires mandarono fuori quest'altro, col quale essi si mettevano d'accordo col Comitato.

Repubblica Francese

Libertà, fratellanza, uguaglianza, giustizia.

I deputati di Parigi, i sindaci e gli aggiunti eletti, reintegrati nelle mairies dei loro circondari, e i membri del Comitato centrale federale della guardia nazionale, convinti che il solo mezzo di evitare la guerra civile, l'effusione del sangue a Parigi, e in pari tempo di consolidare la Repubblica è di procedere alle elezioni immediate, convocano per domani, domenica, tutti i cittadini nei Collegi elettorali.

Gli abitanti di Parigi comprenderanno che nelle attuali circostanze il patriottismo li obbliga d'andare tutti a votare affinchè le elezioni abbiano quel carattere serio che solo può assicurare la pace nella città.

Viva la Repubblica!

(Seguono le firme di cinque rappresentanti della Senna presenti a Parigi e quelle dei sindaci e aggiunti).

Dopo ciò Saisset credette che a Parigi non c'era altro da fare e se ne andò a Versaglia. Partì da Parigi a piedi; per non essere riconosciuto, si era messo un paio d'occhiali e teneva in mano un numero del Rappel.

Poco dopo aver passato la porta, l'ammiraglio salì in una vettura che l'aspettava e arrivò a Versaglia senza impedimenti.

Dopo la partenza dell'ammiraglio il partito dell'ordine rimase scoraggiato, e abbandonò ogni idea di resistenza. La rivoluzione dominò in Parigi senza contrasto.

Tutte le guardie nazionali dell'ordine ritornarono immediatamente alle proprie case. I battaglioni dell'Hôtel de Ville abbandonarono dal canto loro varie posizioni occupate, levando su molti punti le barricate erette, ma conservando la piazza Vendôme, quella dell'Hôtel de Ville, Battignolles, Montmartre e Belleville.

Mancando il tempo materiale di convocare gli elettori, i cittadini si radunarono per le strade, ed i boulevards, dalla Bastiglia alla Madeleine, presentavano dalle nove ore a mezzanotte uno spettacolo dei più interessanti. Centinaia di gruppi si erano formati, ed ovunque, dopo essersi scagliati contro l'assemblea ed approvata la condotta conciliatrice dei maires e deputati di Parigi, si conchiudeva da molti colla necessità di recarsi tutti l'indomani a votare, onde insediare al più presto un potere municipale legalmente eletto.

Le elezioni avvennero dunque in Parigi il 26 marzo.

La votazione fu scarsa, in causa della precipitazione in cui fu ordinata, del consiglio d'astensione, tanto facile a seguirsi, dato da varii giornali e finalmente per l'assenza da Parigi di quella parte della popolazione che aveva abbandonato Parigi minacciata dalla guerra civile.

Duecentomila elettori si recarono alle urne, e, meno pochi quartieri aristocratici, l'affluenza degli elettori fu numerosa e relativamente proporzionata al numero degli inscritti. Giammai elezioni avvennero con maggior calma e tranquillità, sia durante la votazione, che durante lo scrutinio. La città riprese il suo aspetto ordinario. Tutte le botteghe eransi riaperte, i pubblici passeggi invasi da una moltitudine gaia e noncurante.

Intanto il nuovo governo pensava a fortificarsi contro qualunque attacco.

Alla piazza Vendôme i cannoni che erano stati levati dalle barricate vennero rimessi in posizione.

A Batignolles si eressero nuove barricate e per poter liberamente circolare in quel quartiere come in quello di Montmartre, senza deviare dal proprio cammino od allungarlo, i passanti venivano costretti, pro forma, a concorrere all'erezione di quelle barricate. Citoyen, votre pierre! si gridava e il passeggiero doveva raccogliere da terra una pietra qualunque e posarla sulla barricata.

Qualunque dovesse essere l'esito della lotta che stava per cominciare, il fatto era compiuto. Parigi si era emancipato col governo di Thiers.

