I crociati genovesi mi pigliano per sopraccarico, ed io me ne vado con essi in Sorìa; non già per farmi cronista delle loro intraprese, chè i consoli non me ne hanno commesso l'ufficio, sibbene per poter scrivere qualche pagina di storia ai lettori, in quella parte che si ragguarda alla mia narrazione.
Le galere, partite da Genova sui primi di luglio, giunsero in ottobre al porto di San Simeone, presso Antiochia, dove allora, espugnata Nicea, stavano ad oste i cristiani. Già da quattro mesi l'esercito stringeva d'assedio quella città, ma senza alcun pro, imperocchè si difettava di artiglierie. Allora, siccome è noto, portavano questo nome tutte le macchine da trarre e ingegni di guerra, come a dire le torri di legno, le briccole, gli arieti, le testuggini, i gatti ed altri arnesi consimili.
Laonde, non è a dire come tornasse grato a messer Goffredo Buglione e a tutti gli altri baroni della crociata l'arrivo dei genovesi, che si sapeva essere in cosiffatte materie espertissimi. Tosto fu mandato incontro ad essi buon numero di cavalieri, per salutare i nuovi compagni e affrettare la loro venuta al campo latino.
Messer Guglielmo, a cui già si può dire che le mani formicolassero, accolse lietamente i messaggieri dell'esercito e lasciato il fratel suo, Primo di Castello, col figlio Nicolao, al comando dell'armata, mosse alla volta del campo con grossa schiera dei suoi e con un drappello di maestri da operare in ogni specie di legnami e congegni ferrati.
Quell'aiuto portò i suoi frutti; i quali tuttavia, per la fortezza del luogo, che era difeso da doppia cerchia di mura, e per la validissima resistenza degli assediati, non giunsero a maturità che nell'ultimo giorno di maggio del seguente anno 1098. Appunto in questo lungo frattempo, i genovesi ebbero a patir grandemente delle loro navi. Ed ecco in qual modo.
La campagna, tutto intorno ad Antiochia e all'oste dei cristiani, era mal sicura, per le continue scorrerie degl'infedeli, ed anco (rincresce il dirlo) di molti fedeli, datisi al lucroso mestiere di ladroni, che forse aveano già esercitato ne' loro paesi. Non tutti avean preso la croce per amore di Cristo; c'erano baroni, che agognavano impadronirsi di qualche città in Sorìa, la quale li confortasse della povertà di loro castellanie in Occidente, e c'erano avventurieri, che dopo avere ribaldeggiato per tutta l'Europa, venivano a cercare miglior fortuna in Terra Santa.
Così stando le cose e non potendosi distogliere dall'esercito una parte di soldatesche, le comunicazioni degli assediati col mare poteano dirsi interrotte, salvo nei casi eccezionali dello approvvigionamento, per cui si spiccavano grossi drappelli fino al porto di San Simeone. E quivi un bel giorno corse la voce, che lo esercito dei cristiani fosse stato disfatto, parte uccisi, o prigioni, e tutti gli altri sbandati per la campagna, senza speranza di poter guadagnare la spiaggia. La nuova era stata recata da due capitani d'oltremonte, i quali, una notte in cui gli assediati erano usciti dalla città e piombato in mezzo ai cristiani, sopraffatti dalla paura, avean preso la fuga e giù a spron battuto erano giunti fino al mare.
Il fratello e il figlio dell'Embriaco non sapeano che farsi, se lasciar le navi per andare in traccia dei superstiti e morire con essi, o salvare almeno l'armata, mettendosi al largo. Mentre così stavano incerti, non dando retta a Gandolfo del Moro, il quale parteggiava caldamente per un ritorno sollecito, ecco giungere alla spiaggia, dalle parti d'Ascalona, numerose schiere di Saracini, i quali accennavano di muovere alla volta d'Antiochia. Lo sbarco era fatto impossibile ormai; la perdita dei compagni più che sicura. Prevalse allora il consiglio di Gandolfo, e le galere genovesi usciron dal porto, per ritornarsene mestamente in Liguria.
