Era nei pressi di Gerusalemme una selva, non molto fitta, per verità, la quale fu spogliata interamente dei suoi alberi, per quelle costruzioni che l'Embriaco disegnava di fare. Nessuno aveva pensato, prima di lui, a cavar profitto da quella boscaglia; di guisa che non si aveano, per le necessità dello assedio, che poche macchine, costrutte da artefici mal destri.
Questa volta gli artefici sono valenti per ogni maniera di congegni, e il capo, disegnatore ed operatore ad un tempo, è lo illustre messere Guglielmo. In quella che una parte dei suoi manovali preparano catapulte, baliste, arieti ed altri arnesi minori, il maggior numero suda intorno ad un'opera, non meno maravigliosa, e in pari tempo, più vera del famoso cavallo di Troia; vo' dire la torre murale, che servirà d'esemplare ad altre due di pari grandezza, tutta intessuta di pino e di abete e fasciata di cuoio, per ischermirsi dal bitume infiammato, con cui le genti assediate usavano allora respingere gli assalti.
Quella gran mole è il capolavoro di Guglielmo Embriaco. Ella si scommette e si ricompone, si tien ritta e si snoda, a talento dei difensori, tanto ne sono ben condotte e piene d'artifizio le mille giunture. Il piano più basso è aperto da due lati, per dar passaggio e libertà di moto ad una trave smisurata, col capo a foggia di montone, la quale ha l'ufficio di scuotere le mura dalle fondamenta; mentre la parte superiore della torre è congegnata in modo da potersi piegare a guisa di ponte sui merli, e dal corpo della macchina si spinge subito in su una nuova torre, che sopraggiudica quel ponte improvvisato, e vi scarica all'uopo i suoi combattenti. Un centinaio di saldissime ruote, cerchiate di ferro, sostengono quella macchina enorme e le danno facilità di movimenti, a malgrado del suo peso e del soprassello degli armati.
In breve spazio di tempo la torre è compiuta, e due altre, siccome ho già detto, di egual forma e capacità, le tengono dietro.
Tutto il campo traeva ogni giorno a contemplare questa meraviglia dei Genovesi. Dal canto loro, i Saracini, che dall'alto delle mura vedevano ogni mattina gran salmerie di legname essere portate dai camelli nel campo latino, si beccavano il cervello per indovinarne la cagione, e avendola finalmente risaputa, non riuscivano a capacitarsi del perchè s'innalzassero quelle moli, le quali (pensavano essi) non avrieno potuto esser tratte un palmo più lunge dal loro cantiere.
Ma gl'infedeli aveano fallato il conto. Nella giornata del 3 di luglio dell'anno 1099 dopo la fruttifera incarnazione fu un continuo trar di baliste e di briccole, che rovinarono le mura in luoghi parecchi; laonde la notte fu tutta spesa dagli assediati nel riparare i loro danni e afforzare i punti che l'esperienza avea chiarito più deboli.
L'aurora del giorno quarto spuntò, e grande fu il turbamento dei Pagani, quando s'avvidero che le torri non erano più al loro luogo consueto, ma stavano in quella vece sotto alle mura. Grida di stupore e di spavento salutarono la molesta vicinanza di quelle smisurate macchine, le quali erano collocate in guisa da offendere la città per tre lati, mentre lo spazio che correva tra ognuna di esse, era colmato degli altri arnesi minori, tutti pronti a battaglia.
Alle grida dei Saracini rispondono quelle dei Crociati, e l'assalto incomincia. E qui, sebbene non sia còmpito mio, non posso resistere ad una voglia spasimata che mi ha preso, di raccontarvi, se non tutti, almeno parecchi dei particolari di quella gloriosa giornata.
Si fa un gran parlare delle nostre moderne artiglierie, e non a torto, imperocchè le palle scagliate a forza di fuoco traggono più lontano e fanno più larga la breccia. Ma le artiglierie di messere Guglielmo non eran troppo da meno, in quanto allo spettacolo che esse davano di sè. L'aria era oscurata da nugoli di dardi e verrettoni che scagliavano i Saracini; ma il danno era poco; le schiere latine si tenevano ancora distanti, e gli uomini delle macchine si stavano bene al riparo. Per contro, questi ultimi fornivano più larga bisogna; gli arieti scrollavano le mura con impeto grandissimo, e la terra ad ogni colpo traballava sotto i piedi ai difensori di quelle. Dall'interno delle torri, che si levavano al paro della cresta delle mura, uscivano fischiando le frecce dei balestrieri e non cadevano in fallo. Dall'alto poi di quelle moli, ruinavano giù sui merli e ballatoi del nemico grosse palle di marmo e globi di pece infiammata, che sgominavano, rompevano, bruciavano ovunque cadessero.
Mentre questa gragnuola piombava sui Saracini, le mura per lunghi tratti s'erano sfaldate al cozzo degli arieti e all'urto dei sassi, scagliati da più che cento tra briccole e baliste. Allora parve acconcio al Buglione di far innoltrare il nerbo delle sue schiere, sotto il riparo dei gatti, che erano macchine intessute di legno e di vimini, fino ai piè delle mura. E il cenno fu eseguito; tra i rottami ammonticchiati, la grandine dei sassi, dei verrettoni e del bitume acceso, l'oste cristiana si lanciò alla scalata.