Il guanto era stato lanciato, ed i due partiti si misurarono corpo a corpo. Luis Blanc scriveva in risposta a Cernuschi, che gli chiedeva quali fossero le sue idee sulla Comune e sulla posizione dei due movimenti.

«Desiderate sapere se sono rimasto socialista. La vostra curiosità sopra questo punto deve essere ben grande poichè è la seconda volta che me lo chiedete pubblicamente.

Permettete d'aggiungere che se ciò ignoravate, non lo è per colpa mia, poichè nelle mie lettere al Temps non ho mai trascurata una occasione per far conoscere le mie convinzioni politiche e sociali, ed ancora recentemente, spiegai, sviluppai, e difesi queste, in un libro pubblicato in Francia sotto il titolo La Rivoluzione di febbraio.

È vero, dal momento che ritornai dall'esilio per rinchiudermi in Parigi assediata, i miei pensieri e la mia mente erano interamente occupati da ansietà grandissima pelle sventure della mia patria; ma quello che ero, quello sono. Al momento presente mi sento attirato con tanta forza quanto sempre, verso lo studio del problema da lungo tempo definito nei seguenti termini:

Il miglioramento morale, intellettuale e fisico, nella condizione della classe più numerosa e più povera, mediante la cooperazione e gli sforzi, anzichè coll'antagonismo, e mediante associazione, anzichè con conflitto.

Se riguardo ai mezzi pratici da impiegarsi per arrivare gradatamente alla soluzione di questo grande problema, venti anni d'osservazione e di studio sincero avessero modificato le mie idee, mi considererei obbligato dall'onore di dichiararlo. Questo dovere non lo ho. La ragione forse è che il modo erroneo fu preso per convincermi essendo le mie opinioni state poste in ridicolo e calunniate piuttosto che discusse.

In quanto al rimprovero indirizzatomi d'appartenere ad un partito che, per citare le vostre parole, «teme di danneggiare l'edifizio secolare dell'unità reale, e teme l'apparizione d'una costituzione federale, dalla quale verrebbe spezzata la catena del passato» intendiamoci.

Lo spezzare la catena del passato, lo credo nè desiderabile nè possibile, pella semplice e ben nota ragione che il passato è genitore del presente, il quale a suo posto è genitore del futuro. E stimerei cosa da deplorarsi, se la catena del passato potesse essere spezzata, che lo fosse pel vantaggio del federalismo che sembrate desiderare. Se la sola cosa da farsi sarebbe il danneggiare l'edifizio secolare dell'unità reale, un vecchio repubblicano quale io sono, non sarebbe spaventato da un simile risultato. Ma il principio pel quale io pugnerò sino a tanto che potrò tenere la penna, è quello che la Repubblica proclamò; quello dal quale ebbe la sua forza per schiacciare la coalizione dei re: quello espresso da quelle parole che spiegano tante vittorie e richiamano tanti grandi fatti. – «Repubblica una e indivisibile!»

La Francia avanzando unita e compatta alla conquista pacifica della sua libertà e di quella del mondo, con Parigi, – l'immortale Parigi – per capitale, è un prospetto che mi piace molto più, lo ammetto – che la Francia, divisa come quel federalismo italiano del medio evo, che era la causa continua di contese interne in Italia, e che la consegnava, lacerata da sè stessa, ai colpi d'ogni straniero invasore.

Non mica ch'io sia in favore della centralizzazione portata agli estremi. – Lungi da ciò. Io considero che la Comune rappresenta l'idea d'unità non meno veramente, che lo Stato, sebbene sott'altro aspetto. Lo Stato corrisponde al principio di nazionalità; la Comune corrisponde al principio d'associazione; se lo Stato è l'edifizio, la Comune ne compone le fondamenta. Ora dalla solidità delle fondamenta dipende quella dell'edifizio.