Per colmo di sventura, sui primi giorni di navigazione, l'armata fu colta da una fiera burrasca, così che fu mestieri pigliar terra a Mirrea, nell'Asia Minore, sottoposta allora al dominio dell'imperatore Alessio, quel tale che amava i Crociati come il fumo negli occhi e s'augurava di vederli cader tutti quanti sotto le scimitarre dei seguaci di Macone.
A guardare le cose dal lato suo, il Bizantino non aveva poi tutti i torti del mondo. Tra quei fieri baroni d'Occidente, che andavano al conquisto di Gerusalemme, ce n'erano parecchi, e dei più riputati, pei quali il sepolcro di Cristo era un pretesto e nient'altro. A costoro era entrato in mente che, facendo il loro tornaconto, facevano ad un tempo quel della fede. Però, giunti appena a Costantinopoli, facilmente si scordavano di Gerusalemme, pensando che la conquista dell'impero di Oriente sarebbe stata la cosa più agevole e più utile del mondo. E già aveano proposto il colpo a Goffredo di Buglione; ma quell'anima onesta non volle sentirne altro, e costrinse anzi tutti quei principi e baroni a rendere omaggio all'imperatore Alessio per tutte le terre che avrebbero conquistate.
Narra per l'appunto un cronista, che, mentre giuravano, uno di essi, conte di vecchia nobiltà, fu così ardito da andare a sedersi sul trono imperiale, e il povero Alessio non gli disse verbo, ben conoscendo l'oltracotanza dei Franchi. Il conte Baldovino, fratel di Goffredo, fece star su l'insolente, dicendogli che non era costume di sedersi in tal guisa a fianco degl'imperatori. L'altro obbedì, ma non si ristette dal guardare in cagnesco il monarca, dicendo nella sua lingua: «Voyez ce rustre, qui est assis, lorsque tant de braves capitaines sont debout!» L'imperatore si fe' voltare in greco quelle parole. Egli dice, spiegò l'interprete: vedete quel villano che sta seduto, mentre tanti prodi capitani son ritti in piè! Allora Alessio fece chiamare costui e gli chiese il suo nome. — «Son Francese, rispose questi, e dei più nobili. Nella mia terra egli c'è, sull'incontro di tre vie, una chiesa antica, dove ognuno che abbia voglia di combattere entra a pregare il Signore Iddio ed aspetta il suo avversario. Io ho avuto un bello aspettare; nessuno ha ardito venirci.»
Alessio Comneno non volle udire di più, e non si tenne sicuro fino a tanto non ebbe mandato in Asia l'ultimo di quei capitani Fracassa. Io torno al racconto.
A Mirrea non c'era presidio di Greci e le galere c'entrarono come in casa loro. Così mi sembra che s'abbia a dire, poichè non dissimilmente pensarono i nuovi arrivati che andasse la bisogna, non si peritando di portar via dalla chiesa di San Nicolao le venerate reliquie di San Giovanni Battista, colà custodite da quei bravi calogèri.
Taluno dei moderni miscredenti penserà che quei monaci spacciassero una frottola ai Genovesi; e battezzassero quelle ceneri col nome di Precursore, a bella posta per farsele prendere e liberarsi da quegli ospiti un tal poco prepotenti che dovevano essere i nostri antenati. Ma per siffatta gente ci sono i documenti che parlano. Nell'Archivio di Genova si conservano le lettere di Alessandro III e di Innocenzo IV, le quali rendono testimonianza certissima che quelle non fossero ceneri da bucato, ma le vere ed autentiche reliquie del Battista. Carta canta e villan dorme; così dice il proverbio.
