La saracinesca era calata con alto fragore alle spalle degli animosi, e Arrigo da Carmandino, che li precedeva, colla spada nelle reni ai fuggenti nemici, non se ne era avveduto. Bene lo avvisarono i più tardi tra i suoi compagni, che all'improvviso rumore si erano voltati indietro. Ma era tardi oramai per rifarsi alla porta e costringere i guardiani a rialzare l'ostacolo. Un'altra schiera di Saracini giungeva alla riscossa, arrestava i compagni, rianimava la difesa, metteva in grave pericolo quel pugno d'audaci, che dovevano pentirsi, ma tardi, della loro temerità, con un nugolo di avversarii che li incalzavano di fronte e coi guardiani della porta che rumoreggiavano alle spalle.
— Ammazza! ammazza! — era il grido dei Saracini.
La strada angusta tornava propizia alla resistenza dei crociati. Ma quanto avrebbe potuto essa durare? Era da supporsi che l'esercito genovese, dato di cozzo nella seconda cinta, superasse l'ostacolo nuovo prima che i suoi compagni perduti là dentro fossero tagliati a pezzi? Arrigo da Carmandino aveva dato un'occhiata intorno a sè e non si pasceva di vane speranze. Cinque cavalieri genovesi lo avevano seguìto. Quanto tempo avrebber resistito sei uomini, anche valorosi come sei paladini di Carlomagno?
— Amici, — disse Arrigo ai compagni, approfittando di un momento di confusione che in quella stretta rendeva impossibile ai nemici un utile assalto. Che si fa? Pensate voi di arrendervi?
— No, piuttosto morire, mille volte morire!
— Bene, preghiamo dunque il Signore che riceva le anime nostre. —
E brandendo la spada sul capo, con alta voce gridò:
— Difensori di Cesarea, seguaci del Profeta, noi Arrigo da Carmandino, Simone Gontardo, Marino della Porta, Tanclerio Burone, Vassallo Cavaronco, Anselmo di Zoagli, cavalieri genovesi, sfidiamo tutti voi a combattere, uomo contro uomo, fino a tanto ci basti la vita. Del resto, meglio sarebbe per voi lo arrendervi alle insegne della Croce. Infatti, a che vi gioverebbe la resistenza? Tutto l'esercito genovese è nelle mura di Cesarea, e tra poco anche la seconda cinta sarà superata e voi non otterreste misericordia.
— Arrenditi tu per il primo, cane cristiano, — urlò uno dei Saracini, facendosi incontro ad Arrigo colla scimitarra levata. — Hai buona la lingua; vediamo se hai buono il braccio ugualmente.
— Ti sia permesso di vederlo, ma non di ricordartene; — tuonò Arrigo da Carmandino.
E serratosi addosso al nemico, prima che questi avesse tempo a cansarsi, con un fendente della sua spada poderosa gli spezzò l'elmo sul cranio.
Fu quello il segnale della mischia.
— San Giorgio il valente! — gridarono ad una voce i Crociati genovesi. — Viva San Giorgio! Ammazza i cani infedeli! —
E levata la spada, si fecero avanti animosi, a vender cara la vita.
Arrigo da Carmandino era il primo tra tutti, e primo si slanciò nel folto della fronte nemica. Rotta la spada, combattè col tronco, ed anche questo, che più non gli serviva, scaraventò sulla faccia del primo che ardì farglisi contro, oltre quel mucchio di morti e di feriti onde il valoroso giovane si era come asserragliata la via. Quindi, spiccò dal fianco la sua mazza ferrata, e, piantatosi fieramente su quel cumulo di carne sanguinosa e palpitante, prese a tempestare di colpi i suoi assalitori. Quanti, adescati dal poco numero dei nemici o spinti innanzi dai compagni accorrenti, si facevano sotto, tanti egli ne stendeva a terra, o ne rimandava acciaccati. Più disperato valore non si era visto mai. E i compagni di Arrigo, Simone Gontardo, Marino della Volta, Anselmo di Zoagli, animati dall'esempio, combattevano con pari fortuna al suo fianco.
Tanclerio Burone e Vassallo Cavaronco, facendo testa dall'altra parte, impedivano che i guardiani della porta, meno numerosi e non ancora ben raffidati, cogliessero quel pugno di valenti alle spalle. E anch'essi, sebbene in due soli, fornivano lavoro per dieci.