Da ciò segue che riconoscendo il diritto della Comune di governare se stessa, d'eleggere i suoi magistrati, principiando dal Maire, di controllare i loro fatti, di provvedere in una parola a tutto ciò che costituisce la sua propria esistenza, per tutto ciò che la sua autonomia realizza, la causa dell'unione nazionale è realmente servita.

Ma come è necessario che le municipalità sieno libere nei loro movimenti – in tutto ciò che specialmente le riguarda – così pure è necessario che il legame che le unisce una all'altra e le attacca ad un centro comune sia stretto vigorosamente. Come il decentramento è necessario in tutto ciò che riguarda interessi locali, così sarebbe pericoloso se esteso a interessi generali. Soffocamento, no; unione sì. Di certo nessuno negherà che è di buon senso l'attribuire – ciò che è personale all'individuo; ciò che è comunale alla Comune; ciò che è nazionale alla nazione.

La difficoltà sarebbe di segnare una linea di distinzione bene definita, fra queste diverse classi d'interessi, se i mezzi di distinguere l'una dall'altra non fossero quasi sempre forniti dalla stessa natura delle cose, ed inerente nelle leggi dell'evidenza. Sotto qualunque circostanza ciò è materia di libera ricerca e libera discussione. Ma ahimè! quanto lontano sembra ancora il giorno in cui quella massima che l'accumulare dei sofismi ha resa sì oscura diverrà un assioma – «la forza non fonda nulla perchè nulla stabilisce!»

Di fatti cosa ha luogo? Tuona il cannone; l'abisso s'apre: ammazziamo; moriamo; e tale è la fatalità della situazione, che quelli entro l'assemblea e quelli di fuori che darebbero la loro vita per vedere questo sanguinoso problema sciolto in modo pacifico, sono condannati alla tortura d'essere incapaci di fare un solo atto, di emettere un grido, di dire una parola, senza correre il rischio di provocare manifestazioni contrarie all'oggetto che si propongono, e senza esporsi in questo modo ad irritare la malattia, o avvelenare la piaga. Fuvvi mai miseria come questa? E quando il ritorno a pace civile dipende per un lato, dalla ricognizione formale della sovranità del popolo, che è il suffragio universale che lo esprimerà in modo più intelligente, in proporzione che l'organizzazione viene ammigliorata, e per l'altro lato sulla consacrazione senza rancore di tutto ciò che costituisce libertà municipale, è concepibile che invece di cercare una via d'uscita da tanti mali, in una politica di pacificazione, di conciliazione e d'obblio, i francesi continuino a tagliarsi l'un l'altro la gola, sotto gli occhi del nemico, che le nostre discordie rinforzano, e sotto quelli del mondo che scandalizzano? Oh! guerra civile, inoculata sì fatalmente sopra guerra straniera! Lotta orrida, fatta fra una notte intellettuale, che un solo raggio di pensiero dovrebbe da per sè dissipare, vi è una cosa che uguaglia i tuoi orrori, ed è la tua follia!»

Louis Blanc

La lotta infatti facevasi ogni giorno più spaventevole e più accanita. La difesa di tutti i punti armati, fino a Vanves ed a Issy, fu eroica. Il generale Cluseret lo proclamò altamente abbandonando il forte crivellato di palle.

Il forte Issy resistette un mese contro le formidabili artiglierie dei Versagliesi che ritornavano quasi tutti i giorni all'assalto.

La batteria stabilita tra Meudon e Chatillon dagli insorti, cagionava ai Versagliesi serj guasti.

Quattro granate tirate dagli insorti su Breteuil avevano smontato un cannone nemico ed uccisi diversi artiglieri di marina.

I Versagliesi da parte loro tiravano a gola spianata contro il forte d'Issy – gli orrori della guerra aumentavano.

A Neuilly i viveri mancavano completamente – molti di quegli infelici abitanti, che eransi rifugiati nelle cantine onde sfuggire al bombardamento vi erano morti della morte la più orribile. Di fame!...

In una cantina si trovarono perfino 36 cadaveri umani deformati dalla più spaventevole delle agonie.