L'armata giunse a Genova; ma la sua lunga dimora nel porto di Mirrea aveva fatto sì che la infausta notizia di cui era portatrice alla patria, fosse preceduta da più recenti e lieti messaggi del campo cristiano: come la paura di alcuni fuggiaschi avesse fatto correre la voce d'una sconfitta e come l'avesse poi malamente conformata la presenza di alcuni drappelli saracini innanzi al porto di San Simeone. L'arrivo delle galere non recò dunque nessun lutto in città, e quando per contro si riseppe che portavano le sante reliquie del Precursore, fu una gran festa da per tutto, e v'ebbe chi ringraziò la Provvidenza dell'errore, aggiungendo esser vero verissimo che tutto il male non vien per nuocere. E poco mancò che il vescovo Ciriaco non gridasse il Nicolao, collo zio Primo e con Gandolfo del Moro, salvatori della patria.
Il buon vecchio ebbe cionondimeno tanta gioia, che morì poco dopo, e gli successe Airaldo Guaraco, o Guarco, il quale resse la chiesa diciassette anni, et fue uomo di grande dottrina per li suoi tempi.
Quando le galere fecero ritorno in Soria, Antiochia era espugnata da mesi parecchi, e i Crociati erano già passati per la famosa valle di Giosafat, gridando: «Jerusalem!» alla vista della santa città.
Messer Guglielmo Embriaco, appena i messaggeri vennero a dirgli che due galere dell'armata genovese, la quale stava dalle parti d'Antiochia, erano giunte a Joppe ad aspettare i suoi comandi, lasciò Arrigo da Carmandino a capo delle schiere genovesi in sua vece, e corse al mare, seguito dal figlio Ugo e da una compagnia di balestrieri.
Il Carmandino, del quale ho taciuto finora per la necessità di tirare innanzi il racconto, s'aveva guadagnato molta rinomanza in mezzo ai Crociati d'ogni nazione, per le prodezze sue non meno che per la saviezza dei consigli. Durando l'assedio d'Antiochia, uno dei capi saracini, cavalier generoso e insofferente di indugi, era uscito dalla città sfidando a singolare combattimento quello dei cavalieri cristiani che si fosse sentito da tanto. La novità della cosa, più che la fama del guerriero, la quale era del resto grandissima, avean fatto rimanere un tratto incerti i baroni crociati, e di quell'istante fece suo pro' il Carmandino per andar contro all'araldo e raccogliere primo il guanto di Bahr-Ibn, chè così avea nome il Saracino.
La giostra si tenne il giorno di poi, su d'una spianata in riva all'Oronte, presenti i capi dell'esercito latino da una banda, e quei degl'infedeli dall'altra. Guglielmo Embriaco avea di sua mano indossata la maglia d'acciaio al diletto giovane e serratagli la gorgiera dell'elmetto sul collo.
L'assalto fu violento da ambe le parti; ma Arrigo da Carmandino stette fermo in arcioni. La sua lancia si era spezzata contro l'elmo dell'avversario, che ne ebbe come uno stordimento al capo, e fu appena a tempo di trarre la spada, quando Arrigo tornò a briglia sciolta sopra di lui. Il cozzo dei ferri durò lunga pezza, chè bene combattevano ambedue; finalmente il Saracino toccò un colpo sì fiero, che gli ruppe l'elmetto e aperse ancora una lunga ferita sul fronte. In quanto ad Arrigo, egli aveva l'armatura rotta in due o tre punti e spargeva anch'egli il suo sangue per due ferite, fortunatamente non gravi.
Il cavalier saracino si diede per vinto. La sorte delle armi lo avea fatto prigioniero del Cristiano; ma il Carmandino non volle saperne di riscatto, e come Bahr-Ibn fu risanato, egli lo rimandò libero in Antiochia, non chiedendo altro da lui se non che si astenesse dal combattere contro i Cristiani fino all'espugnazione della città, o altrimenti alla levata dell'assedio. Là qual cosa essendo giusta, secondo le costumanze guerresche d'allora, fu giurata dal Saracino, che si partì dal campo, commosso per tanta gentilezza d'animo, e quasi contento d'essere stato vinto alla prova dell'armi da un cavaliere siffatto.