Da lunga pezza durava quella pugna disuguale, senza che i Saracini avessero guadagnato un palmo di terreno. E già i loro assalti riuscivano più lenti, poco piacendo a quella plebe di fantaccini di morder la polvere sotto i colpi di quei furibondi, che prendevano forza sovrumana dalla loro medesima disperazione. Ma appunto allora, un nuovo aiuto venne ai Saracini, che in quella stretta via non potevano trar d'arco; e fu la rena ardente, fu il bitume infiammato, che incominciò a piovere dall'alto delle logge circostanti sul capo ai cavalieri cristiani. Contro quel nuovo assalto non c'era difese nè scampo. Pararono alla meglio co' palvesi quella pioggia di fuoco; ma anche i palvesi ardevano, e i combattenti furono costretti a gittarli, restando scoperti sotto il rovente flagello; involti in un turbine di fiamma e di fumo, che li acciecava e toglieva loro il respiro.
Anselmo di Zoagli e Marino della Volta caddero i primi; Simone Gontardo e Vassallo Cavaronco, già investiti dalla liquida fiamma, si avventarono ai nemici, si strinsero a corpo a corpo con loro e parecchi ne costrinsero a morire della loro medesima morte.
Arrigo da Carmandino volse gli occhi intorno e vide che non c'era più nulla a sperare. Anche l'ultimo superstite de' suoi compagni, Tanclerio Burone, mugghiando come un toro ferito, si scagliava ferocemente nelle file nemiche, non d'altro desideroso che di uccidere ancora un Saracino, prima di cadere a sua volta, crivellato di ferite com'era.
Il giovine Arrigo sanguinava anch'egli da molte piaghe per la rotta armatura, ma ancora non si era avveduto di nulla. L'ardore della pugna gli avea tolto di sentire lo spasimo. Bene sentì in quella vece che l'ultima sua ora suonava. Diede un pensiero a Diana, raccomandò la sua anima a Dio, e strappatosi l'elmo dalla fronte, a capo nudo, colla spada levata in aria, si calò dal sanguinoso carnaio, si gettò per morto in mezzo agli urlanti nemici.
L'atto strano colpì di stupore i Saracini. Era egli un eroe, od un pazzo? Comunque fosse, non avevano agio a sincerarsene, e sdegnati di vedere un infedele che affrontava così baldanzosamente la morte, vollero punirlo di una temerità che pareva dispregio, e gli si strinsero addosso, non udendo la voce di uno tra loro, che doveva esser il comandante della Schiera, o alcun che di simigliante.
— Non lo uccidete! — gridava egli accorrendo e tentando di farsi strada in mezzo a loro. — Non lo uccidete! —
Arrigo da Carmandino era già caduto bocconi, per una larga ferita alla fronte.
— Lo Sciarif! Largo allo Sciarif! — gridavano intanto i Saracini delle file più lontane dal luogo del combattimento. — Largo al nipote del Profeta! —
Quelle grida ripetute di fila in fila giunsero finalmente all'orecchio dei forsennati. Arrigo era caduto boccheggiante nel suo sangue e non era più il caso d'infellonire contro un morente. Le file si apersero quantunque a stento, e colui che avevano chiamato col nome di Sciarif (nome che equivaleva a quello di nobile e si dava allora ai discendenti della famiglia di Maometto), spinse il cavallo fino ai piedi del giovine crociato genovese.
— Non avete udita la mia voce? — diss'egli corrucciato. — Quest'uomo è sacro. Allà lo protegge.
— Un infedele! — esclamarono i soldati.
— Dice il libro: o credenti, meditate le opere vostre; non dite mai del primo che incontrate: costui è un infedele. Dio possiede infiniti tesori di misericordia; Dio solo conosce i cuori. —
I soldati s'inchinarono alla parola del Profeta, e, obbedendo al cenno dello Sciarif, sollevarono da terra il ferito, con tanta cura e sollecitudine quanta furia avevano messo ad abbatterlo.
Lo Sciarif era un bel giovanotto, dal viso pallido e scarno, colla barba intiera e rada, gli occhi infossati e lucenti, tutto vestito di maglia d'acciaio, su cui era gittato un mantello di lana bianca alla guisa moresca. Una fascia di zendado verde, ravvolta in giro all'elmo acuminato dei cavalieri arabi, diceva chiaramente che egli apparteneva per l'appunto alla discendenza del Profeta e dava la ragione dell'ossequio con cui lo ascoltavano i suoi correligionarii.
Lo stesso Emiro El Heddim, che era, siccome ho già detto, il comandante militare di Cesarea, non gli parlava che a capo chino.
S'incontrarono i due capi all'entrata del castello. L'Emiro aveva in volto le tracce di un alto spavento.