Frattanto nel seno stesso della Comune sorgevano discussioni fatali, diffidenze e rancori personali. Il Temps aveva suggerito un piano di conciliazione e dai più assennati della Comune era stato accettato. Pascal Grousset delegato agli affari esteri, aveva perfino dichiarato che la Comune stessa desiderava la conciliazione.

L'uomo che vi si opponeva, che per nulla voleva transigere... armato soltanto della sua alterigia, del suo orgoglio infame!... delle sue mire liberticide, a cui tutto voleva sacrificare, – il vigliacco ipocrita che sotto l'idea dell'ordine nascondeva il rancore personale!... Il vecchio ebete che nulla capiva nè delle aspirazioni del secolo, nè del pericolo in cui travolgeva la Francia, che non conosceva nè cose, nè uomini!... era Thiers.

A Parigi il disordine cresceva ognor più... se molti degli uomini della Comune erano onesti – se saggi erano molti dei principii che informavano quel movimento che poteva essere l'ultimo baluardo della libertà francese, mancava una mente atta a comprenderlo, a guidarlo!... – Cluseret era stato minacciato d'arresto, e Rossel era stato nominato provvisoriamente delegato di guerra.

Egli stesso scrisse una lettera alla Commissione esecutiva in cui, accettando il posto, diceva abbisognarli tutto il concorso il più assoluto per non soccombere nella lotta.

Il servizio telegrafico privato era stato sospeso provvisoriamente.

Il primo maggio udivasi uno spaventevole cannoneggiamento ed un fuoco continuato di moschettería su tutta la linea, dalla porta Maillot fino a Montmartre.

Tutte le batterie federali, comprese quelle delle alture tiravano a tutta volata.

L'effetto che tutto questo frastuono terribile, assordante, produceva nella città era tale, che il sangue gelavasi nelle fibre dallo spavento.

La Cecilia fu nominato comandante il forte d'Issy, – i Versagliesi tentavano un attacco definitivo.

Parigi giudicata da Petrucelli della Gattina.

Parigi, aprile.

Quel benedetto programma di cui vi diedi un riassunto nell'ultima mia, ha suscitato un diabolico garrito nei giornali partigiani dell'assemblea.

Doveva esser così.

Chi lo accusa di vago, chi di fantastico, chi di pattume di vecchi sofismi, chi di mancanza di senso pratico; ed ognuno a bezzicarlo dal lato che più lo molesta.

Due proposizioni però hanno destato una riprovazione unanime e generale; l'universalizzamento della proprietà e del potere; l'associazione delle Comuni autonome della Francia!

In queste due proposizioni, si è creduto scorgere che la Comune dimanda: il federalismo ed il comunismo.

Da cinque settimane, il partito che impera all'Hôtel de Ville ha subito dei quotidiani e profondi cambiamenti. Il comitato centrale è stato annullato. Ventisei membri eletti hanno dato la loro dimissione per incompatibilità di principii – e ieri ancora si ritiravano due uomini notissimi, Fèlix Pyat e Rogeard – l'autore dei famosi Propositi di Labieno. Degli uomini comunemente noti non rimangono che l'equivoco Delescluze. Io non so più, alcuno non sa più chi siano, cosa siano, cosa vogliano gli uomini che compongono la Comune di oggidì. L'Internazionale sembra messa da parte, e ieri si parlava altresì di un nuovo arresto di Assì. Potria dunque esser possibile che dessi avessero tendenze comuniste, o piuttosto socialiste, nel senso di Fourier. È incontestabile ad ogni modo che essi sono federalisti, e che navigano in quel vago tenebroso che addimandasi la repubblica universale.

Noi non vogliamo nè accusarli, nè scusarli, non essendo più con loro le nostre simpatie. Vogliamo precisare.

La politica, scienza di fatti, più che ogni altra, dovrebbe usare dell'esattezza del linguaggio algebrico: ed allora, per ventura dei popoli, tutto ciò che il governo parlamentare ha di ciarlatanesco scomparirebbe.