Torniamo ora a Guglielmo Embriaco, che abbiamo lasciato sulla strada di Joppe. Giunto colà, ebbe a mala pena il tempo di salire a bordo della galera padrona, e di chiedere novelle ai suoi della amata figliuola, che i marinai in vedetta sui calcesi annunziarono la presenza di molte vele dalla parte del mezzogiorno.
L'Embriaco salì tosto sul castello di poppa per osservarle, e conobbe esser quelle di parte nemica. Le navi dei latini erano infatti a tramontana, nel porto di San Simeone, e quest'altre venivano da Ascalona, dove sapevasi raccolta l'armata del soldano d'Egitto. Messer Guglielmo, colla prontezza d'occhio del marinaio, non istette molto ad intendere com'egli s'avesse davanti tutte le forze navali del Soldano, e, prima di scendere dal castello di poppa, aveva già formato il suo disegno nell'animo.
Passarono tre quarti d'ora, in cui le navi degli egiziani non fecero che avvicinarsi a furia di remi, dacchè il vento spirava poco propizio alla loro venuta. I marinai genovesi stavano affacciati alle scale di fuori banda e lunghesso le impavesate, guardando con ansietà quei legni, il cui numero si accresceva man mano che si facean più vicini, e non levavano gli occhi da quella parte se non per guatare all'Embriaco, che stavasi ritto, colle braccia incrociate sul petto e le ciglia aggrottate.
Lo stato delle due galere non era per fermo il migliore del mondo. Erano esse ben armate e difese da uomini gagliardi, sotto il comando di un prode capitano; ma che cosa avrebbe potuto il valore contro quelle trenta navi saracene, le quali non aveano che a presentarsi in lizza per vincere?
Questi ed altri somiglianti erano i pensieri della marinaresca; ma egli bisognerà dire a sua gloria, che nessuno pensava alla resa. Già tutti si disponevano a combattere disperatamente e a farsi ammazzare sull'arrembata.
Messer Guglielmo non aveva ancora aperto bocca. Quando le navi nemiche non furono più che a tre tiri di balestra, egli fe' voltare la prora a tramontana e comandò la voga arrancata, accennando ai Saracini di voler prender il largo e fuggire.
Le galere, cedendo all'impulso dei remi, pigliarono l'abbrivo in alto mare. Allora il capitano dei Saracini si tenne sicuro di vincere, e comandò che le sue navi s'avanzassero in modo da formare un largo cerchio sul mare, dentro cui sarebbero côlti i fuggiaschi, come fiere in caccia.
Dal canto loro, gli uomini delle due galere non avevano capito nulla di quella mossa dell'Embriaco, la quale pareva ad essi il colmo della temerità. Gandolfo del Moro fu il primo a dirne il suo giudizio ad alta voce, affermando che di tal guisa e' sarebbero caduti prigioni in meno di un'ora.
Ma messer Guglielmo, niente turbato, si volse, e crollando le spalle, disse a Gandolfo queste due sole parole:
— Avete paura? —
Era questa la frase consueta dell'Embriaco in simili casi, e non s'era dato mai che ella non costringesse i contradittori al silenzio. Però Gandolfo non ardì rispondere altro, se non poche parole confuse, colle quali cercava di colorire alla meglio il senso della sua osservazione.
— Non temete! — soggiunse allora Guglielmo. — Non passerà mezz'ora che noi saremo tutti in salvo, e senza colpo ferire. Vedete come que' cani si dispongono a darci la caccia! Quel povero capitano ha creduto che io volessi sfuggirgli in alto mare e subito allarga le sue ali per metterci in mezzo, senza avvedersi che sparpaglia i suoi legni e non potrà più farsi udire quando ci avrà altri comandi a dare. Suvvia, figliuoli! nel nome di San Giorgio! Leva remi! Orza, al timone! Vira di bordo! La prua contro terra! Forza nei remi! Arranca! Benissimo, così; e adesso, buon dì ai Saracini! Che ve ne pare, Gandolfo? Saremo noi fatti prigioni in mezz'ora? —
Dalle parole del capitano i lettori hanno già indovinato il suo stratagemma qual fosse: divider le forze dell'armata nemica, e, quando ella si fosse impacciata in que' movimenti disgregati per dargli caccia, voltar la prora a terra e lasciare i Saracini scornati. Appena le ciurme trapelarono l'ardito disegno, levarono un grido di giubilo e si diedero con maggior lena a stringere la voga.