— Siamo perduti! — diss'egli a bassa voce. — Il nemico è penetrato nella seconda cinta. Io venivo in cerca di te, mio signore, per dirti che è tempo....
— Taci! — interruppe lo Sciarif. — Se questo sarà il volere di Dio, andremo, senza mestieri di fuggire come cerbiatti davanti al leone. Non vedi? Porto un ferito con me.
— Un cristiano!
— Un ospite è sempre una benedizione del cielo. —
E senza aspettar la risposta, entrò nell'androne della porta, dove i soldati avevano deposto Arrigo. Il giovane era svenuto, e a tutta prima lo si credette morto. Ma Zeid Ebn Assan, un vecchio arabo, che sapeva di medicina, dopo avergli spruzzato il viso di acqua fresca e fasciata colla sua cintura la fronte, assicurò che il cristiano viveva, e avrebbe, col permesso di Allà, potuto anche reggere ad un nuovo trasporto.
— Hai fatto esplorare il passaggio? — chiese lo Sciarif all'Emiro.
— Si, mio signore; e la cavalcata aspetta negli oliveti di Malca.
— Andiamo dunque, e sia fatta la volontà del Signore; — disse il giovine capo. — Voi portate con ogni maggior cura il ferito; lo metteremo poi sul dorso d'un cammello.
— Onore dei figli di Fatima, — rispose l'Emiro, — il tuo desiderio sarà soddisfatto. Purchè tutto ciò non faccia ritardare di troppo la marcia!
— Meglio così; — disse il giovine. — Non avremo l'aria di fuggire al cospetto degli infedeli. Del resto, vedrai che non tenteranno d'inseguirci. Importa troppo a loro di non discostarsi dalla spiaggia, dove hanno le navi. Zeid Ebn Assan, hai tu finito?
— Sì, mio signore. Dio è grande e misericordioso. —
I soldati allora sollevarono di bel nuovo il ferito, che mandò un lieve sospiro. E preceduti dal vecchio medico, che aveva acceso una torcia di legno resinoso, entrarono in una stanza buia, che metteva ad una via sotterranea verso levante. Lo Sciarif e l'Emiro rimasero gli ultimi, per chiuder l'ingresso. La stanza buia doveva custodire il segreto della sua uscita ai Cristiani, che inerpicatisi sulle mura per l'albero di palma scoperto dall'Embriaco, penetravano intanto nella seconda cinta e andavano a furia verso la moschea maggiore, intorno a cui si erano raccolte le ultime difese di Cesarea.
Entrato cogli altri compagni d'armi nel cuor della città, Gandolfo del Moro si diè pensiero come tutti gli altri della sorte di Arrigo. E saputo che vivo non lo si trovava in nessun luogo, si diede egli stesso a cercarne il cadavere, con una sollecitudine, con una diligenza, che l'amico più intrinseco non ce ne avrebbe spesa altrettanta. Il destino gli avea fatto servizio, di certo; ma quel bravo Gandolfo lo avrebbe desiderato intiero. Gli sarebbe piaciuto, verbigrazia, di metter la mano sugli avanzi del prode concittadino, per render loro gli onori dovuti, e magari per riportarli a Genova in una custodia di vetro, come stinchi di santo.
E il corpo d'Arrigo non pareva mica disposto a profittare di quelle pietose intenzioni. Infatti, non c'era verso di trovarlo. Si era risaputo bensì dove i primi sfortunati assalitori avessero fatto testa al nemico; quel carname, consumato a mezzo dal fuoco, diceva chiaramente che là erano rimasti. Ma tutti? E se non tutti, quali i caduti? Nessun lume di ciò appariva alla mente curiosa di Gandolfo del Moro.
Notate che egli era solo a metterci tanta e così minuta attenzione. Gli altri tutti, non escluso il Testa di maglio, pensarono che Arrigo fosse rimasto tra i morti e che il suo cadavere dovesse aver corso la sorte di quelli de' suoi compagni. Ma Gandolfo del Moro andava più lungi e più addentro colle sue indagini; studiava i particolari, notava gl'indizi più lievi e più disparati. Per esempio, aveva saputo che anche l'Emiro, il comandante della difesa di Cesarea, non si trovava più neppur egli, nè vivo nè morto. Che fosse fuggito? Era questo il sospetto del Cadì, che non sapeva perdonare all'Emiro el Heddim la sua matta ostinazione. E se questi era fuggito, non poteva essere fuggito anche Arrigo?
Ma come? ma perchè? Qui si smarriva l'ingegno sottile di Gandolfo del Moro, che tornò a Genova colla voglia, in una continua incertezza, tra speranza e timore.