Per insensata però che si voglia supporre la coda dell'attuale Comune, essa deve sapere che in Francia, come altrove, il comunismo alla maniera di Baboeuf e di Cabet è un delirio. Essa sa pure, per la sperienza che ha delle associazione operaie e dalle proposte che faceva il sindacato di trentadue di queste associazioni, che il socialismo, quale fu professato nel 1848, non è di voga; è stato smantellato da quel rude pugilatore che fu Proudhon, e da altri e poi altri della scuola economica; non è adesso altrimenti che una rosea visione di un avvenire identico, che l'angelo del lavoro guarda con la sua spada di fuoco; non seduce più l'operaio serio, che oggi si batte, non per la confusione nel falanstero, ma per la libertà dell'officina. Noi non possiamo quindi credere che per quella frase infelice: universaliser le pouvoir et la proprieté, la Comune abbia voluto intendere la uguaglianza assoluta, od anche il socialismo nella guerra al capitale, all'eredità, alla proprietà, al tabernacolo santo della famiglia.

Per l'universalizzamento del potere, la Comune ha voluto dire probabilmente, che tutte le cariche pubbliche sarebbero delegate per suffragio al popolo; che la sovranità integrale resta così inerente al popolo, e che per tal guisa il potere sarà universale. Per l'universalizzamento della proprietà – se ciò significa qualche cosa – sembraci che non abbiasi dovuto intendere altro che l'abolizione del salario, e la partecipazione uguale dei produttori al prodotto. Ora, come oggi la produzione appartiene al capitale, il quale si redime della parte spettante altrui col pagamento di un salario, egli avverrebbe, che la proprietà si universalizzerebbe, se tutti coloro che concorrono a crearla vi avessero la loro debita parte.

Non ho bisogno di aggiungere che alcuno non ha dato questa benevola spiegazione all'assioma scuro del programma, neppure i giornali favorevoli alla Comune. E la ragione è chiara.

Questa ha bisogno adesso di tutte le forze quindi ha bisogno di accecarle tutte nell'indeterminato crepuscolo di un linguaggio, a cui domani si darà il senso che le circostanze detteranno. Ed è ciò appunto che i giornali nemici non le consentono, attribuendole i disegni i più sinistri.

Più vivo è stato l'attacco a proposito del federalismo. Ma, su questo terreno, i lottatori si sono battuti nel buio. Bisogna intendersi però; dappoichè il federalismo non è solo all'ordine del giorno in Francia. Esso lo è in Italia, in Austria, in Spagna; e qui piglia le forme di ribellione, là di reazione, altrove di progresso e di libertà; in Austria resta monarchico; in Spagna e Francia assume divisa repubblicana; in Italia gli uni si accomoderebbero dei vecchi principi, gli altri vorrebbero la repubblica.

Il rumore che fa questa parola gli è perchè si fa del federalismo l'antitesi e l'antipodo dell'unità.

Ora, ciò non è.

L'unità è un principio, un principio assoluto. Il federalismo è una modalità, un metodo, una forma di governo.

Il federalismo può coesistere con l'unità nazionale. Cosa è infatti il Regno-Unito, o l'Inghilterra? una Confederazione dell'Irlanda, della Gran Bretagna, le quali conservano ciascuna certe specialità politiche ed amministrative, benchè tutte abbiano un sol potere esecutivo, un solo parlamento, ed in generale un'uniforme legge organica dello Stato. Gli Stati Uniti, benchè una confederazione di ventinove Stati, e alcuni territori che mano mano van diventando Stati, è tuttavia una nazione: l'America del Nord. La Svizzera è nelle stesse condizioni. La federazione non è dunque l'assoluta negazione dell'unità, come qui si vuole far asseverare alla Comune. Essa è una facilità della forma governativa, prodotta dalla storia come in Inghilterra; creazione della geografia diplomatica, come la Svizzera; necessità della resistenza, della diversità dei culti, dell'etnologia e della sterminata estensione del suolo – oltre le ragioni – come nell'America del Nord.