Ma questa non era che la prima parte del disegno di Guglielmo Embriaco. La seconda era dieci cotanti più malagevole. Importava di sfuggire ai Saracini, facendo getto delle galere e salvando tutto ciò che potea tornar utile al campo latino. In quelle due galere erano molti maestri d'operare, con gran copia di strumenti ed attrezzi, dei quali messer Guglielmo sapea per prova il difetto nei quotidiani lavori d'assedio.
— Fermi a' banchi, i rematori! — prese egli da capo a gridare. — Tutti gli altri si tengano saldi al sartiame e dove possono meglio! Ora, figliuoli, raccomandiamoci a San Giorgio il valente, e avanti contro la spiaggia! —
Un nuovo scoppio di evviva accolse questo comando di Guglielmo Embriaco. Le due galere volarono sui flutti, e le chiglie vennero in breve ora a rompere sulla ghiaia del lido, entro cui si affondarono fino a mezzo della loro lunghezza, tanto era stata la violenza dell'urto. Molti dei marinai, sebbene si tenessero parati a quel colpo, stramazzarono sulla tolda.
Ma, grazie a San Giorgio il valente, nessuno si acciaccò tanto da dover rimanere supino, e tutti, anche coloro che aveano le membra indolenzite, gridarono a squarciagola, esaltando lo stratagemma di messere Guglielmo.
Ben s'erano avveduti gli Egizii dell'inganno in cui li avea tratti il Cristiano; ma già gli era tardi per rimediarvi, e non tornava d'alcun pro mordersi le labbra. Il capitano, con tutti quei legni che potevano obbedirgli, mise la prua sulla terra e giù alla disperata, con gran forza di remi e di bestemmie. Senonchè, giunti a un trar di balestra dal lido, i Saracini videro fallita ogni loro speranza. I Genovesi, profittando di un'ora di tempo che era corsa tra lo arenamento e l'arrivo dei nemici, avevano fatto un salto a terra, tagliando il sartiame e portando seco tutte le vele, i ferramenti, i congegni, le macchine, e ogni altra cosa che mettesse conto trar via. Sulla spiaggia si vedevano ancora tutte le cose salvate, ma v'erano a custodia i bravi Genovesi, con molti degli abitanti di Joppe, i quali, scaldati dall'esempio, avrebbero voluto menar le mani ancor essi.
Il nemico si provò a pigliar terra; ma non sì tosto il primo sandalo, carico d'armati, fu per avvicinarsi alla riva, i balestrieri dell'Embriaco presero a sfolgorarlo con tiri così ben aggiustati, che freddarono molti Maomettani e persuasero il loro capitano a tornarsene dond'era venuto.
E così, per sottile accorgimento dell'Embriaco, furono salve le vite di tanti valentuomini e maestri d'operare in arnesi di guerra, con tutti i loro strumenti preziosi.
Il giorno appresso, giungevano al campo latino, accolti dalle grida d'esultanza di tutto l'esercito e dalle congratulazioni di Goffredo Buglione. Questi grandemente pregiava i Genovesi che costituivano nel suo campo ciò che oggi si chiamerebbe il genio e l'artiglieria, mentre tutte quelle schiere, venute di Francia e d'altri luoghi d'Europa, non erano che cavalieri e fantaccini.
Laonde, le cose della guerra, che pareano difficilissime prima, sembrarono un nulla dopo l'arrivo di que' nuovi artefici. Fu assegnato loro l'alloggiamento tra quella eletta di cavalieri e di balestrieri che erano rimasti sotto il comando di Arrigo da Carmandino e la gente guidata dal conte di Tolosa; intanto fu deliberato di metter subito mano alla costruzione di due grosse torri di legno, le quali sovrastassero, colle loro merlate, alle mura della città assediata.