Intanto che Gandolfo del Moro e gli altri cavalieri di Genova andavano in traccia di Arrigo, costoro sperando e quegli temendo di trovarlo vivo, ma nè gli uni nè l'altro rinvenendone il cadavere, per la ragione semplicissima che ormai il lettore conosce, la comitiva dei fuggiaschi Saracini aveva traversato il passaggio sotterraneo.
Metteva questo alle rovine di un tempio antico, negli oliveti di Malca, a levante di Cesarea, o Caisarieh, come era chiamata dagli Arabi. Già sacro a Venere Astarte, il tempio greco romano era abbandonato dalla sua divinità mezzo fenicia; le colonne erano crollate sulle lastre del pavimento e tutto era un ammasso di macerie, non rimanendo di intatto che un pozzo, donde più non si attingevano le acque lustrali, ma dove i pastori arabi andavano ad abbeverare gli armenti.
Colà fu deposto Arrigo, ancor fuori dei sensi, e mentre lo Sciarif co' suoi cavalieri, trovati in vedetta laggiù, esplorava i dintorni per custodire la sua gente da un incontro col nemico (incontro del resto assai poco probabile, perchè i Crociati dovevano avere ben altra bisogna alle mani), il vecchio Zeid Ebn Assan, spogliato con ogni cura il giovine crociato, visitò le ferite e le spalmò de' suoi unguenti meravigliosi. La più grave era quella toccata da Arrigo alla fronte; ma il cranio appariva solamente scheggiato. Il che del resto non era poco, dovendosi sempre temere di una commozione troppo forte al cervello e di tutte le conseguenze d'una mezza frattura, in una parte così nobile del corpo; conseguenze più gravi a gran pezza allora, che la scienza chirurgica era tuttavia bambina, e l'arte empirica affatto, come vi sarà facile di argomentare.
Il vecchio Esculapio saracino, lavata diligentemente la ferita e stesovi sopra il suo balsamo, rinnovò la fasciatura, ma con più garbo che non avesse potuto fare la prima volta, nel castello di Cesarea.
— Speri? — gli chiese ansioso lo Sciarif, che tornava in quel mentre dalla sua esplorazione.
— Dio è grande; — rispose il vecchio.
— Sì; ma tu che cosa ne pensi? — incalzò il giovine capo, che non poteva contentarsi di quella mezza risposta.
— Penso, — ripigliò allora Zeid Ebn Assan, — che Asrael ha posto gli occhi su lui, ma che i Moakkibat non si sono ancora allontanati. —
Asrael era l'angelo della morte presso i seguaci di Maometto. I quali credevano ancora che ogni uomo fosse accompagnato da due angeli custodi, che notavano le opere sue, dandosi la muta ogni giorno; donde il loro nome di al Moakkibat, cioè di angeli che si succedono.
— Spero, infine; — aggiunse il vecchio, vedendo che nemmeno l'accenno agli angioli spianava le sopracciglia dello Sciarif. — Se almeno potessimo fare una lunga sosta in qualche luogo!...
— Riposeremo a Thaanach, — disse il giovine capo, — alle falde del Carmelo. —
Poco stante, la cavalcata si pose in viaggio. Lo Sciarif volse un ultimo sguardo alle mura di Cesarea, donde gli veniva all'orecchio un suono confuso. Erano gli estremi aneliti della resistenza, misti alle grida dei vincitori. Il giovine capo diede un fremito di rabbia, che contrastava in modo singolare colla sua affettuosa sollecitudine pel ferito, e spinse il cavallo al galoppo lungo le rive del Nahr el Acdar, il cui letto inaridito rimontava dalla foce a mezzogiorno di Cesarea fino alle, alture di Hadad Rimmon, ultimi contrafforti del Carmelo, che la cavalcata doveva costeggiare, per giungere a Thaanach, nella pianura di Jesreel.
Il sole volgeva al tramonto e l'aria incominciava ad essere più respirabile. Le ore notturne furono intieramente spese nella marcia. La mite andatura del dromedario e i freschi aliti della notte rendevano meno disagevole il tragitto al povero Arrigo, sospeso tuttavia tra la vita e la morte. Ad ogni fermata, lo Sciarif si accostava al dromedario su cui era accomodato il ferito, in una basterna improvvisata coi mantelli della carovana, e interrogava il vecchio Zeid, che mutava e rimutava in tutte le forme la sua prima risposta «Dio è grande,» aggiungendo ora il clemente, ora il misericordioso, e, a farla breve, la lunga fila di epiteti che il sentimento profondo della divinità ha inspirato agli adoratori del Corano.