Le ragioni di razza renderanno, fra non guari, necessaria questa forma di governo nella bicipite Austria; nè perciò l'Austria cesserà di esistere, o diventerà meno potente, o sarà un fattore meno glorioso della civiltà. Ed è ciò appunto che si rimprovera alla Comune: di voler disfare in Francia l'esistenza, il potere, la civiltà, disfacendo l'unità.

In Francia vi è la tradizione dell'unità, radicata nelle due fazioni che dividono la società francese.

La monarchico-clericale attinge questa tradizione di lontano. Essa la data da Luigi XI; la dice completata da Richelieu; incarnata in Luigi XIV, il quale la perfezionò fino a poter dire: Lo Stato sono io!

La fazione giacobina attinge la tradizione all'89, quando la Francia degli Stati, delle caste, degli ordini fu livellata; quando gli Stati divennero dipartimenti; le caste e gli ordini divennero il popolo; il tutto fu addimandato Nazione. Non vi fu più nè Piccardia, nè Normandia, nè Borgogna, nè Anjou, nè alcun'altra provincia; vi fu la Francia.

Un lavoro di amalgamazione analogo avevano compiuto in Ispagna, coi regni Ferdinando ed Isabella, Carlo V e Filippo II.

Cosa dimanda il federalismo rivoluzionario ne' due paesi?

La demolizione dell'opera della monarchia. Dimandar il ritorno agli antichi ordini è desso un regresso? Gli è un dimandare il dislocamento della nazione? Nulla di ciò.

I re di Lione, di Aragona, di Castiglia, di Navarra erano re spagnuoli, governavano un popolo spagnuolo, rappresentato con l'amplissima libertà dei fuoros e dalle Cortes.

I sessantuno grandi feudi, sotto Ugo Capeto, che poi divennero le ottanta provincie, grandi e piccole, e più tardi circa quaranta governi, grandi e piccoli, avevano capi, donni, amministratori, con larghi privilegi, ch'erano pure francesi, come francese era il popolo. Queste divisioni mobili, godenti di vecchie franchigie, erano al postutto divisioni amministrative, ordinate o rispettate dai re o dipendenti da loro come signori suzerrini, che non alteravano punto l'unità nazionale, neppure con la ribellione di questo o di quel capo.

Se dunque quando esistevano questi reami, questi feudi, queste provincie, questi governi non disgregavano la compage nazionale, come potriano disfarla adesso, quando la ricostruzione che si dimanda non ha altro significato che la rottura delle catene dell'accentramento, l'applicazione del municipio del self-governement amministrativo, cui riconosce politicamente allo Stato: il rispetto della libertà individuale e di domicilio applicata all'ente comune? Un federalismo inteso così, in queste condizioni, in questi termini, in questi paesi che godono di una tradizione storica nazionale, lungi dall'essere un attentato contro la patria, noi troviamo che è un passo nel progresso amministrativo, nella libertà e nel rispetto che debbesi ad un popolo, la di cui maturità politica è sanzionata dal suffragio universale.

Vi è bene un federalismo retrogrado e colpevole, ed è quello appunto che reclamano il partito monarchico-clericale e repubblicano italiano.

In Italia vi furono sette Stati, ove il popolo era ben italiano, ma dove i governi – tranne il sabaudo – erano tutti stranieri – austriaco o spagnuolo, e peggio ancora, cosmopolita. Il papale. L'unità monarchica, espressione dell'unità del popolo, ha sbarbicati questi governi stranieri. La ragione di essere del federalismo monarchico-clericale saria di ristaurarli; la colpa del federalismo repubblicano saria di spianare la via al loro sollecito ritorno, mediante l'infiaccamento del legame nazionale, e dell'abolizione del suo simbolo, la monarchia, la monarchia unica!