Il vento, levatosi impetuoso pur dianzi, le tornò di grande vantaggio, imperocchè gli assediati non poteano molto servirsi delle fiaccole che scagliavano sui nemici, e quelle dei Cristiani, così secondate dalla bufera, andavano facilmente sulle mura e ardevano i sacchi di strame, le stuoie e gli altri ripari, che i Saracini v'andavano sospendendo man mano, per ammorzare i colpi delle baliste.
L'incendio in breve ora si propagò; nè l'acqua valeva a frenarlo. Il fumo e l'ardore acciecavano, soffocavano gl'infedeli, lasciando una parte di muro senza alcuna difesa. Di ciò si giovarono gli assalitori per uguagliare il terreno, facendo piana la strada a quella torre, che era comandata dall'Embriaco in persona, e che fu tosto avvicinata cosiffattamente al parapetto, da poter tentare la gettata del ponte.
Cotesto disegnava di fare l'Embriaco; ma gli bisognò vincere da prima un ostacolo nuovo. Era piantata sulle mura una grossa antenna, a cui gli assediati avevano sospesa per traverso una trave ferrata, e con questa pigliavano a sfrombolare di replicati colpi la torre. L'Embriaco non si perdette d'animo. Fe' dar di mano alle falci murali, che stavano piantate ai fianchi della torre, e, studiato il momento che quel poderoso arnese tornava a picchiare il gran colpo, quattro falci alzate ad un tempo colsero al passaggio la gomena di sostegno, e il tronco inerte cadde con grande rimbombo sul parapetto, pestando nella caduta i suoi medesimi serventi, che già se ne ripromettevano il trionfo contro la macchina nemica.
Allora l'Embriaco potè mandare il suo disegno ad effetto. La cima della torre, snodata da un fianco, cadde dall'altro sulla opposta muraglia e i Pagani non poterono più farle impedimento.
— Messer lo duca, — disse allora l'Embriaco a Goffredo di Buglione, che era salito sulla torre per esser pronto a balzare nella santa città, — il ponte è fatto, e, sebbene io m'abbia un gran desiderio di corrervi su, debbo pur cedervi il passo. Non sarà mai detto che Guglielmo Embriaco abbia voluto andar primo, dov'era il più prode e nobil guerriero della Cristianità.
Il Buglione non rispose a quelle parole, ma un riso ineffabile si dipinse sul suo volto inspirato. Abbracciò e baciò sulla fronte l'Embriaco, rialzò la ventaglia dell'elmo, e s'innoltrò colla mazza in alto, lungo il cammino coperto. Frattanto, dall'ultimo ripiano della torre, che era stato mandato su, in luogo dell'altro arrovesciato sulle mura, gli arcadori genovesi con spessi colpi tenean lontani i nemici.
L'Embriaco, che per la sua grande modestia, non aveva voluto esser primo, si gettò sulle orme di Goffredo, e dietro a loro corsero spediti i più valenti cavalieri dell'esercito.
In quel mezzo, Arrigo da Carmandino, che stava colla sua gente a guardia della seconda torre, si struggeva di avere e rimanersi degli ultimi. E mentre Primo, il fratello dell'Embriaco, faceva con grande difficoltà innoltrare la sua gran mole di legno, egli, insofferente d'indugi, messe fuori una proposta, che trovò subitamente eco tra i più animosi. Anselmo Rascherio, Gontardo Brusco, Ingo Flaòno lo seguono, e con essi una ventina di cavalieri appiedati, facendosi sotto le mura con scale e rampini, e schermendosi dai colpi nemici colle targhe levate in alto e raccolte a mo' di testuggine. La muraglia, come si è detto, era sfaldata in più luoghi e rotta pel gran trarre di baliste e montoni. S'inerpicano per le macerie ammonticchiate, gettano i rampini alla merlata, appoggiano le scale, e su lestamente di piuolo in piuolo. Altri del campo li seguono a torme, infiammati dal nobile esempio, anelanti di afferrare la cima. Parecchie scale, già gremite di uomini, sono divelte dal muro; vanno ruzzoloni i soldati nella polvere e nel sangue; ma si rialzano, rimettono in piedi le scale, tornano più feroci all'assalto. Di questa guisa giungon parecchi sulla cresta del muro; Arrigo è il primo di tutti; le pietre, le lancie appuntate, i fendenti delle spade, fan mala prova su lui, che para quella tempesta di colpi collo scudo levato.