Spuntava il mattino e la cavalcata, già superato il valico dei monti, giungeva in vista di Thaanach, rosseggiante tra le palme, ai primi raggi del sole, che appariva in quel punto dalle lontane alture di Gelboà, memorande per la rotta e la morte di Saul, e dietro alle quali si stende la fertile pianura di Zarthan, irrigata dalle bionde acque del Giordano, al suo uscire dal lago di Genezareth.
Lo Sciarif e tutti i compagni suoi smontarono da cavallo, e genuflessi, colla faccia rivolta a mezzogiorno, nella direzione della Mecca, recitarono la loro preghiera mattutina. Dopo di che, si rimisero in marcia per alla volta di Thaanach. Laggiù non essendoci il pericolo di veder giungere Cristiani, lo Sciarif disegnava di lasciare il ferito, affidato alle cure di Zeid e di parecchi tra i suoi più fedeli servitori. Egli intanto, traversata la pianura di Jesreel, sarebbe andato, per la via di Betlem in Galilea, fino alle mura di Acco, l'antico Tolemaide, portatore a quell'Emiro delle tristi novelle di Cesarea.
Era un'altra città, un altro lembo della costa, che cadeva in mano ai guerrieri d'Occidente. Gli Emiri di Soria, padroni delle città marittime in quella confusione che avevano portato le guerre tra i Turchi e gli Arabi, andavano perdendo alla spicciolata i loro piccoli regni.
La comunanza di religione aveva fatto muovere nel 1097 Kerboga, principe di Mosul, con ventotto emiri dell'interno dell'Asia, in soccorso d'Antiochia. Ma lui sconfitto, come già il turco Solimano a Nicea, non restava altra speranza all'Islamismo in Palestina fuorchè l'aiuto del Soldano d'Egitto, o di Babilonia, come dicevasi allora, dando erroneamente questo nome alla città del Cairo.
Per altro, se il califfo fatimita d'Egitto era potente, Gerusalemme, la vera meta del pellegrinaggio armato dei Cristiani, era allora in potere dei Turchi. Sfortunatamente per questi, il retaggio di Malek Scià era disputato da quattro de' suoi figli. E la discordia loro e la debolezza che ne derivava al popolo turco, persuasero al califfo d'Egitto di tentare il ricupero dei possedimenti perduti in Sorìa. Era sul trono il fatimita Abu Cacem Ahmed el Mostala Billah, succeduto nel 1094, lui secondogenito, coll'aiuto del suo visir El Afdhal, al padre Abu Temin Maad el Mostanser Billah. Crudele al segno di far morire per fame il fratello maggiore, Mostala Billah, o Mostalì, come fu chiamato più brevemente, uomo privo d'ingegno e di carattere, lasciò ogni cura di governo ad Afdhal. E fu questi che nel 1098 moveva al conquisto di Tiro e di Gerusalemme, impadronendosi della città santa un anno prima di Goffredo Buglione.
I Fatimiti avevano appena restaurata in Palestina la loro autorità civile e religiosa, quando udirono dei numerosi eserciti cristiani passati d'Europa in Asia. Si allegrarono a tutta prima di assedii e combattimenti che distruggevano la possanza dei Turchi, loro giurati nemici. Ma quei Cristiani medesimi non erano meno avversi al Profeta, e, dopo espugnata Nicea ed Antiochia, dovevano condurre le loro imprese sul Giordano, e chi sa? fors'anco sul Nilo. Il califfo Mostalì, o per lui il suo audace visir, entrò allora in carteggio coi Latini, procurando di averne le grazie, presentandoli di cavalli, di vesti di seta, di vasellami, di borse d'oro e d'argento. Ma fermi stettero i Crociati sul rispondere che, lungi dallo esaminare i diritti di questo o di quello tra i settarii di Maometto, essi avevano ugualmente per nemico l'usurpatore di Gerusalemme, Turco od Arabo, Selgiucide o Fatimita, Ommiade od Abasside, che si fosse. Quindi lo consigliavano di consegnare senz'altri indugi la città santa e la provincia tutta alle armi latine, aggiungendo, non aver egli altra via per serbarsele amiche e sottrarsi alla rovina ond'era minacciato.