In Francia, dove la monarchia e l'impero, con l'incentramento, s'immedesimarono la nazione, bisogna sgroppare per restituire la nazione a sè stessa. In Italia, dove la nazione era annullata mediante il suo partaggio fra dominatori stranieri, bisogna, al contrario, ricostruirla aggruppandola intorno ad un centro solo. La geografia aveva, come la natura, una Francia, una Spagna. La natura dava bene una penisola italica; ma la geografia politica segnava un regno di Napoli, un regno di Sardegna, un regno Lombardo Veneto, uno Stato Pontificio... Ed Italia? Zero.

L'Italia dovette dunque rifare una storia di rovescio di quella di Francia; e perciò, se qui la federazione saria un ascendere nelle spire del progresso, in Italia saria un discendere verso le caligini del passato.

È mestieri d'aggiungere che federalismo e discentramento non sono punto una stessa cosa, e che, anche presso di noi, respingendo l'uno si debbe sollecitare la realizzazione dell'altro, non fosse che per combattere il federalismo che il discentramento?

In sostanza, anche qui, anche come lo intende la Comune, il federalismo non è che un vasto discentramento. Ed è perciò che degli spiriti vasti e serii, come gli uomini dell'Unione repubblicana, dell'Unione delle Camere sindacali del commercio, a cui aderirono l'altra sera ventisette Camere sindacali di Società operaie, non ripudiano la Comune, avvegnachè ne condannino gli atti oltre la loro competenza municipale.

La Comune è un Governo rivoluzionario, in istato di guerra col Governo nazionale e con una parte dei suoi concittadini, i quali credono quel Governo solo legittimo e nel vero. Gli uomini che operano le rivoluzioni non sono di ordinario i più timorati, coloro che potriano concorrere per il premio della virtù Montyon. Se molti degli atti di questi uomini sono essenzialmente biasimevoli, perchè non addebitarne la colpa a coloro che, più virtuosi, più temperati avriano potuto concorrere col suffragio e con la persona alla composizione di una Comune più sennata, moderata ed illuminata? Sì è voluto fare il vuoto intorno all'Hôtel de Ville; si è voluto astenersi. Gli scioperati sono quindi restati più liberi, ed imperano soli.

La Comune ha ricomposto il suo Consiglio esecutivo; e di che uomini! Basti dire che il più moderato e il più sennato è Cluseret – formato ai bureaux arabes, in Algeria – come chi direbbe uscito dalla scuola politecnica della pirateria! Del resto, non conoscendo gli altri, non so cosa dirne. So benissimo però che si esagerano enormemente gli atti arbitrari, cui la violenza della situazione produce. Ad ogni modo comparata con l'Assemblea di Versailles per saggezza, senso pratico, moderazione, magnanimità, la Comune primeggia come un faro sopra un moccolo.

Io ho la convinzione che il signor Thiers non reggerà lungo tempo. Di già si comincia la demolizione del suo Gabinetto. Picard non resterà. Jules Favre lo seguirà. – Questi due uomini non sono l'idolo della Francia: il partito repubblicano li disistima. Ma la loro caduta sarà il segnale di una reazione che allargherà la cerchia della guerra civile moralmente, e preparerà una resistenza nelle grandi città, che renderà l'esistenza dell'Assemblea impossibile. Questa è il pernio della discordia. Un'assemblea anche più trista – e lo sarebbe forse – non sveglierebbe tanti odii, tanti timori, tante ripugnanze. Senza la diversione della battaglia intorno Parigi, l'Assemblea non avrebbe adesso l'ombra di valore morale. Ora sventola come l'orifiamma della Francia perchè serve di padiglione al vascello dello Stato. Quando la bandiera della Comune sarà abbattuta, quella dell'Assemblea non sfrangerà lungo tempo i campi dell'aria.