Afferrare i merli, balzare in piè sulla feritoia e impugnare la mazza ferrata, fu un punto solo per lui. I primi che si fecero a contendergli il terreno, stramazzarono sotto la furia di quell'arma, menata a cerchio dal braccio giovanile. Frattanto una diecina dei suoi avevano agio a salire, e quel tratto di spalto fu ben presto spazzato dai suoi difensori. Il Carmandino gittò allora la mazza, e, strappata la bandiera dalle mani dell'alfiere che lo aveva seguito, sguainò la sua lama poderosa, e corse, volò da quel lato, dove la torre di messere Guglielmo, piegatasi a foggia di ponte, vomitava soldati sul baluardo.
Colà appunto Goffredo di Buglione, Eustachio conte di Bologna, suo fratello, e l'Embriaco, pugnavano valorosamente contro uno stuolo di Saracini, che facevano ressa per rovesciarli dalla merlata. L'arrivo del Carmandino colla sua gente sul fianco degl'infedeli, mutò le sorti della pugna. I Saracini mietuti cadevano e il ponte coperto dava adito a sempre nuovi combattenti. La bandiera della croce sventolò finalmente vittoriosa sovra un monte di cadaveri.
Da un altro lato, il valoroso Tancredi, principe di Taranto, entrava nella città, facendo aspro governo dell'oste pagana. Alle ore tre dopo il meriggio, per le mura cadenti, per le porte sfondate, l'esercito cristiano irrompeva in città, gridando: «Dio lo vuole!» e Gerusalemme, dopo quattrocento novant'anni di servitù, era perduta pei Saracini.
Non è mio còmpito narrare per filo e per segno tutto ciò che avvenne di poi; nè la espugnazione della torre di David, nella quale s'erano chiusi i Saracini, aspettando soccorsi del soldano d'Egitto, o di Babilonia, siccome dicevasi allora, dando il nome di Babilonia alla città del Cairo; nè la battaglia combattuta sul piano di Ramnula, che fiaccò le corna e l'orgoglio al sopraggiunto aiutatore, assicurando così la conquista di Sion. Per tutti questi negozi rimando i lettori agli ultimi canti del poema di Torquato, del sommo e sommamente infelice Torquato, i quali valgono da soli tutta la prosa che io potrei buttar giù, vivendo cent'anni. Ora Iddio tolga che l'una cosa e l'altra mi avvenga; molesta la prima ad ogni ragion di scaffali; l'altra molestissima a me.
Questo solo dirò, che i crociati genovesi, com'erano stati gagliardi all'assedio, così furono alla giornata di Ramnula, e messer Guglielmo s'ebbe la miglior parte dei tesori del Soldano, oro, argento, gemme e tessuti d'altissimo pregio; laonde, come fu l'ora di tornarsene in patria, gli bisognò comperare una galèa per allogarvi il bottino. Le sue navi, s'è detto, eran andate a rompere sulla spiaggia di Joppe, in quella giornata che campò i Genovesi dall'urto di tutta quanta l'armata del Soldano d'Egitto.
— Il Babilonese me l'ha pagate a misura di carbone, le mie povere galere! — disse messer Guglielmo, ridendo, in quella che col fratello, con Arrigo e coi superstiti concittadini, s'imbarcava nel porto di San Simeone, memore di tante lor gesta.
Imperocchè, nè egli, nè altri dei Genovesi, avea voluto rimanere in Soria. A Goffredo di Buglione, fatto re di Gerusalemme, il quale gli profferiva la signoria d'una provincia, per farlo pari a tanti altri baroni che meglio s'erano adoperati alla liberazione della santa città, l'Embriaco aveva risposto, scusandosi: — Noi siamo marinari; i feudi nostri sono sul mare, ed hanno bisogno di specchiarvisi, come le torri di Genova nostra.
— Orbene, — aveva soggiunto Goffredo, — qui la bisogna non è finita; tornate, messere Guglielmo; tornate con maggior numero dei vostri, che so per prova quanto valgano, non pure come arcadori, mastri d'operare ed espugnatori di ròcche, ma eziandio come cavalieri di lancia e spada — (e queste parole rivolte in parte ad Arrigo di Carmandino, rallegrarono il paterno cuore dell'Embriaco); — tornate presto e a voi commetteremo di restituire alla Croce quanto è di spiaggia da Biblo ad Ascalona.
— E lo farò, — rispose Guglielmo; — coll'aiuto di Dio e del valoroso barone San Giorgio, lo farò. Nulla è ormai che ci abbia a tornar malagevole, sotto gli auspici vostri.
— Tornate dunque sollecito, — disse sorridendo il Buglione d'un suo malinconico riso, — imperocchè io sento tal cosa qua dentro, — (ed accennava il petto) — che non mi concederà di attendere a lungo. Non vi turbate, messere Guglielmo; quel che ho vissuto mi basterà per mandarmi contento. Chi più avventurato di me, se, la mercè vostra e di tanti prodi cavalieri, ho potuto liberare il sepolcro di Cristo dalla ignominia del culto di Macone? Ben potrei ora, alla guisa di Simeone, intuonare il Nunc dimittis servum tuum, e senza esser notato di immodestia. —
Indi a due giorni le schiere genovesi, assottigliate di molto, ma liete, superbe, inebbriate dalla vittoria, scioglievano le vele dalla spiaggia di Palestina.