Come i Crociati espugnassero Gerusalemme, non voluta restituire da Istikar, il luogotenente del Califfo, l'ho già raccontato ai lettori. Ho accennato altresì come, pochi giorni di poi, Afdhal, non giunto in tempo, per impedire la caduta di Gerusalemme, ma affrettatosi coll'ansietà di trarne vendetta, toccasse una rotta solenne nel piano di Ramnula. Da quel giorno in poi la difesa delle città marittime di Sorìa fu abbandonata agli Emiri, senz'altra speranza di validi aiuti contro il nuovo regno dei Franchi, adeguato in estensione, se non per avventura in numero d'abitanti, agli antichi regni d'Israele e di Giuda.
Restava di poter fare assegnamento su aiuti volontari e parziali. C'era uno dei Fatimiti d'Egitto, che veramente poteva dirsi l'anima di tutte le difese saracine in Sorìa, da Antiochia a Gerusalemme, da Gerusalemme a Cesarea. E costui, giovine valoroso, ma capitano di piccola schiera, non amato dal fratello maggiore Mostalì, che volentieri gli avrebbe inflitto la morte di Nezer, il primogenito dei tre, invidiato dal visir Afdhal, cui premeva di essere solo al comando, nell'uscire dalle vinte mura di Cesarea, non volgeva già i suoi passi all'Egitto, sibbene ad Acco, dove temeva che sarebbero andati a nuova impresa i Crociati di Genova, che egli sapeva per prova i più pericolosi di tutti.
Invero, l'esercito latino si era grandemente scemato di forze e poteva prevedersi il giorno che non bastasse più a mantenere la sua larga conquista. Dei diecimila cavalieri che Goffredo Buglione aveva condotto dall'Occidente, soli mille cinquecento erano giunti sotto le mura di Gerusalemme, e seicento, a mala pena seicento, ne rimanevano in piedi per difendere il nuovo regno di Sion. Undicimila fanti rimanevano col successore di Goffredo, dei diciottomila che questi aveva guidato in Sorìa. Ma se i Latini erano deboli in terra, Genova, colle sue audacie navali, poteva renderli ancora possenti sul mare.
Perciò, temendo dei Genovesi, poco sperando dal fratello e dal suo ambizioso visir, e di nient'altro desideroso che di dare un indirizzo a tutte quelle disgraziate difese degli Emiri di Sorìa, il giovine Sciarif muoveva con pochi cavalieri alla volta di Acco, dopo aver lasciato Arrigo in Thaanach, raccomandato alle cure del vecchio Zeid.
— Bada, — gli disse, accomiatandosi, — la tua vita mi sta mallevadrice della sua.
— Farò il poter mio, non dubitare. Ma se il ferito soccombesse per volere di Allà? — notò il vecchio servitore con voce tremebonda.
— Sarebbe un indizio certo per me che Allà vuole anche la tua testa; — rispose lo Sciarif, aggrottando le ciglia.
Zeid Ebn Assan s'inchinò fino a terra.
— Dio è grande! — diss'egli poscia, abbandonandosi al fatalismo orientale.
Per altro, come lo Sciarif si fu allontanato, il vecchio Zeid non istette ad aspettare i miracoli dal cielo e si adoperò con ogni possa ad assicurare la vita pericolante di Arrigo. La febbre e l'infiammazione furono lungamente ribelli alle sue cure, ma l'arte da un lato e la natura dall'altro gli fecero ottenere l'intento. Zeid giuocava la sua testa, e lavorò colla vigilanza di un uomo che non voleva perderla, tanto nel proprio quanto nel figurato.
Cionondimeno, se la malattia fu lunga, la convalescenza non lo fu meno, e il vecchio Esculapio saracino pensò che il genovese affidato alle sue cure, ricuperando la salute del corpo, non fosse per riavere altrimenti la sanità dello spirito. Per tutto quell'autunno e per l'inverno che seguì, Arrigo da Carmandino visse come un uomo sbalordito, e non aveva più memoria o discernimento di quello che potesse averne un fanciullo. Obbediva macchinalmente ai consigli del medico; stava ad udirlo, ma con aria melensa, come se non cogliesse il senso di ciò che quegli diceva; lo guardava fiso, ma senza intendere chi fosse colui, e come e perchè egli stesso si trovasse nelle sue mani.
Un giorno, il vecchio Zeid, che si era rassegnato ad avere in custodia un povero mentecatto, pure di veder conservata sulle spalle la testa, accompagnava il Carmandino sulla piazza di Thaanach. E già lo aveva fatto sedere al sole, presso una macchia di lentischi, allorquando un fitto polverìo che si levava da tramontana in fondo alla pianura annunziò una cavalcata che si appressava rapidamente. Era lo Sciarif che ritornava da Acco. Il vecchio servitore aveva avuto più volte sue nuove, perchè ad ogni quindici giorni giungeva un suo messaggiero a Thaanach, per domandare della salute di Arrigo e vedere se egli fosse ancora in caso di muoversi dalla sua solitudine.