I combattimenti sotto Parigi vanno sempre male per i federali. Però i Versagliesi non avanzano gran che. Neuilly e Asnières si possono oggimai dire neutralizzati. I federali non vi son più. Ma i Versagliesi non possono radicarvisi. Gli uni si ritengono sulla seconda sinistra, gli altri sulla destra della Senna. Ad ogni conto rimarrà il cómpito più arduo: pigliar d'assalto le mura, poi la città, barricata per barricata. Ed in fine, quando l'esercito del signor Thiers si sarà impossessato di Parigi, esso avrà pigliata una città nemica che abbomina l'Assemblea, e il signor Thiers più che non fu mai abborrito il tedesco.

La legge del fitto, essa sola, ha volto loro contro più di 200 mila parigini, i quali, pagando un fitto inferiore di 600 franchi annui, credevano di essere esonerati da una parte della pigione. La Commissione l'aveva sanzionato: la maggioranza ha respinto l'articolo 8 che legislava questa misura.

Che farà di Parigi nemica, l'Assemblea a Versailles? L'imperatore Napoleone III è caduto, vinto, non dall'orrore che ispirava a Parigi, ma dal semplice broncio di questa fantastica città. Da trentasei ore si combatte sullo spazio delle rive della Senna che intercede fra Neuilly ed Asnières. Combattimento feroce, senza mercè, corpo a corpo, complicato di sciagure, come l'esplosione della polveriera a Neuilly, che seppellì meglio di settanta persone – non combattenti – sotto il conquasso. La battaglia nella città sarà occasione di fatti terribili, di ruine incalcolabili. La Comune passa. I suoi attori entrano in quella notte formidabile che chiamasi popolo; il Governo di Versailles resta, ed eredita tutti gli odii.

In Francia il vinto ha sempre ragione, chiunque esso sia.

Le prime angherie della Comune saranno obbliate. Le si conterà per bene che, potendo, e forse dovendo innalzare il patibolo, onde essere consentanea all'indole sua, non sparse neppure una gocciola di sangue: giuridicamente e rivoluzionariamente; non confiscò, come l'Austria, il re di Napoli, e Napoleone III; non istituì tribunali rivoluzionari; si lasciò discutere dalla stampa, contaminare d'ogni sporchizia, come fa quotidianamente l'Univers, e non ebbe che dei lampi di dispetto che la rimpicciolirono, invece dei ruggiti di collera che l'avrebbero ingrandita. Ecco ciò che si ricorderà quando il signor Thiers sarà entrato a Parigi, aprendosi la via con la mitraglia, e passando per la via sacra sopra i cadaveri di dodici o quindici mila francesi.

Regna una grande inquietudine nella classe placida della popolazione, e fra coloro che hanno relazioni con lo straniero. Dicesi che i cinquecento milioni scaduti della tassa di guerra siano già in potere del Governo, e che vadano subito ad esser pagati ai tedeschi. Con questo pagamento, secondo la capitolazione, costoro debbono sgomberare i forti al nord-est di Parigi, il dipartimento della Senna, e quello di Senna e Oise...

Se ciò avverrà, tutte le comunicazioni oltre Parigi saranno intercettate, e l'investimento della piazza sarà completo. Il bombardamento può essere, sarà generale. Comprendete dunque la costernazione di tutti – non esclusi i combattenti – i quali non sono abbastanza in forza per tenere tutta la cerchia di Parigi e sostenere battaglia in più punti ad un tempo. A Versailles vi sono già 140,000 uomini.

Io non ho veduto segno fra i tedeschi di questa partenza subita. Ma ciò potria arrivare da un momento all'altro, ed il segreto si conserverebbe appunto per fare giungere il fatto come un fulmine sulla città insorta. Che eccidio! che sconquasso, se l'assalto ha luogo, e se i fortilizi del nord-est, rivenuti in mano del signor Thiers, – che nel 1848 protestava contro il bombardamento di Palermo! cominciano a lanciare obici sui quartieri popoleschi di Montmartre, della Chapelle, della Villette e di Batignoles! E poi un assedio sopra un assedio! Fa orrore pensarvi. Parigi è sprovveduta di tutto, e le derrate sono fin da ora orribilmente care. Che inferno, che giorni che spuntano!

Petruccelli Della Gattina

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