Quella volta lo Sciarif capitava in persona, non aspettato da Zeid, che lo sapeva tutto intento nelle cose di guerra.
Arrigo da Carmandino stava seduto, come ho detto, all'aperto, bevendo istintivamente i raggi di quel benefico sole. L'ampia ferita, rimarginata da qualche tempo, rosseggiava sulla sua fronte, contrastando vivamente col pallore onde era tuttavia cosparso il suo volto.
Il giovine diede uno sguardo distratto a quello stuolo di cavalieri, senza che il cuore gli battesse più forte, come avviene al guerriero quando vede cosa o persona che gli rammenti la prediletta sua vita. La luce della coscienza stentava a ritornare in quella mente offuscata.
Lo ravvisò da lunge il capo della schiera, e spronato il suo cavallo verso di lui, fu a terra d'un balzo.
— Arrigo da Carmandino, — gli disse, muovendogli incontro col sorriso sul volto, — non mi conoscete voi più? —
Quella voce e quell'aspetto risvegliavano un ricordo lontano e confuso nella mente di Arrigo, che si alzò da sedere, interrogando degli occhi il nuovo venuto, mentre il suo spirito cercava di raccapezzarsi, ma senza pro.
— BahrIbn, — ripigliava intanto quell'altro, venendo in aiuto alla sua memoria affievolita. — Bahr Ibn, il Saracino di Antiochia; non lo rammenti già più, valoroso cristiano?
— Ah! — gridò Arrigo, — Antiochia! I Saracini! Bahr Ibn, il mio nemico?....
— Che ti è debitore della sua vita; — aggiunse lo Sciarif. — Come son lieto, o soldato di Cristo, di aver potuto salvare la tua! Siamo pari, adesso. Vedi, rosseggia ancora la mia fronte pel colpo della tua lama gagliarda, come la tua fronte pel colpo toccato nella presa di Cesarea, e che io, pur troppo, non giunsi in tempo a sviare dal tuo capo. —
Così dicendo, Bahr Ibn si toglieva l'elmetto acuminato, mostrando la sua cicatrice ad Arrigo.
— Cesarea! — ripetè il Carmandino, a cui tornava finalmente la memoria del tempo trascorso. — Siamo noi padroni di Cesarea?
— Sì, col volere di Allà; — rispose Bahr Ibn, chinando mestamente il capo. — I tuoi compagni superarono la seconda cinta poco dopo la tua caduta. Io e l'Emiro El Heddim ci siamo ritirati per un passaggio sotterraneo, portando te svenuto nelle nostre braccia.
— Ma come.... tu.... — balbettò Arrigo, che non intendeva in qual modo fosse stato campato da morte.
— Io ti ho ravvisato quando gettavi l'elmetto, per scagliarti sulle nostre file e cercarvi la morte dei valorosi. —
Alla evocazione di quei ricordi che tanti altri ne richiamavano al suo pensiero, Arrigo diede in uno scoppio di pianto.
— Asraele aveva già stese le sue ali su te, e la tua anima avrebbe dormito il gran sonno fino a che non la risvegliasse la tromba d'Israfil. Ma ecco, — soggiunse, additando il vecchio Zeid Ebn Assan, — l'uomo savio e dotto di farmachi che Allà aveva posto al mio fianco. Egli ha lavato le tue ferite e le ha rimarginate co' suoi balsami meravigliosi. Tu vivrai ancora, o Cristiano, alla gloria della tua terra e all'amore de' tuoi.
— Grazie! — rispose Arrigo, cadendo nelle braccia del suo generoso nemico. — Ma dimmi, sono io libero?
— Sì; partiremo questa notte per alla volta di El Kasr, dove io debbo recarmi, e laggiù provvederemo al tuo tragitto, se pure desideri di abbandonarmi così presto.
— El Kasr! — esclamò il vecchio Zeid. — Tu pensi davvero, mio signore, di tornare in Egitto? E tuo fratello?
— Mostalì ha reso la sua anima a Dio, che la ricompenserà secondo i suoi meriti; — disse gravemente Bahr Ibn. — Ho avuto l'annunzio in Acco, e son partito senza indugio. Mostalì lascia un figlio, Amar, di cinque anni appena....
— E tu pensi?
— Di assumere la tutela. Non sono io l'unico superstite dei figli di Mostanser Billah?
— Mio signore, — ripigliò il vecchio, — non rammenti come sia possente El Afdhal?
— Lo combatterò.
— Con quali forze? E mentre i Franchi saranno pronti a trar profitto delle nostre discordie? —
Lo Sciarif rimase sopra pensieri. Troppo peso avevano gli argomenti del vecchio servitore, ed egli non aveva nulla da opporgli.
— Potresti aver ragione; — brontolò egli, dopo alcuni istanti di pausa. — Ma andrò cionondimeno a vedere. Dice il libro: «L'uomo non muore che per volontà di Dio, secondo il termine assegnato nel volume del destino.» Mettiamo la nostra fiducia in Dio. Il libro dice ancora: «Se Dio viene in vostro aiuto, chi potrà vincervi? Se vi abbandona, chi potrà darvi soccorso?»
— Che egli ti ascolti, mio signore! — disse Zeid inchinandosi. — E quando pensi di ripartire, perchè noi ci prepariamo a seguirti?
— Questa notte. Il viaggio farà bene anche a te, ospite cristiano; — soggiunse lo Sciarif, volgendosi ad Arrigo da Carmandino; — ma perchè forse non saresti in caso di tenerti ritto in sella, monterai sulla nave del deserto. —
Gli Arabi, siccome è noto, chiamano nave del deserto il cammello e il dromedario.
— Amico, — disse Arrigo timidamente, — se tu volessi compiere l'opera tua....
— Chiedi; — rispose Bahr Ibn. — Che altro posso io fare per te?
— Son libero, hai detto?
— Come il vento e come il mare, come la gazzella che fugge stampando a mala pena le orme sulla sabbia, come il leone che regna solitario nella pianura, sei libero.
— Orbene, — ripigliò Arrigo da Carmandino, — rimandami a Cesarea.
— Per far che?
— Ma.... — disse il giovine crociato; — i miei compagni staranno in pensiero per me.
— I tuoi compagni! — ripetè Bahr Ibn. — Essi hanno da lunga pezza abbandonato Cesarea. La città è rimasta ai Franchi, pei quali sembra che l'abbiano essi conquistata. —
Arrigo da Carmandino rimase attonito a quell'annunzio inatteso.
— E non c'è dunque più un genovese?
— Neppur uno. Prima che io abbandonassi le mura di Acco, giungeva un mercante giudeo reduce dalla vostra conquista, ed ebbi da lui confermata la nuova che l'armata de' tuoi concittadini ripigliò il mare pochi giorni dopo la espugnazione della città. A quest'ora i tuoi compagni d'armi sono tutti alle loro case, e mediteranno già nuove imprese contro di noi. —
Arrigo trasse un profondo sospiro dal petto.
— E mi crederanno morto! — diss'egli. — Se almeno si trovasse una vela!
— Meglio ti converrà prendere il mare a Damietta; — notò affettuosamente Bahr Ibn. — Io stesso ti darò la nave che dovrà ricondurti alla tua gente. Vedi, del resto, io ora non potrei accompagnarti in Cesarea senza pericolo. Nè a te converrebbe andar solo, colle vie piene di ladroni. E poi, dimmi, t'incresce egli tanto di restare per qualche tempo col tuo servo? —
Arrigo gli strinse la mano in aria di ringraziamento.
— Non dubitare; — proseguì il Saracino; — mentre noi andiamo verso l'Egitto, uno de' miei tornerà in Acco e manderà in Cesarea il mercante giudeo, per avvisare i Franchi che tu sei vivo. Noi stessi, per via, se ci imbatteremo in qualche figlio d'Israele, manderemo tue nuove a Gerusalemme e al porto di Giaffa, nella speranza che qualcheduno le rechi in Occidente ai tuoi cari. Ma certo, — soggiunse Bahr Ibn, con piglio risoluto, che non ammetteva contrasti, — tu giungerai alla tua terra prima d'ogni altro messaggio. —
Arrigo da Carmandino alzò gli occhi al cielo, pregando Iddio che accogliesse l'augurio del suo ospite, del suo salvatore.
Quella medesima notte la cavalcata dello Sciarif ripartiva da Thaanach, prendendo la via di levante, verso i monti di Gelboà, varcati i quali doveva scendere nella valle di Zartan, guadare il Giordano, e di là, per la montagna di Galaad, andare a trovare la vecchia strada dei pellegrini maomettani, da Damasco alla Mecca.
Col nuovo reame cristiano di Gerusalemme piantato tra il monte Carmelo e quello di Giuda, era quell'unica strada sicura che rimanesse ai Saracini, tra l'Egitto e le coste di Sorìa, che ancora per poco dovevano restare in poter loro.